Immagina una città senza auto
25 min letturaAria pulita, inquinamento acustico ridotto, strade libere dal traffico. Sono tanti i racconti di chi durante il lockdown ha avuto la sensazione di abitare in luoghi più vivibili e di potersi riappropriare degli spazi delle proprie città, percorrendole a piedi, in bici o sui mezzi pubblici.
Una percezione di una migliore qualità del vivere – seppure in condizioni di distanziamento fisico e di severa limitazione degli spostamenti, se non quelli strettamente necessari – che ha spinto urbanisti, sindaci e amministratori di diverse città nel mondo a interrogarsi su come rendere ordinaria una situazione particolare, dettata da circostanze decisamente straordinarie, a riflettere sull’opportunità di incentivare forme alternative di spostamento alle automobili private, e sulla possibilità di immaginare concretamente città senza auto. Come l’opinionista del New York Times Farhad Manjoo che, partendo della sua esperienza a Manhattan durante il lockdown, ha pubblicato un articolo dal titolo molto emblematico “Ho visto un futuro senza auto ed è magnifico”.
Il timore generalizzato era che all’indomani dell’allentamento dei lockdown tutto tornasse come prima o che, addirittura, aumentassero le persone che avrebbero preferito l’auto privata ad altre modalità di spostamento perché ritenuta più sicura di fronte al rischio di poter essere contagiati in ambienti sovraffollati come i mezzi di trasporto pubblico. La questione è delicata: come disincentivare l’uso massiccio delle automobili evitando al tempo stesso il sovraffollamento dei mezzi di trasporto pubblico che potrebbero diventare pericolosi luoghi di contagio?
In una lettera aperta ai residenti della città, il ministro dei Trasporti regionale di Bruxelles, Elke Van de Brandt, ha esortato i cittadini a lasciare il trasporto pubblico solo a coloro che non hanno altra scelta ma di evitare di spostarsi nelle auto private. Dall’inizio di maggio, la città ha iniziato a dare priorità a pedoni e ciclisti nelle strade notoriamente difficili per loro da percorrere, sono stati creati altri 40 chilometri di nuove piste ciclabili e si è pensato a restrizioni per i veicoli e misure per facilitare l’acquisto di biciclette a basso costo.
“Nelle ultime settimane a Bruxelles, l’inquinamento acustico è stato sostituito dal canto degli uccelli. Facciamo in modo che i suoni del traffico restino un ricordo del passato. Solo due mesi fa la nostra città era piena di automobili, l’aria era praticamente irrespirabile. Se tutti coloro che hanno utilizzato i trasporti pubblici prima della pandemia ora iniziano a spostarsi in auto, finiremo con il peggiorare la situazione già solo a Bruxelles. Ingorghi, inquinamento atmosferico e mancanza di sicurezza sulle strade non sono il modo per uscire da questa crisi sanitaria”, si legge nella lettera.
Dello stesso tenore le dichiarazioni del ministro dei Trasporti del Regno Unito, Grant Shapps: “Durante questa emergenza, milioni di persone hanno scoperto il ciclismo, sia come esercizio fisico sia come mezzo di trasporto sicuro e socialmente distante. Sappiamo che le auto continueranno a rimanere vitali per molti, ma guardando al futuro dobbiamo costruire un paese migliore con abitudini di viaggio più ecologiche, aria più pulita e comunità più sane. Ora che il paese torna al lavoro, abbiamo bisogno che queste persone rimangano in sella alle loro bici e anzi il loro esempio venga seguito da molti altri".
Il governo ha annunciato un investimento di oltre 2 miliardi di euro per incentivare gli abitanti del Regno Unito a usare le biciclette e ad andare a piedi attraverso la realizzazione di piste ciclabili, l’ampliamento degli spazi riservati ai marciapiedi, ai corridoi per le bici e gli autobus. Inoltre, sono state chiuse al traffico anche piccole strade alternative utilizzate di solito dai conducenti delle autovetture per evitare le arterie trafficate, mentre sono in previsione un piano di 250 chilometri di piste ciclabili protette a Manchester e una “metropolitana per le bici” a Londra, i cui percorsi seguiranno le linee della metro. Per far sì che le autorità locali possano continuare a disincentivare l’uso delle automobili, è stato predisposto un fondo d’emergenza di 280 milioni di euro.
La capitale colombiana, Bogotà, ha incrementato di quasi 76 chilometri la superficie destinata alle piste ciclabili per ridurre il sovraffollamento dei trasporti pubblici e provare a prevenire la diffusione di COVID-19. Città del Messico ha proposto di quadruplicare la sua rete ciclistica. Milano si è trovata nella necessità di integrare il sistema dei trasporti in modo tale da non sovraccaricare i mezzi pubblici (utilizzati quotidianamente dal 55% dei cittadini) ed evitare che in molti ricorressero alle auto per andare a lavorare. Durante l'estate, il nucleo della città dovrebbe essere rimodellato per destinare 35 chilometri di spazio stradale precedentemente utilizzato dalle auto a biciclette e pedoni. Le vetture ammesse al centro dovranno rispettare un nuovo limite di velocità ridotto di 30 chilometri orari. L'obiettivo è rendere il traffico più fluido e dare ai pedoni più spazio per diffondersi in sicurezza. A Glasgow, in Scozia, Christy Mearns, consigliera del partito dei Verdi scozzesi per il centro cittadino, ha proposto di togliere spazi a parcheggi e carreggiate da destinare a piste ciclabili e di convertire marciapiedi e gli angoli dei parcheggi in oasi verdi. «La pandemia è stata devastante, ma ha dato l’opportunità di pensare a quanta superficie stradale è dedicata alle auto», dice Mearns al Financial Times.
