Due, tre cose che so su Roma brucia
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Avrei voluto scrivere di Gianluca Pini* e non è detto che non lo farò, presto o tardi. D'altra parte i fatti di Roma meritano una certa priorità. E - uff- gliela daremo, muovendoci per punti, anche inconciliabili. Proviamo.
- Presupposto: le critiche al neoliberismo e al capitalismo "di conquista", a questo sistema di produzione e riproduzione, sono lecite e legittime. Le manifestazioni contro il neoliberismo e al capitalismo "di conquista", a questo sistema di produzione e riproduzione, contro i "mostri" artefici della crisi che non lascia intravedere futuri placidi e sereni, sono legittime ma del tutto inutili, di maniera, perché a sistema dato si risponde con altro sistema, imponendolo, e non suggerendo una soluzione sui cartelli.
- Non si chiede "violenza" - figurarsi - ma sovvertimento del regime politico-economico, se davvero s'intende sovvertirlo, con azioni più precise. Sistemiche, appunto. Non chiedetemi quali e non fate quella faccia. Le manifestazioni stesse denotano un paradosso di fondo che per la prima volta, credo, si palesa con tutta evidenza. Le contestazioni partono da una rivendicazione - anche legittima, ripetiamo - precisa: poter godere di beni e mezzi di cui anche altri godono o hanno goduto. "E' la prima generazione che sa di vivere peggio della precedente". Pretende il meglio. E non per velleità umanitaristiche, né terzomondiste ("Salviamo l'Africa" non trova più posto: "Salva me") o ideali di tipo "socialista". Non c'è retorica della redistribuizione, ma l'esplicarsi di un processo di rivendicazione personale, il possesso materiale che la "società dei consumi" ha imposto. "Devo avere". "Anche io". "Come papino".
- Questi nuovi moventi rischiano di configurarsi come risultato del processo di "individualizzazione" da consumo, un frutto del capitalismo, che nella reiterazione dei messaggi di "possesso" e di "privato" ha sottratto consensi a chi - conscio dell'imprescindibilità di un sistema di welfare - ha cercato in modo fallimentare di imporre istanze sociali che sono viste, adesso, come invasive di sfere distinte e fastidioso obolo da allontanare (si veda Obama, o la crisi della socialdemocrazia internazionale, il movimento d'opinione anti-tassazione): che è poi il terreno sul quale sono ingrassate le tendenze di stampo populista ("Padroni a casa nostra", Belgio Fiammingo, Gop americano, ovviamente Lega Nord, le destre xenofobe europee). Ma è un discorso molto lungo e non sono il primo a metterlo in mezzo. Forse.
- Non è neppure un caso che le recenti strategie di marketing puntino, adesso, sulla sopravvalutazione dell'"io" come consumatore "cosciente" di una scelta "razionale", "fuori dal coro", e non come parte integrante della clientela di un prodotto riconosciuto negli e con gli altri (si faccia caso, ad esempio, agli spot delle automobili. "Non sono uno yes man", "Ho scelto di scegliere", cose così: ce ne sono almeno tre, adesso, in giro. Giuro).
- La forte personalizzazione di cui sopra, la "parcellizzazione" del consumo e l'accrescere dell'identità di consumatore che ha intenzione di rivalere sul proprio bieco futuro senza benessere non ha trovato, quindi, amplificazione nei mezzi (internet) come condivisione di problematiche da affrontare e risolvere "assieme", come comunità, ma si è caratterizzata - sostanzialmente - come diffusione di istanze simili a "macchia di leopardo", ognuna per sé. In "polvere" (cfr Appadurai, Modernity at large).*
- Nell'imporsi di quella che abbiamo definito "individualizzazione dei consumi", e in assenza di un'ideologia di fondo, la mano che muove il manifesto di piazza trova - a questo punto - diverse motivazioni in ragione del proprio slancio personale, e del contesto politico-geografico nella quale si agita.
