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Perché l’indignazione non farà notizia

20 Ottobre 2011 4 min lettura

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Perché l’indignazione non farà notizia

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'The revolution will be not televised', cantava Gil Scott-Heron nel 1970. Quarantuno anni e qualche (poca) rivoluzione dopo, il concetto resta attuale. E ha conosciuto un ulteriore aggiornamento negli ultimi giorni italiani.

Dopo i disordini di sabato abbiamo assistito a due dinamiche comunicative abbastanza chiare. Da un lato, il racconto della violenza e delle biografie dei violenti è stato dominante, fino a oscurare le centinaia di migliaia di manifestanti pacifici e le loro ragioni. Dall'altro lato, in Rete, abbiamo letto la rivendicazione degli indignati, arrabbiati perché il racconto del 15 ottobre era eccessivamente sbilanciato sui violenti. 

Molti degli strali di questi giorni erano indirizzati all'area editoriale vicina alla sinistra, in particolare a Repubblica, per come ha organizzato la sua agenda successiva alla triste pagina di sabato. Ma non sono mancate le accuse alle televisioni e in generale all'intero sistema dell'informazione.

Questa rivendicazione, a mio avviso, è l'ennesima prova dell'assenza di fondamentali della comunicazione da parte del movimento. 

Mi chiedo infatti come sia possibile aspettarsi una copertura da parte del sistema dei media se le parole d'ordine della protesta sono la lotta al sistema economico-finanziario italiano ed europeo, il non pagamento del debito maturato da chi ha governato il Paese e, di conseguenza, una bocciatura senza appello alla classe politica. 

I grandi gruppi editoriali italiani sono privati. E la Rai, unico organismo pubblico, è chiaramente immerso nelle logiche politiche. Il sistema dei media è dunque all'interno del mercato, è dentro il capitalismo. Vive di prestiti, debiti, finanziamenti da parte di istituti di credito. E di finanziamenti pubblici, erogati direttamente dal potere politico. Se l'Italia andasse in default, le banche fossero insolventi, molti giornali chiuderebbero. E molte televisioni non sopravviverebbero. 

Per quale motivo i media dovrebbero dare spazio a battaglie che vanno direttamente contro i loro interessi? Parafrasando, è come se un indignato avesse pubblicato dati positivi sul bilancio di una banca sulla propria bacheca Facebook, magari anche con un commento positivo, e lo avesse fatto proprio in questi giorni. Faccio molta fatica a immaginare che ciò possa accadere. Così come ritengo assai difficile che uno dei manifestanti del 15 ottobre abbia rilanciato qualche editoriale di Libero o del Giornale di questi giorni.

Eppure chi scende in piazza contro 'il sistema' si aspetta questo dai media. E si incazza se non lo riceve. 

Questa aspettativa, in realtà, nasce da un altro malinteso, e cioè dall'idea che il peso mediatico delle manifestazioni pubbliche si possa misurare sulla base del numero dei partecipanti. 'Se siamo 500mila persone in piazza, non potete non parlare di noi!". Anche questo è, evidentemente, un errore. 

Eppure i media italiani ci avevano già mostrato il loro funzionamento il 13 febbraio: un milione di donne e un centinaio di piazze festose e gremite per 'Se non ora quando' avevano avuto lo stesso spazio della manifestazione dei 'Servi' di Giuliano Ferrara al Teatro Dal Verme di Milano, 2500 partecipanti in un'unica città e in un unico luogo chiuso. 

L'agenda setting dei media ha un solo, vero, obiettivo: vendere. Copie di giornali, inserzioni pubblicitari, click. Non può essere diversamente: gli editori non sono mecenati ma imprenditori che decidono di investire nei media per ottenere un profitto. I giornali non sono Partiti né sedi dell'elaborazione politica aperti 24 ore su 24; al massimo ne possono essere una loro espressione. Sono portatori di interessi particolari, dell'editore puro (specie rarissima in Italia) o dei gruppi industriali e delle holding a cui fa capo il mezzo di comunicazione. Motivo per cui leggere un solo giornale, usufruire di un solo mezzo di comunicazione è il modo migliore per non essere informati. 

I media non possono essere luogo della rappresentanza, a meno che quest'ultima non sia inserita in una circoscritta, lucida (e sincera, perché no) logica di marketing. L'etica, il distacco, l'imparzialità (se esiste) sono caratteristiche proprie dei giornalisti che compongono una redazione ed eventualmente del direttore di una testata, ma non possono essere né una linea editoriale nè un obbligo, dunque non possono essere oggetto di aspettative. Possono far vendere più o meno copie, ma soprattutto possono essere sacrificate sull'altare dei bilanci. 

Pensate alle colonne laterali, ai 'boxini morbosi', alle fotogallery, alle notizie di gossip, alla cronaca nera, al costume, alle improbabili ricerche scientifiche, ai troll che animano le prime pagine dei portali online, a Scilipoti e Pippa Middleton. Credo che nessun direttore di giornale trovi quelle notizie davvero interessanti e soprattutto utili, però il 'cazzeggio' genera il 40% circa del traffico di quei portali. E il 40% è un sacco di soldi.

I giornali devono essere venduti: e il pubblico dell'informazione cartacea non coincide con i manifestanti. Dunque i grandi editori non hanno alcun interesse ad essere concilianti con gli indignati, neanche a breve termine. Il Censis dice che solo il 34% degli under 34 legge quotidiani (e chissà come si riduce la cifra di chi li compra): il pubblico dei media è in larga parte un attore o un figurante del sistema politico, economico e finanziario che, nei desiderata degli indignati, deve crollare e la propria realizzazione personale dipende dalla sopravvivenza di quel sistema.

Per questo chi protesta contro il capitalismo e in generale chi manifesta contro il sistema politico ed economico deve smettere di pensare ai media tradizionali come sponda, aiutante, facilitatore. Non ci sarà alcun aiuto. Non serve parlare per comunicati, perché il comunicato è il simbolo della logica di processo che si dice di voler combattere. 

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Questo, però, non vuol dire essere contro la comunicazione. Tutt'altro: vuol dire studiare metodi, prassi, linguaggi, stili, strumenti che possano riprodurre la stesso eco mediatica dei mezzi tradizionali perché bisogna entrare in una logica competitiva coi media, offrire un altro sistema, anche perché si lotta per abbattere l'attuale e nessuno, credo, desidera un'Italia senza informazione.

Don't hate the media, become the media, diceva Jello Biafra nel 2000. Anche le sue parole restano tremendamente attuali.

Dino Amenduni
@valigiablu
- riproduzione consigliata

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