Anche la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, appena rieletta, ha dichiarato che il ritorno a una città dominata dalle auto dopo la pandemia è “fuori da ogni questione”. Hidalgo ha fatto della città senza automobili uno dei fulcri della sua politica: il traffico nella capitale francese è diminuito del 40% negli ultimi dieci anni. Nel 2016 Parigi aveva attirato l'attenzione internazionale dopo aver superato Delhi e Pechino per la peggiore qualità dell'aria tra le principali città globali. Il prossimo obiettivo è vietare la vendita di auto a diesel e benzina entro il 2040. Intanto, una delle strade più trafficate della città, Rue de Rivoli, che ospita il famoso museo del Louvre, pedonalizzata durante il lockdown, resterà chiusa alle auto per tutta l’estate e si dice che la decisione possa diventare permanente, mentre è stata pianificata una rete di nove piste ciclabili che collegheranno il centro di Parigi con le periferie.
La #VilleDuQuartDHeure, c’est quoi ? C’est la ville des proximités où l’on trouve tout ce dont on a besoin à moins de 15 minutes de chez soi. C’est la condition de la transformation écologique de la ville, tout en améliorant la vie quotidienne des Parisiens. ⤵️ #Hidalgo2020 pic.twitter.com/lcQbPAjdxj
— Anne Hidalgo (@Anne_Hidalgo) January 21, 2020
Prima della pandemia, durante la campagna elettorale, Hidalgo aveva lanciato l’idea della “Ville du quart d’heure” (ndr, città del quarto d’ora) – un progetto ideato dal professore della Sorbona, Carlos Moreno – dove tutti i servizi essenziali siano raggiungibili in 15 minuti a piedi o in bicicletta. L’obiettivo della riduzione dei livelli di inquinamento atmosferico non può essere raggiunto se non pensato all’interno di una trasformazione complessiva dei nostri centri urbani che migliori la qualità della vita da un punto di vista ambientale, di usi dello spazio e di accessibilità ai servizi. In altre parole – è il pensiero della sindaca di Parigi – c’è bisogno di un cambio di paradigma: è arrivato il momento di iniziare a ragionare sui tempi delle città e sulle conseguenze sociali, psicologiche ed economiche della frammentarietà delle grandi metropoli (dove i cittadini sono costretti a passare ogni giorno molte ore per raggiungere i luoghi di lavoro, le scuole, i negozi, i supermercati, gli impianti sportivi, i parchi pubblici), e pensare a città organizzate intorno ai servizi di prossimità e al vicinato, in cui le auto non sono più indispensabili per spostarsi. In questo senso, spiega il prof. Moreno, il passaggio di massa al “lavoro da casa” ha mostrato in tutta la sua evidenza quanto sono dispendiosi ed evitabili i lunghi spostamenti da una parte all’altra della città per andare a lavorare. La “città del quarto d’ora” si fonda su una ottimizzazione del rapporto tra tempi e spazi della città, riduce al minimo gli spostamenti e favorisce l’attività fisica, inducendo a spostarsi a piedi o in bici.
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La “città del quarto d’ora” non è un’idea che nasce dal nulla. Più di dieci anni fa, l’amministrazione di Portland, ha proposto i “Quartieri di 20 minuti”, il cui obiettivo era – secondo la direttrice dell'Ufficio di pianificazione e sostenibilità, Susan Anderson – rendere la città prospera, sana, connessa ed efficiente. Nel 2017, a Melbourne, in Australia, è stata avviata la sperimentazione della “città in 20 minuti” che, spiegano i professori John Stanley dell’Università di Sydney e Roz Hansen dell’Università di Melbourne, non riguarda solo “il camminare ed eliminare le auto dalla città”, ma “pensare un processo di sviluppo concatenato ed equilibrato dei quartieri che compongono una città, in cui le persone, i posti di lavoro e i servizi, comprese le opportunità ricreative e la natura, siano accessibili”.
Modelli simili cominciano a essere presi in considerazione da altre città, come annunciato recentemente, ad esempio, dal sindaco di Milano, Sala. L’area dove si trova il Lazzaretto (una grande chiesa che durante la peste del 1578 fu trasformata in ospedale per accogliere gli infermi) potrebbe ospitare un progetto pilota per “ripensare i ritmi” del capoluogo lombardo. Il piano è “offrire servizi nello spazio di 15 minuti a piedi da casa” per “migliorare la qualità della vita” degli abitanti, ha dichiarato il sindaco.