- Primo passaggio logico: definizione base di "nazionaldemocrazia" (evoluzione e contrapposizione del nazionalsocialismo citata da Marco Pannella in questi giorni). In questa, all'appiattimento (adeguamento) strutturale di servizi, mezzi e ambizioni proprie del socialismo, declinate da una matrice populista (la parte "nazional"), si sostituisce la pretesa del contare come decision-maker ("Lo Stato siamo noi", "Siamo noi a rappresentarci", I partiti non sono dogma come il "Siamo il 99%" delle ultime piazze mondiali"), affidando alla scelta - nella nostra prospettiva - da "consumatore" una valenza politica che in realtà non gli appartiene, non può appartenergli, perché non prevista dal sistema di rappresentanza democratica. E' qui che la chiave populista della citata nazionaldemocrazia viene interpretata e veicolata da internet, democratizzazione del consenso e della deliberazione, facile preda di enfatizzazioni demagogiche e rivoluzionari à la page (si veda in Italia, per esempio, la disinformata e agghiacciante contestazione a Pannella). Internet come mezzo unificante e dissolvente.
- In Italia l'ambiente-internet si caratterizza - e lo sappiamo - per "una certa" aggressività, coltivata per mesi da "pseudo-contro-informazione", capibastone a comando o per gioco, blogger di lotta e infauste dichiarazioni di politici, nel ridicolo tentativo di rincorrere cavalcare un hype (la cravatta viola di Vendola, le trovate di De Magistris, il "Ci scappa il morto" di Di Pietro).
- Passaggio logico 2, sul perché l'Italia e perché Roma bruci. Succede che l'antagonismo italiano, che ha "giurato vendetta allo Stato" da Genova 2001 (non - attenzione - senza motivazioni anche comprensibili - si veda Bolzaneto e la gestione dell'ordine pubblico), ha spostato sul proprio calendario il giorno in cui "le spade si sarebbero dovute incrociare", muovendosi dietro al #15OCT (forse creandone i presupposti) globale e facendosene scudo, puntando all'ammuina nell'ammuina e ad alimentarla - per i meno ideologizzati - attraverso internet prima, l'emulazione poi, in piazza.
- Succede dunque che ad alcuni "vendicatori mascherati", mossi da atavico odio antisistema che s'annida dalle notti della Repubblica, si accostino idioti privi di motivazioni ideologiche e il benestare tacito dei tanti che, benché ignari e in piazza con intenzioni pacifiche, hanno pensato che "sì, ma alla fine se la sono cercata. Sticazzi".
- Sostanza: il vero 99% di chi era in piazza non ha idea del movente unitario, globale, che lo ha portato per strada. In un contesto nel quale, globalmente, non si ha idea di come affrontare - davvero - il problema della crisi del neoliberismo - che, sebbene in assenza di alternative, resta tangibile. L'1% di chi ha sfruttato "la partita di calcio" per "vendicare l'ultras ucciso dalla polizia" ha trascinato molti altri e fatto sorridere altri ancora. Che è un problema nostro.
- Il problema, dunque: la differenza fra il "placet" italiano e le piazze ridicolmente fricchettone delle altri città. Ci si aspettava un giornale in grado di porre il problema, sviscerandone i contenuti. Solo Mario Calabresi , su La Stampa, c'ha provato - temiamo, però, non cogliendo il punto. Che alla fine potrebbe stare nel bagaglio culturale di molta sinistra italiana che nel "sistema", nei Palazzi alla Bianciardi* e nella polizia identifica ancora il nemico. Istanze culturalmente molto forti. Cui cercheremo di proporre un'interpretazione tutta politica.
- Una differenza politica sostanziale fra il nostro e gli altri paesi: l'Italia non ha mai conosciuto un contenitore di voti, proposte e politiche liberal-socialista, qualcosa di affine al socialismo francese o alle socialdemocrazie nord europee, ma un fortissimo partito d'estrazione comunista capace di contenere in sé l'ossimoro d'essere di sistema e antisistema, senza mai realmente prendere distanze nette e definitive dalla violenza filo-eversiva ("Sono compagni che sbagliano"), almeno dal punto di vista culturale (Pasolini fa eccezione).* Che è una spiegazione plausibile.
