Di chi è Internet?
6 min letturaBruno Saetta
@valigiablu - riproduzione consigliata
È noto che Internet è stata sviluppata dagli americani, inizialmente come tecnologia militare. In seguito però se ne è avviata la privatizzazione trasferendo la gestione della Rete ad una serie di organismi privati, in particolare l'ICANN, al quale è delegata la gestione mondiale dei principali nomi a dominio dei siti web, un ente non profit che attualmente risponde all'NTIA, un'agenzia del Dipartimento USA del commercio. Poi c'è Verisign, azienda americana che funge da registrar e registry dei domini.
La Rete, quindi, rimane unita grazie alla gestione centralizzata degli standard di interconnessione e del sistema DNS dei nomi a dominio, tutti compiti demandati all'ICANN.
Fin dal momento in cui è iniziata l'esplosione del fenomeno Internet, come strumento di comunicazione globale, di innovazione e volano del commercio internazionale, si è posto con sempre maggiore forza il problema di sottrarre il controllo della Rete agli americani, quanto meno tagliando gli intrecci tra ICANN e governo USA. Cina, Russia, ma anche la Commissione europea, hanno sollecitato in tal senso, ottenendo nel 2009 un accordo che prevede il trasferimento del controllo sull'ICANN al GAC, Government Advisory Committee, un gruppo di supervisori internazionali. Comunque si tratta di un processo di liberalizzazione per il quale gli USA non sembrano avere alcuna fretta.
In ogni caso, fermo restando lo stretto legame tra ICANN e governo USA che ha consentito la confisca di domini registrati da soggetti non residenti oltre oceano anche in assenza di reati (vedi Rojadirecta, assolta in Spagna), in genere la crescita della Rete è avvenuta senza una regolamentazione ufficiale e con ingerenza minima da parte dei governi. Le regole, minime, sono quelle dell'accordo sulla liberalizzazione delle telecomunicazioni internazionali (ITRs, International Telecommunication Regulations) firmato nel 1988 in Australia.
Secondo alcuni ciò avrebbe contribuito a farla diventare un luogo di libertà di espressione, secondo altri ne ha determinato una vera e propria assenza di regole facendone una realtà fondamentalmente anarchica dove tutto è possibile senza alcuna conseguenza giuridica.
Comunque sia, questo stato di cose è destinato a mutare in breve tempo, probabilmente nel corso del 2012.
A fine febbraio di quest'anno, infatti, è iniziato a Ginevra un processo diplomatico che potrebbe tradursi in un nuovo trattato col quale le Nazioni Unite assumerebbero la diretta governance di internet.
La proposta in discussione per il prossimo incontro del WCIT fissato per dicembre a Dubai, prevede di assegnare tale controllo all'ITU (Unione Internazionale delle Comunicazioni), un organismo dell'ONU che si occupa della regolamentazione del traffico telefonico attraverso le frontiere, i cui membri sono ben 193 paesi.
L'idea di base è che se Internet è di tutti, allora deve essere sottoposto al controllo dell'ONU. Ma i paesi che maggiormente spingono in tale direzione sono quelli non particolarmente noti per la difesa della libertà di espressione in rete, come Russia e Cina. Con i loro alleati, infatti, vogliono ottenere una regolamentazione da codificare nel diritto internazionale.
Gli argomenti in discussione a dicembre saranno i seguenti:
- controllo della cyber sicurezza e riservatezza dei dati;
- addebito del traffico web internazionale a favore delle compagnie telefoniche straniere;
- imposizione di nuovi obblighi di tariffe, termini e condizioni sugli accordi di 'peering';
- controllo dell'ITU sull'ICANN;
- controllo dell'ITU sugli enti che fissano gli standard di Internet;
- regolamentazione delle tariffe di roaming.
Al di là dei termini tecnici e generici, nei fatti tutto questo vuol dire imporre una regolamentazione della Rete internet a mezzo dell'ITU.
Fino ad oggi, anche in virtù del fatto che la Rete nasce come strumento di comunicazione degli studiosi tra varie università, la governance della rete era affidata principalmente ad organizzazioni non governative secondo un metodo bottom-up, quello che si definisce il modello multi-stakeholder, che consente a tutti i soggetti interessati di dire la propria.
In tale quadro i governi hanno raramente imposto delle regole alla Rete, per lo più lasciando fare proprio le aziende che si trovano in rete. Ovviamente con l'esplosione di Internet, dai 16 milioni di persone del 1995 agli oltre due miliardi di soggetti connessi di oggi, i governi hanno iniziato ad accorgersi dell'importanza dello strumento, e quindi a immaginare modi per metterci le mani sopra. Anche perché la Rete, se da un lato può essere un fenomenale strumento di diffusione del dissenso, una volta regolamentata (controllata?) appare utile nella repressione di tale dissenso.