Un paesaggio urbano dominato da automobili
La lunga transizione verso le città senza auto. Alcune sperimentazioni nel mondo
Obiezioni, resistenze al cambiamento e possibili soluzioni
Un paesaggio urbano dominato da automobili
Negli ultimi 100 anni, il paesaggio urbano è stato dominato dalle macchine. Uno dei simboli del boom economico, la macchina ha esteso a tutte le classi sociali la libertà di movimento, una condizione in precedenza privilegio delle élite. Una delle premesse economiche del fordismo, commenta Adam Rogers su Wired, era che i lavoratori avrebbero finalmente potuto permettersi le auto che costruivano. Da allora, è stata una escalation. Per fare solo l’esempio degli Stati Uniti, all'inizio del Novecento, gli americani possedevano solo poche migliaia di automobili. Alla fine della seconda guerra mondiale, erano 30 milioni. Nel 2017, le auto e i camion leggeri erano più di 193 milioni. Circa tre macchine ogni quattro adulti.
L’automobile ha rivoluzionato la mobilità e favorito gli spostamenti su larga scala, ma è anche vero che la sua diffusione e la percezione che non ci siano alternative a essa è stata agevolata da come sono state progettate e organizzate le città moderne. Molte aree urbane sono state costruite intorno alle auto con enormi quantità di spazio riservate a carreggiate e parcheggi. «In questo momento, le auto – non le persone – sono la forma di vita dominante nella maggior parte delle nostre città», commenta Daniel Kammen, professore di energia all'Università della California, Berkeley, negli Stati Uniti. «Per molte persone possedere un'auto significa libertà e status sociale», aggiunge Janette Sadik-Khan, che negli anni in cui è stata commissaria per i trasporti della città di New York, ha pedonalizzato parte della metropoli, tra cui Times Square, e ha creato centinaia di chilometri di nuove piste ciclabili. «Ma se una città non ti offre altra scelta che guidare, un'auto non è libertà, è dipendenza. Se non puoi fare altro che guidare per ogni spostamento che ti tocca, non è colpa tua. La tua città ha fallito».
Le auto hanno fatto in modo che si perdesse lo scopo fondamentale delle città: riunire molte persone in uno spazio da condividere in cui poter sviluppare sinergie sociali, culturali ed economiche, scrive J. H. Crawford, autore dei libri "Carfree Cities" e "Carfree Design Manual" e direttore del sito Carfree.com. Il risultato di questa dipendenza della città e degli abitanti dalle automobili è la congestione del traffico, l’innalzamento delle emissioni, i centri urbani che si svuotano al termine della giornata lavorativa, i sobborghi e le periferie che si riempiono di macchine in coda per un incredibile spreco di risorse e tempo che si potrebbe dedicare alla propria vita personale. "Oltre ai ben documentati problemi di inquinamento atmosferico e ai milioni di morti causati dal traffico ogni anno, il più grande effetto che le auto hanno sulla società è l'enorme danno che fanno agli spazi sociali", aggiunge Crawford.
Street Equity for 50 People.@TransAlt @NYC_DOT
We need more streets like #14thstreet pic.twitter.com/QjkOw96Zhi
— Vishaan Chakrabarti, FAIA (@VishaanNYCA) October 6, 2019
Secondo l’urbanista Vishaan Chakrabarti, è una questione di equità e giustizia degli spazi. Cinquanta persone che si spostano da una parte all’altra della città occupano molto meno spazio se lo fanno in autobus e non ciascuno nella propria automobile. Un autobus occupa quasi 140 metri quadri di spazio e avremmo le corsie libere. Cinquanta automobili hanno bisogno di oltre 800 metri quadri. Inoltre, le auto hanno bisogno di essere parcheggiate e, quindi, occupano spazio lungo i lati delle strade o per i garage anche quando non sono utilizzate. E continuano a occupare le strade (che potrebbero essere libere) anche per la semplice ricerca di un parcheggio.
Una gif pubblicata dal Washington Post nel 2016 rende molto bene l’idea di quanto affermato da Chakrabarti. Le immagini mostrano il diverso impatto di auto, bici e pedoni sulla 2nd Avenue di Seattle. Nel primo fotogramma si vede la strada occupata da 200 persone in 177 automobili; nel secondo, le auto sono state rimosse e ci sono solo le persone presenti negli abitacoli per mostrare che all'interno di ogni veicolo raramente c’era più di una persona e lo spazio perso per le dimensioni delle automobili è incredibile; gli altri fotogrammi evidenziano che lo stesso numero di persone su biciclette o mezzi pubblici consentirebbe di ridurre da cinque a uno il numero delle corsie occupate.
«Sembra davvero che ci sia una maggioranza silenziosa che non ha alcuna voce in capitolo su come viene utilizzato lo spazio pubblico», commenta Chakrabarti al New York Times. Più spazi si danno alle auto, più guidare sarà ritenuta la scelta “migliore”, e così ci sarà sempre più bisogno di strade, si genererà più traffico: un circolo vizioso che ha l’effetto di coprire sempre più di asfalto le nostre città. Si crea una sorta di “domanda indotta” che spinge a usare le automobili (e a non prendere nemmeno in considerazione la possibilità di muoversi in altri modi) anche quando non ce ne sarebbe effettivo bisogno. “Se tutti guidano, nessuno si muove [ndr, in altri modi]”, dice sempre al New York Times Brent Toderian, ex city planner di Vancouver. Andare in bici, su uno skateboard, su monopattini elettrici, in bus pubblici, sembrano tutte opzioni meno comode e più pericolose. Ma questo perché si continua a immaginare gli spostamenti in città secondo l’attuale contesto. Bisognerebbe combattere la dipendenza dalle automobili, soprattutto in quelle città che non lasciano altre alternative allo spostarsi in auto. Ridurre questa dipendenza faciliterebbe gli spostamenti di tutti, anche di chi non possiede un’auto.
