Accordi fra multinazionali mettono in pericolo i diritti dei cittadini
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Bruno Saetta
@valigiablu - riproduzione consigliata
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“Internet dovrebbe essere il paradiso dell’illegalità o dovrebbe essere trattato alla stessa maniera del mondo fisico?”. Questa è la rivelatoria domanda con la quale il rappresentante della Commissione Europea (che siede al tavolo delle trattative per l’Unione Europea) il 25 gennaio 2011 apre il meeting su Acta a Bruxelles.
Dopo un lungo cammino, costellato di critiche ma soprattutto caratterizzato da un’ossessiva segretezza, al punto che per anni il testo degli accordi non era nemmeno possibile leggerlo (per non meglio precisati “motivi di sicurezza nazionale” negli Usa), il 20 dicembre 2011 è iniziata la discussione alla Commissione Affari Legali del Parlamento europeo del famigerato Acta. L’accordo anti contraffazione (Anti-Counterfeiting Trade Agreement) ha già ricevuto il suo imprimatur dal Consiglio dell’Unione Europea pochi giorni fa. Adesso, l’ultimo ostacolo alla sua adozione in Europa è solo il Parlamento.
Acta è un accordo multilaterale costruito da 37 paesi (27 dei quali rappresentati dalla Commissione Europea), i quali a partire dal 2006 si sono riuniti per stilare un corpus di regole che mirano a rinforzare la tutela dei diritti in materia di marchi, brevetti (specialmente farmaci) e proprietà intellettuale, contro le contraffazioni e la pirateria. L’idea di base è di realizzare, tramite accordi commerciali, delle procedure comuni agli Stati contraenti, in modo da garantire una migliore e più rapida tutela dei diritti delle multinazionali, tramite azioni anche su larga scala. Ovviamente i soggetti che portano avanti i negoziati difendono tali accordi, come possiamo leggere nelle parole del portavoce dell’UE per il commercio, intervistato da Fabio Chiusi per Valigia Blu.
Ma ad una lettura attenta del testo non sono pochi i dubbi che nascono sulle possibili implicazioni negative. Le voci a favore di Acta ribadiscono la necessità di una strenua difesa degli innovatori, intesi come autori, titolari di brevetti e marchi (sottintese ovviamente le grandi aziende), perché solo in tal modo sarà possibile proteggere la competitività di uno Stato, o della stessa Europa, garantendone la crescita economica. Ed Acta, secondo loro, farebbe tutto ciò contemperando le esigenze di tutte le parti in causa, compresi i cittadini. Nel testo del trattato, infatti, spesso è indicata l’esigenza di realizzare procedure di tutela dei diritti che, però, devono nel contempo garantire la proporzione tra la gravità della violazione e i possibili rimedi, la libertà di parola e il diritto ad un giusto processo, salvaguardando altresì gli interessi di terze parti.
Si tratta, purtroppo, di generiche dichiarazioni di intenti che mal si rapportano alle procedure previste da Acta, che si presentano come particolarmente invasive nei confronti dei cittadini. Lo stesso rappresentante della Commissione europea precisò che Acta non interferisce con l’Aquis communautaire, cioè il corpo delle leggi dell’Unione, sostenendo, quindi, che Acta non muta i diritti di proprietà intellettuale in Europa. Però tale argomentazione è fuorviante, in quanto ciò che Acta va a modificare sono in realtà le misure applicative di tali leggi. Acta, infatti, obbliga gli Stati aderenti a porre a disposizione dei titolari dei diritti le procedure previste dal trattato, aggiungendo che non devono risultare complicate o costose ed in particolare non devono comportare irragionevoli ritardi nella tutela dei diritti in gioco.
La celerità della tutela è elemento enfatizzato nel trattato, tanto che si autorizza l’emissione di provvedimenti cautelari anche nei confronti di terze parti, e perfino in assenza di contraddittorio laddove il ritardo possa pregiudicare i diritti del titolare.