- Ciò detto, abbiamo davvero assistito a due manifestazioni, una pacifica e una violenta, facendo la tara alle semplificazioni giornalistiche delle "piazze contrapposte". Due cortei, sostanzialmente: perché i "pacifici" erano ignari del mondo e della storia, lì per un pic nic, e l'occasione - stupida, velleitaria ma legittima - li ha messi davanti a una scelta: fiori alla camionetta o "alla fine quelli coi caschi c'hanno ragione". C'erano sì, i pacifici. Perché sono dei "fessi". Perché non sanno di essere stati usati. Magari da chi ha organizzato, magari dai violenti, magari dal "sistema" stesso che utilizza queste manifestazioni come valvole di sfogo (si veda l'endorsement di Draghi, ma - avvisiamo nuovamente - si tratta di ipotesi alla cazzo). Ma c'erano. "Quelli col casco" - che c'erano pure, e una decina di Nissan se ne sono accorte - li hanno vestiti come cappotti a termine, e alla fine si sono pure fatti volere bene da tanti.
La questione, comunque, sta nell'informazione. Come al solito. Che nella semplificazione ha incarognito e sta incarognendo tutto. Questo so. E questo mi sono immaginato. Ora scusate ma devo passare in rassegna tutte le foto con la statuetta di Marchionne rotta, per terra, in frantumi. Che disastro.Vincenzo Marino - @Ungormite
@valigiablu - riproduzione consigliata
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bruno
Analisi fin troppo lucida considerata l'intenzione di spiegare le troppe anime, ma soprattuto i troppi interessi confluiti nella manifestazione del 15 ottobre. Mi permetto due osservazioni a margine. Per quanto riguarda il processo di rivendicazione personale innescato dalla società dei consumi, è quanto abbiamo già visto a livelli nazionali, con le critiche alla Cina perchè inquinava troppo nel momento in cui si è (legittimamente) incamminata sulla via del capitalismo così determinando il passaggio di milioni di individui dalle caverne alle case con l'aria condizionata. Ovviamente ha dovuto percorrere in poche generazioni quel cambiamento che a noi occidentali ha preso centinaia di anni, con le annesse conseguenze ambientali, ma alle rimostranze nostre hanno risposto a muso duro: abbiamo diritto anche noi! Molte delle storture dell'attuale sistema derivano dal fatto che, come accadde col welfare state, la globalizzazione si è ritenuta la risposta alle problematiche degli stati nazione, avrebbe dovuto portare ad un ampliamento della sfera d'influenza delle istituzioni politiche e giuridiche in modo da permettere una efficace azione contro le avversità sempre più globali, sia quelle naturali (terremoti...), sia quelle artificiali (crisi economiche...). Purtroppo ciò non è accaduto, si è avuto solo una globalizzazione dell'economia e della finanza che si è, in tal modo, sottratta ai controlli politici e giuridici ristretti negli ambiti nazionali. L'effetto è la crescente subordinazione della politica alla finanza, dove i politici sono spesso o finanzieri o marionette degli stessi. Quando nel XIX secolo le comunità locali persero il controllo sulle forze dello sviluppo economico a causa della nascente industrializzazione che estromise il controllo locale, ci vollero due secoli perchè lo Stato moderno si dotesse delle regole utili a ricondurre all'ordine quella terra di nessuno dove imperava la legge del più forte. Purtroppo vedo che in molti casi la risposta che si vorrebbe seguire è lo smembramento delle società e la creazione di comunità sempre più piccole pensate con una economia prettamente protezionistica (e con annesse colonie fa sfruttare).
John Blacksad
Mario Calabresi non è capace di cogliere manco una carota, vi aspettate che colga il punto della situazione? La cosa più divertente del pezzo è la ruffianata per Steve Jobs, la cosa meno divertente la sua vuota retorica democratica sul futuro da costruire. Per parafrasare questo minus habens, "Il futuro esiste se ve lo costruite con speranza e tenacia e se non ve lo fate scippare da banchieri, vecchi rincoglioniti alla Scalfari e giornalisti cialtroni. Gli indignati pacifici non sono stati usati dai violenti, ma dal sistema stesso. Mi fa piacere che Marino colga questo punto