La lunga transizione verso le città senza auto. Alcune sperimentazioni nel mondo
Da alcuni decenni a questa parte un piccolo ma crescente numero di città sta provando a progettare paesaggi urbani completamente senza automobili. Le sperimentazioni sono graduali per lo più legate all’esigenza di abbattere i livelli di inquinamento e di congestione del traffico nelle città.
A Città del Messico, ma anche nelle principali città italiane, spesso e volentieri, in diversi momenti dell’anno, si è fatto ricorso alle targhe alterne, per cui in una determinata giornata ci si poteva spostare con la propria macchina nei centri urbani a seconda che la propria targa finisse con un numero pari o dispari. A Londra, Singapore e Stoccolma sono state introdotte le tasse sul traffico. Alcune amministrazioni hanno iniziato a pedonalizzare parte dei propri centri cittadini per poi via via estendere a sempre più ampie porzioni di città il divieto di circolare con le auto private. Ma piano piano i progetti sono diventati sempre più complessi, inserendo la revisione dei piani di mobilità all’interno delle città nella più ampia pianificazione degli spazi pubblici, da restituire alla loro dimensione di luoghi di interazione e aggregazione. In sintesi, ci si è spostati da un approccio ancora gravitante intorno all’automobile a uno che pone al centro la socialità degli spazi urbani e in cui la macchina non è che uno dei tanti modi in cui ci si può spostare.
Una delle prime città a pensare questa transizione è stata Oslo negli anni '70, prima con la pedonalizzazione del centro e poi, negli ultimi decenni, con la trasformazione di parti di strada destinate al parcheggio delle automobili in piste ciclabili, parchi e panchine. Contestualmente, sono stati investiti fondi per rafforzare il trasporto pubblico, riprogettare le strade e introdurre un sistema di bike sharing. Fino ad arrivare al progetto di “auto zero in centro entro il 2019”. Attualmente, quasi tutto il centro è stato chiuso alle auto.
Nei decenni successivi altre città di media e grande dimensione hanno percorso la strada di Oslo. In Spagna, Madrid si è proposta di rendere il cuore della capitale una “zona a bassissime emissioni”, proibendo l’accesso delle auto fatta eccezione per i residenti registrati e vietando i veicoli a gas e a diesel più obsoleti. Un programma simile è stato lanciato a Parigi. A Barcellona, invece, parti della città sono configurate in spazi pubblici pedonabili e pazialmente chiusi al traffico, chiamati "superblocchi". All'interno di queste aree, la circolazione delle auto è vietata o limitata (a quelle dei residenti), con una velocità massima di 20 km/h, la priorità è data ai pedoni e alle biciclette e gli spazi verdi vengono recuperati e creati grazie alla riduzione dei parcheggi.
In Nord America, i nuovi viali del centro di Toronto sono stati quasi vietati a quasi tutte le auto e hanno visto aumentare il numero di passeggeri sui mezzi pubblici. Negli Stati Uniti, il processo è più lento. C’è stata una sperimentazione a New York, sulla Quattordicesima strada e, riporta Bloomberg, i risultati del decongestionamento sembrano evidenti. I dati mostrano che le strade verso le quali è stato deviato il traffico non sono più congestionate, gli spostamenti in autobus sono più rapidi del 30% e questo ha facilitato i movimenti delle persone in quella parte della città. Inoltre, lo spazio, precedentemente occupato dalle automobili, è diventato luogo di incontro e di sosta per i cittadini che si spostano in bici o a piedi.
A San Francisco, nel 2009, l’allora sindaco Gavin Newsom (ora governatore della California) ha dovuto vincere molte resistenze per limitare l’accesso delle auto su Market Street, una delle vie principali del centro e simbolo delle disuguaglianze sociali in città, con Twitter e altri giganti della tecnologia che condividono gli spazi con senzatetto che dormono sui marciapiedi. I funzionari di San Francisco hanno in programma di ridurre le dimensioni della strada, allargare i marciapiedi e aggiungere una pista ciclabile larga circa 2 metri e mezzo per biciclette e scooter elettrici.
Altri progetti pilota di pedonalizzazione sono in via di attuazione a Denver, Santa Monica, Madison, Charlottesville e Chicago.
Oslo, Norvegia: la città verde europea nel 2019
Oslo è la prima capitale al mondo che ha deciso di liberarsi del tutto delle auto. Nel 2015, la nuova amministrazione progressista, appena insediata, si era prefissata un piano molto ambizioso: vietare il transito delle auto a combustibile fossile nel centro cittadino. L’obiettivo era “zero auto in centro entro il 2019”. All’epoca, il 70% delle emissioni in città proveniva dal traffico e un terzo della cittadinanza (200mila abitanti sui 600mila complessivi) era potenzialmente a rischio a causa dell’aria inquinata al punto da costringere il Comune a istituire “blocchi del traffico” per diversi giorni in inverno. Il piano incontrò diverse resistenze da parte di commercianti e imprenditori, preoccupati di perdere clienti e avere problemi con le consegne. L’amministrazione decise così di procedere più gradualmente. Attualmente, è stata ridisegnata un’area di 1,3 chilometri quadrati: quasi tutto il centro città è stato chiuso alle auto, sono stati rimossi 700 parcheggi, sostituiti con piste ciclabili, alberi, piante e parchi. Sono stati rafforzati i trasporti pubblici con partenze più frequenti e biglietti più economici.