Altro argomento dibattuto è la responsabilità dei provider. Anche in tale campo Acta non cambia le leggi europee, ed in particolare la direttiva per il commercio elettronico, però introduce nel contempo numerose misure applicative che mutano il quadro attuale. Il trattato, infatti, prevede procedure sommarie che consentono ai titolari dei diritti di ottenere ingiunzioni sulla base di meri sospetti, anche avverso terze parti, identificabili sicuramente con gli intermediari della comunicazione, per i quali è prevista addirittura una responsabilità penale sussidiaria per i casi di favoreggiamento.
In sostanza, il trattato Acta mira a realizzare una procedura legislativa alternativa a quella democratica prevista dagli Stati, in modo che misure applicative e addirittura sanzioni criminali siano imposte agli Stati aderenti attraverso meri accordi commerciali negoziati tra soggetti non rappresentativi, in quanto non democraticamente eletti, e quindi al di fuori di ogni dibattito politico.
Tale trattato è particolarmente limitativo per l’ambito digitale, all’interno del quale i fornitori di servizi online saranno fortemente incoraggiati a collaborare con i titolari dei diritti, per monitorare l’attività dei loro stessi utenti, ed eventualmente fornire direttamente alle multinazionali i dati identificativi dei soggetti sospettati, con evidente contrasto con le norme in materia di privacy. Tale collaborazione forzata sarà l’unica possibilità per potersi sentire al sicuro da accuse di favoreggiamento delle violazioni che potrebbero portare ad una responsabilità sussidiaria dei provider.
In breve, Acta imporrà una cultura del sospetto avverso agli internauti, i quali potranno essere costantemente monitorati dai provider, novelli sceriffi e braccio armato dei titolari dei diritti, laddove spesso il mero sospetto sarà più che sufficiente per ottenere provvedimenti di ingiunzione e sequestro.
La disciplina pubblicistica del diritto d’autore e delle norme in materia di marchi e brevetti, sarà così sostituita da una regolamentazione contrattuale dei servizi, controllata da soggetti privati, i quali si faranno le regole a loro uso e consumo, regole che poi potranno imporre, attraverso il Comitato previsto da Acta, a tutti gli Stati aderenti.
Acta, così come è congegnato si presenta in contrasto con le libertà dei cittadini europei, in particolare con la libertà di espressione, perché consente la rimozione di contenuti online sulla base di un semplice sospetto, aprendo la strada a possibili abusi, ma anche con la libertà di impresa, in quanto impone dei costosi obblighi di sorveglianza ai fornitori di servizi online, con gravi ricadute nel settore. Acta, infatti, prevede la possibilità di ottenere ingiunzioni per prevenire future violazioni dei diritti. Stiamo parlando di veri e propri sistemi di filtraggio che già sono stati ritenuti dall’Onu in violazione della Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, e che sono stati dichiarati in contrasto col diritto comunitario dalla sentenza della Corte di Giustizia europea del 24 novembre 2011, in quanto possono pregiudicare la libertà di manifestazione del pensiero e di informazione, poiché i filtri potrebbero non essere in grado di distinguere tra contenuti legali ed illegali. Per capirci, la liceità di un contenuto online non è affatto facile da valutare, in quanto esistono le cosiddette utilizzazioni libere (fair use), cioè ipotesi nelle quali un contenuto può essere usato anche in assenza dell’autorizzazione del titolare. È evidente che se la valutazione viene demandata al titolare di un contenuto, questi molto probabilmente preferirà non tenere conto affatto di tali utilizzazioni libere, e chiederà la rimozione di tutto ciò che entra in conflitto con i suoi interessi commerciali. In tal modo la tutela degli interessi economici delle multinazionali avrà acquisito un rango superiore ai diritti fondamentali dei cittadini.
Molto di quello che accadrà sotto la vigenza di Acta non verrà mai portato a conoscenza del pubblico, ma sarà deciso tra i titolari dei diritti e i provider online, così sarà ancora più difficile lamentarsi degli eventuali abusi. Si avvicina una nuova era di privatizzazioni: privatizzazione della funzione legislativa, privatizzazione dei diritti, privatizzazione delle libertà. Acta sta arrivando!
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