Secondo molti commentatori sostituire all'attuale regolamentazione un modello top-down, cioè con una regolamentazione calata dall'alto ed estremamente centralizzata, potrebbe portare alla scomparsa della rete come la conosciamo. L'effetto potrebbe essere una sorta di balcanizzazione di Internet, con possibili frammentazioni in più sotto-reti, facilmente controllabili dai singoli governi. Non per nulla sono proprio i governi che tendono ad un maggiore controllo di Internet (pensiamo alla Cina) ad aver avviato proposte di questo tipo.
Inoltre, molti paesi in via di sviluppo, come India e Brasile, seguono con attenzione questi negoziati, in particolare quei paesi che si sentono esclusi e desiderano un maggiore controllo sulla rete, anche se fosse solo la Rete nel loro paese.
Gli USA si oppongono ovviamente a tale tipo di approccio, sostenendo che qualsiasi supremazia internazionale su Internet è pericolosa se affidata ad un'autorità guidata da paesi nei quali la censura è la norma. A rischio per gli USA non sono solo le libertà fondamentali, ma anche il business delle web company, come chiarisce Vinton Cerf, uno dei padri di Internet ma anche vice presidente e chief internet evangelist di Google Inc., dinanzi alla Commissione Energia e Commercio del Senato USA.
Se la posizione americana è condivisibile, il sospetto nasce spontaneo. È sincero interesse per le libertà in Rete, oppure solo (o soprattutto) preoccupazione per gli interessi economici delle web company che ormai formano gran parte dell'economia americana? Del resto suona un po' strano parlare di libertà del web da parte di chi ha elaborato SOPA e PIPA, nonché ACTA.
È vero che le decisioni non sono ancora prese, ma è possibile che l'internet del futuro assomigli ben poco a quella odierna.
Potrebbe essere un Internet a regolamentazione fortemente centralizzata ed affidata ad un'agenzia dell'ONU, dove ovviamente i giochi saranno condotti dai governi dei paesi membri, tra i quali anche quelli piuttosto inclini a limitare la libertà in Rete.
Oppure potrebbe essere un Internet con regolamentazione affidata ad un organismo privato come l'ICANN, noto alle cronache per aver funto da braccio armato delle autorità americane quando si trattava di oscurare siti che ledevano interessi economici degli USA. Non dimentichiamo che gli americani hanno la spiccata tendenza ad ingerirsi nelle politiche degli altri Stati, facendo coincidere spesso la politica estera con gli interessi economici delle aziende USA.
In entrambi i casi il ruolo degli utenti della Rete sarà sempre più limitato.
In questa diatriba manca, però, ancora una posizione forte dell'UE, le cui impostazioni si stanno definendo solo negli ultimi tempi. Anche se con alcuni incidenti di percorso, come l'appoggio iniziale ad ACTA, la politica UE appare forse la più aperta ad un approccio che possa essere il più possibile coinvolgente delle opinioni degli utenti della Rete, quindi un vero approccio multi-stakeholders. Lo provano le recenti bocciature in varie commissioni del trattato ACTA, un trattato voluto dagli americani nell'ottica del nuovo imperialismo digitale, ma fortemente osteggiato proprio dall'opinione pubblica europea che ha avuto il merito di farsi ascoltare dagli organismi UE scendendo in piazza o semplicemente tramite mail e forme alternative di protesta. Oppure possiamo ricordare la direttiva di riforma della normativa in materia di privacy, apostrofata dagli americani come “no cookie law”. Questa direttiva è stata tacciata di essere una normativa anti-innovazione, la stessa Commissione europea è stata accusata di essere tecnologicamente ignorante, ma guarda caso tali accuse vengono dagli americani o dai loro cugini inglesi, i quali notoriamente monetizzano i dati personali degli utenti trasformandoli in denaro sonante a mezzo di una profilazione spinta e quindi tramite l'uso fin troppo spregiudicato di tali dati. La proposta di riforma della direttiva in materia di privacy, in realtà ha il merito di riportare il controllo dei dati personali degli utenti nelle mani degli utenti medesimi.
Da una serie di episodi appare sempre più evidente che sta sorgendo un nuovo campo di battaglia che vede contrapposte le posizioni americane, tendenti alla difesa degli interessi economici delle aziende private USA, e quelle della comunità europea. Basti ricordare le numerose incursioni delle autorità tedesche per la tutela della privacy, che spesso hanno avuto da ridire contro i metodi poco rispettosi per la privacy degli utenti utilizzati dalle multinazionali USA del web.
Anche qui la domanda è la stessa, la posizione europea è sinceramente interessata ad una difesa dell'utente, oppure è più strumentale alle tutela degli interessi economici del continente?
Lo statuto dell'ITU prevede che le decisioni siano prese a maggioranza, e non è previsto un diritto di veto, ciò vuol dire che a dicembre basteranno 90 voti per far passare questa nuova regolamentazione. La cold war dell'Internet è appena iniziata.
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