Così facendo, nel 2019 Oslo è stata riconosciuta dalla Commissione Europea “capitale green dell’Europa” in quanto le sue politiche urbane possono essere modello e ispirazione per altre città europee. Questo è stato possibile perché la capitale norvegese non si è limitata a pensare dei blocchi – permanenti o temporanei – per le auto in centro, ma ha ridisegnato tutto quello che c’è intorno all’uso delle macchine seguendo quattro assi: biodiversità, trasporti pubblici, coesione sociale, salute pubblica. Solo con la convergenza di tutti questi aspetti, è possibile pensare a città senz’auto. L’obiettivo è ridurre del 95% le emissioni di CO2 entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.
«Le città, come Oslo, sono state costruite per le auto per diversi decenni ed è giunto il momento di cambiarle», spiega a Fast Company Hanna Marcussen, vice sindaca di Oslo con delega allo sviluppo urbano. «Sono certa che quando le persone immaginano la loro città ideale, non pensano all’aria inquinata, ad automobili bloccate nel traffico o a strade piene di macchine parcheggiate». Tuttavia, prosegue Marcussen, si tratta di una sfida complessa perché «cambiare le abitudini consolidate è difficile. Le auto sono state viste a lungo come uno status symbol, e immagino che sia così ancora oggi per molte persone. Dobbiamo pianificare meglio le nostre città per il futuro, in modo che l'automobile privata non sia una priorità e la premessa per costruire le nostre città».
La transizione verso una città senza auto di Oslo non è arrivata all’improvviso, per una idea di un’amministrazione sognatrice, ma è per certi versi in continuità con alcune scelte fatte dalle amministrazioni precedenti da 50 anni a questa parte: negli anni ‘70 furono rese pedonali alcune strade del centro cittadino, mentre negli anni ‘80 furono fatti notevoli investimenti nei trasporti pubblici.
Gli interventi sono stati di diverso tipo. È stato innanzitutto pensato un sistema della mobilità urbana che integrasse trasporti pubblici, piste ciclabili e aree pedonali. Per fare questo, come detto, sono state aumentate le corse degli autobus di città, sono state erogate sovvenzioni per aiutare i cittadini ad acquistare biciclette elettriche, è stato reso capillare in più punti della capitale il sistema di bike sharing (con il risultato che il numero di bici usate è stato triplicato dal 2015 al 2018, arrivando a quasi 3 milioni), le biciclette sono state dotate di copertoni a spillo per l’inverno. «Abbiamo notato che più si rende confortevole andare in bici, più aumentano le persone che le utilizzano, meno sono quelle che vanno in auto, meno gli autobus sono sovraffollati», racconta Axel Bentsen, CEO di Urban Sharing, la società che gestisce Oslo City Bike, il sistema locale di bike sharing.
Contestualmente è stato ridisegnato il piano della viabilità. I cittadini che hanno necessità di spostarsi in auto possono utilizzare delle circonvallazioni in modo tale da non passare per il centro della città, mentre alcune strade sono state aperte ai camion un paio d’ore al mattino per le consegne. Possono passare solo i mezzi d’emergenza. I parcheggi sono stati trasformati in stazioni per la ricarica di veicoli elettrici e in aree parcheggio per conducenti disabili.
«In tutte le nuove strade abbiamo fatto una nuova pavimentazione. Abbiamo allargato i marciapiedi che ora possono occupare i due terzi della strada. E al centro, ci sono le piste ciclabili. Laddove c’erano posti auto abbiamo installato nuove panchine, perché ci siamo resi conto che Oslo aveva delle pessime panchine pubbliche e che ti potevi sedere comodamente solo nei bar, a pagamento», spiega a Presa Diretta Sigurd Oland Nedrelid, responsabile comunicazione del programma Oslo car-free.
Alcuni spazi inutilizzati a poca distanza dal centro città e dalla tangenziale sono stati trasformati in grandi fattorie urbane, aperte a tutti, dove ognuno può coltivare i prodotti o andarli a mangiare.
Di pari passo, è stata avviata la transizione verso l’energia elettrica. Come prima cosa, la città ha pianificato la realizzazione delle infrastrutture elettriche. I nuovi capolinea degli autobus sono delle stazioni di ricarica ad alta velocità, in grado di portare il mezzo all’80% di energia in soli 7 minuti. Tutti i nuovi autobus saranno elettrici, così come i traghetti, responsabili del 10% delle emissioni attuali, e dal 2023 tutti i taxi. Anche il settore delle costruzioni e dell’edilizia si sta riconvertendo per diventare a basse emissioni. Lo Stato sostiene le auto elettriche non tanto con incentivi economici all’acquisto, quanto con un mix di agevolazioni: esenzione dai pedaggi per entrare in città [ndr, le auto a benzina o diesel pagano fino a 6 euro per ogni ingresso in città] e dal bollo e dalle tasse d’immatricolazione, esenzione dell’IVA per l’acquisto e il noleggio, sconti sull’assicurazione, possibilità di circolare sulle corsie preferenziali e parcheggio gratuito nei nuovi parcheggi comunali. Inoltre, la ricarica delle auto elettriche è più economica del rifornimento di quelle a gas, benzina o diesel (costa quasi un quinto in meno) perché la Norvegia produce quasi al 100% da fonti rinnovabili, soprattutto energia idroelettrica.
Infine, Oslo si sta adattando anche agli effetti dei cambiamenti climatici che significano piogge sempre più frequenti e violente che causano diverse alluvioni ogni anno. Negli ultimi anni è stato ripristinato il corso originale di otto fiumi, che erano stati interrati per fare posto a strade ed edifici, per un totale di 2,8 chilometri. Intorno al letto del fiume Hovinbekken sono stati creati un nuovo parco, aree giochi, piste ciclabili.
Parigi, Francia: la città del quarto d’ora
Welcome to the 15-minute city https://t.co/0bmsGd8qSw
— Financial Times (@FT) July 17, 2020
Durante la campagna elettorale che ha portato alla sua rielezione come sindaca di Parigi, Anne Hidalgo ha lanciato l’idea della città del quarto d’ora, dove tutti i servizi essenziali, il lavoro e le attività ludiche e ricreative siano raggiungibili nell’arco di 15 minuti a piedi o in bicicletta.
Secondo il progetto, ideato da Carlos Moreno, professore alla Sorbona, per abbassare i livelli di inquinamento dei centri urbani va totalmente cambiato il modo di concepire la città, invertendo la piramide che attualmente vede i veicoli a motore al suo vertice e mettendo i cittadini al centro della città. E per farlo, bisogna riorganizzare l’equilibrio tra spazi e tempi della città.
«Dobbiamo reinventare l'idea di prossimità urbana», spiega Moreno al Guardian. «Se le persone lavorano vicino a dove vivono, possono fare shopping nelle vicinanze e avere il tempo libero e i servizi di cui hanno bisogno intorno a loro, possono avere un'esistenza più tranquilla». Sotto questo aspetto, l’esperienza forzata di lavoro da casa sperimentata durante i lockdown praticamente in tutto il mondo può essere la leva per ripensare anche tempi e luoghi del lavoro e favorire l’applicabilità dell’idea della città del quarto d’ora.
Nelle grandi città sentiamo tutti di non avere tempo, ci precipitiamo da un posto all’altro, cercando sempre di guadagnare tempo. E l’auto è il mezzo che ci sembra più efficace per soddisfare le nostre esigenze. Invece, non ci rendiamo conto che il pendolarismo è costoso sotto ogni aspetto, solo perché non abbiamo l’alternativa sotto mano, prosegue Moreno. «Non c'è piacere, non c'è conforto: prendi la metropolitana o il treno suburbano e vedi persone che sono in uno stato di stress e angoscia. Dobbiamo interrompere questo ritmo della vita delle persone. La città del quarto d’ora ha dietro un approccio radicale che trasformerà gli stili di vita».
«Ovviamente – spiega ancora Moreno – non vogliamo obbligare le persone a rimanere nel raggio di 15 minuti. Non vogliamo replicare un villaggio. Vogliamo creare una migliore organizzazione urbana che rimodelli il rapporto tra i cittadini e il ritmo della vita in città». Per far sì che questo accada, il professore immagina lo sviluppo di servizi multifunzionali, spazi che abbiano al loro interno aree di lavoro, ludiche, formative. «Potremmo utilizzare le scuole per altre attività durante il fine settimana o immaginare hub di coworking. Un quartiere non è solo un assemblaggio di edifici ma una rete di relazioni sociali», commenta Moreno, parafrasando la studiosa statunitense Jane Jacobs.
La proposta di Hidalgo e Moreno trova terreno fertile nella storia ormai cinquantennale di "riconquista dello spazio pubblico" di Parigi, come l’ha definita l’economista dei trasporti dell’Università di Lille, Fréderic Héran, in un articolo sulla rivista francese Les Cahiers Scientifiques du Transport. I sindaci precedenti hanno posto le basi fondamentali per il loro progetto, scrive Héran.
Fu l’ex presidente francese conservatore Jacques Chirac, quando era sindaco di Parigi tra il 1977 e il 1995, a trasformare gli Champs-Elysees in una passeggiata pubblica, allargando i marciapiedi, introducendo aree verdi ed eliminando i parcheggi, e a inserire i dissuasori per impedire che venissero parcheggiate le auto sui marciapiedi. Nel 1996, il successore di Chirac, Jean Tibéri, introdusse il primo piano ciclistico della città. Nel suo mandato, durato 13 anni, tra il 2001 e il 2014, il socialista Bertrand Delanoë ha creato oltre 400 chilometri di piste ciclabili, ha realizzato corsie preferenziali per gli autobus, ha chiuso al traffico le sponde della Senna e ha introdotto il primo programma di bike sharing.
Anne Hidalgo ha proseguito questa tradizione, pedonalizzando le banchine inferiori della Senna, chiudendo al traffico molte grandi piazze della città, ampliando il numero di mezzi e la rete di trasporto pubblico.
Pontevedra, Spagna: la prima città senz’auto in tutto il centro storico e i quartieri esterni
Dal 2001, Pontevedra, cittadina di 84mila abitanti della Galizia, in Spagna, al confine con il Portogallo, ha creato una zona senza auto estesa a tutto il centro storico e ai quartieri esterni e imposto un limite di velocità di 30 km/h in quelle strade dove il traffico è ancora consentito. Il piano è stato messo in atto da Miguel Anxo Fernández Lores, sindaco della città galiziana dal 1999. Possedere un'auto non ti dà il diritto di occupare lo spazio pubblico, spiega il sindaco al Guardian: «Il centro storico era morto. Era pieno di macchine, era diventato una zona marginale, circolavano molte droghe. Era una città in declino, inquinata, stagnante, con tanti incidenti stradali. La maggior parte delle persone che aveva avuto la possibilità di andarsene lo ha fatto. Inizialmente abbiamo pensato di migliorare le condizioni del traffico, ma non siamo riusciti a elaborare un piano realizzabile. Allora, abbiamo deciso di restituire lo spazio pubblico ai residenti e abbiamo deciso di sbarazzarci delle auto».
E così la circolazione delle automobili è stata circoscritta a un’area molto limitata della città, sono stati eliminati i semafori (al loro posto, agli incroci, ci sono delle rotonde) e i parcheggi di superficie, sostituiti da parcheggi sotterranei per un totale di 1.686 posti macchina. L'unico parcheggio di superficie disponibile è in periferia, a dieci minuti a piedi dal centro storico e gratuito. Proprio su quest’ultimo aspetto si concentrano le principali critiche al piano che avrebbe portato alla congestione delle periferie.
Per i cittadini e i turisti sono stati messi a disposizione due strumenti per orientarsi: Metrominuto, una app scaricabile su smartphone che permette di calcolare i tempi di percorrenza (a piedi) da un posto all'altro della città, e Pasominuto, venti itinerari all’interno di Pontevedra accompagnati dall’indicazione del numero di passi e le calorie bruciate per ognuno di essi.
Da quando, diciannove anni fa è partito il piano del Comune, il traffico è diminuito del 90% nel centro della città, il 70% degli spostamenti avviene a piedi o in bicicletta, l’inquinamento è calato del 65%, il numero degli incidenti è sceso dai 1.203 del 2000 ai 484 del 2014.
Obiezioni, resistenze al cambiamento e possibili soluzioni
La transizione verso città senza auto e organizzate per favorire modalità alternative di spostamento e una maggiore interazione tra i cittadini negli spazi pubblici sta incontrando molte resistenze, alcune simboliche e culturali, altre economiche e industriali.
Una città senza auto sembra una bella idea ma è possibile? E cosa fare con i servizi di emergenza? O con le persone che hanno problemi di mobilità? E che fare con chi abita in periferia che rischia di restare escluso e di subire addirittura contraccolpi negativi dalla pedonalizzazione di altre aree della città? Non c’è il rischio di creare ulteriori disuguaglianze? I dubbi e le questioni da affrontare e risolvere sono tante.
Innanzitutto, c’è tutto un immaginario legato all’automobile difficile da sradicare, scrive Farhad Manjoo sul New York Times: “l’automobile è più che un mezzo, è un rito di passaggio, è uno status symbol, è espressione di libertà. Negli USA è un simbolo dell’identità nazionale”.
Un grosso ostacolo è costituito poi dalle lobby automobilistiche che, scrivono Mark J. Nieuwenhuijsen (Centro di ricerca di epidemiologia ambientale, Barcellona) e Haneen Khreis (Istituto per gli studi sui trasporti, Università di Leeds) in uno studio dal titolo “Città senza auto: la strada verso una vita urbana sana”, pubblicato nel 2016 su Environment International, già in passato si sono opposte con successo a misure di restrizione del traffico o riduzione delle aree di parcheggio, hanno ritardato o fatto cadere piani di pedonalizzazione e indebolito normative sulle emissioni.
Inoltre, prosegue Manjoo, le soluzioni prospettate dall’industria automobilistica finora sono state fallimentari. I servizi di carpooling come Uber e Lyft hanno finito per congestionare il traffico, nonostante il loro obiettivo iniziale fosse proprio quello di ridurre il numero di auto di proprietà. Uno studio interno ha trovato che nel 2018 in sei città statunitensi il numero di chilometri percorsi in automobile è aumentato di quasi il 14% e molto spesso le auto di Uber e Lyft non avevano passeggeri a bordo e viaggiavano fuori servizio.
Anche le auto elettriche non sono la panacea ambientale: sono più efficienti di quelle a gas ma necessitano di materie prime difficilmente reperibili, come il cobalto (le cui riserve si trovano in regioni politicamente instabili e fragili, come la Repubblica Democratica del Congo, e per la cui estrazione vengono impiegati bambini) e il litio, e la loro produzione e successivo utilizzo avrà in ogni caso un impatto ambientale. Diverse ricerche pubblicate in questi ultimi anni concordano che in un contesto di mix energetico, le auto elettriche emettono tra il 25 e il 30% in meno di CO2 rispetto ai veicoli con motori a combustione. Una percentuale destinata a scendere man mano che il rapporto tra fonti fossili e rinnovabili si sposterà a favore di queste ultime. Tuttavia, sono ancora pochi gli studi in grado di valutare gli impatti climatici e ambientali complessivi di tale transizione. In ogni caso, le auto elettriche faticano a trovare un mercato perché sono ancora un bene di lusso. L’industria automobilistica è tuttora impegnata a promuovere i veicoli a gas e si stima che negli USA ci vorranno 15 anni per passare totalmente all’elettrico.
Né sono risolutive le auto senza conducente perché, spiega J. H. Crawford, chiedono ancora troppo spazio per i loro movimenti e consumano troppa energia.
Come spiega a Valigia Blu Elena Colli – dottoranda in Studi Urbani all’Università Bicocca di Milano con una ricerca su politiche urbane d’interesse ambientale e mobilità sostenibile – «per essere in qualche modo efficaci (dal punto di vista ambientale, di occupazione dello spazio, accessibilità, ecc.) deve accadere che le "tre rivoluzioni" (veicoli autonomi, auto elettriche, servizi di sharing) avvengano in modo coordinato e congiunto, con un controllo da parte dell'attore pubblico».
Se vorremo davvero realizzare un’alternativa a una città centrata intorno alle macchine, occorrerà «sviluppare un sistema integrato di mezzi pubblici e privati di ogni tipo, dai treni ai tram, dalle biciclette ai monopattini, dai pattini agli skate, ma anche ripristinare funicolari, trasporti fluviali, convertire autostrade in ferrovie, e magari usare con creatività mezzi di spostamento collettivo che ora non pensiamo in quest’ottica», aggiunge il giornalista Andrea Coccia, autore del recente libro “Contro l’automobile”.
Come si legge nel rapporto della Commissione europea “Il futuro del trasporto su strada”, pubblicato nel 2019, le grandi innovazioni tecnologiche nel settore dei trasporti da sole non miglioreranno le nostre vite se non si passerà da un sistema auto-centrico a uno che metta al centro i cittadini e una migliore qualità della vita delle persone. E questo non sarà possibile senza l’interoperabilità delle scoperte tecnologiche, senza il dialogo tra amministrazioni locali, governi nazionali e istituzioni internazionali, senza il coinvolgimento dei cittadini e delle industrie dei settori interessati.
Il miglioramento della governance e lo sviluppo di soluzioni innovative per la mobilità saranno cruciali per garantire che il futuro dei trasporti sia più salutare ed equo di quello attuale centrato sull'auto, si legge nel rapporto.
Alle stesse conclusioni giunge lo studio del 2016 di Mark J. Nieuwenhuijsen e Haneen Khreis. È probabile che le città senza auto private abbiano dei benefici diretti e indiretti per la salute delle persone, ma perché ciò accada sarà necessario avere un approccio più sistemico, riunendo intorno allo stesso tavolo pianificatori urbani e dei trasporti, ambientalisti ed esperti di salute pubblica. “La pianificazione di città senza auto – scrivono i due autori – richiede un impegno politico a lungo termine ai massimi livelli e il consenso da parte dei cittadini. Sono essenziali la stabilità politica, l'impegno dei partiti, al di là del loro schieramento, la partecipazione dei cittadini e delle imprese”.
L'entità esatta dei benefici e i potenziali effetti contrastanti (possibile inasprimento di disuguaglianze sociali ed economiche, impatti economici e ricadute sull’organizzazione della mobilità urbana) non sono ancora chiari e sarà necessario attendere ulteriori ricerche sulle nuove sperimentazioni di città senza auto in diverse parti del mondo per avere un quadro più esaustivo.
Tuttavia, spiegano Nieuwenhuijsen e Khreis, i primi studi mostrano che una città senza auto può portare a riduzioni significative dell’inquinamento atmosferico, acustico e delle temperature e, di riflesso, a minori morti premature e malattie. Inoltre, la maggiore mobilità attiva e attività fisica richieste per gli spostamenti senza macchine possono avere ricadute positive sulla salute pubblica, in generale, oltre a dare alle persone maggiori opportunità di interazione nello spazio pubblico.
Allo stesso tempo, la percezione di una migliore qualità di vita potrebbe rendere queste città più attrattive, il che potrebbe significare la necessità di più alloggi e strutture, fiducia degli investitori, circoli economici virtuosi. Ma, nel gestire questo processo, bisognerà stare attenti ed evitare che l’arrivo di nuove persone porti a un’espansione urbana non controllata e a un’ulteriore frammentazione delle città, con conseguente necessità di utilizzare la macchina per raggiungere le aree pedonali e quelle più attrattive.
Sarà importante anche prevenire possibili inasprimenti di disuguaglianze già esistenti. Ad esempio, la riorganizzazione del sistema della mobilità viaria potrebbe congestionare ulteriormente le aree intorno a quelle pedonalizzate oppure, in assenza di un servizio pubblico dei trasporti capillare, le persone che abitano lontano e che di solito fanno affidamento solo sulla propria auto per potersi spostare, potrebbero vedersi ancora di più escluse. Per questo, “una parte dei fondi dovrebbe essere destinata per garantire uno sviluppo equo in tutti i quartieri”.
Immagine in anteprima via Commissione europea