Se la reazione emotiva prende il sopravvento sul ragionamento
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“Mi ricordo la mia meraviglia e forse l'allegria di guardare a quei pochi che rifiutavano tutto mi ricordo certi atteggiamenti e certe facce giuste che si univano come un'ondata che rifiuta e che resiste. Ora il mondo è pieno di queste facce, è veramente troppo pieno e questo scambio di emozioni, di barbe, di baffi e di kimoni non fa più male a nessuno. Quando è moda è moda, quando è moda è moda. Quando è moda è moda, quando è moda è moda.” Queste le strofe che Giorgio Gaber, nel 1978, nello spettacolo teatrale Polli d'allevamento, rivolse al movimentismo di quegli anni.
La massificazione, per il Signor. G., aveva inglobato l'originario e genuino senso di rivolta che dalla fine degli anni '60 era esplosa, in tutto il mondo, tramite movimenti disarticolati di massa (studenti, operai, ecc), portando una crisi radicale nei concetti di società, di politica, di governo, fino a quel tempo imperanti ma ormai vissuti come vecchi, opprimenti e ingombranti.
Con una lettura dei fatti, disincantata e critica, il cantautore milanese evidenziò dove il decadimento massificante di quella spinta rivoluzionaria stava trascinando il movimentismo: “da una parte in un velleitario intervento politico, dall'altra in uno scadimento inerte che assomiglia sempre di più ad una moda”.
Corsi e ricorsi storici ed eccoci al nostro presente. Chiariamo subito che le dinamiche culturali, sociali e politiche attuali non combaciano con quelle degli anni '70. Mutazioni di costume, di modi di pensare, cambiamenti economici e generazionali, impediscono un parallelo con l'attuale realtà del nostro Paese. Ciò che m'interessa evidenziare è una costante centrale che dagli anni '70 rifluisce fino nei nostri giorni: la sofferenza verso un modo di concepire e fare politica, vissuta ormai, in maniera trasversale, come vecchia e circoscritta in vuoti sistemi di potere, inadeguata a rappresentare la realtà e i bisogni della società. Conseguenza è stata la nascita di vari movimenti culturali, di attivismi partecipati, sviluppatisi sia al di fuori che nelle basi dei partiti.
Comici di fama nazionale, cittadini organizzati, associazioni apolitiche, ecc, hanno dato vita, in questi ultimi anni, grazie soprattutto all'enorme potenzialità comunicativa di Blog e Social Network, alle varie articolazioni del movimentismo odierno. Movimentismi animati ognuno da scopi differenti che si sono posti, però, nell'insieme, come rottura nei confronti della classe politica dirigente di questo paese, definita con una parola che dalle colonne dei quotidiani è entrata nel gergo comune di tutti gli italiani: casta.
Sulla casta sono stati scritti libri, editoriali, pubblicate approfondite e serie inchieste giornalistiche, trasmesse prime serate televisive. Il risultato tangibile è stato che, una volta documentati i privilegi, i soprusi, l'inefficienza, i costi, che per anni l'hanno caratterizzata, l'originaria insofferenza si è tramutata in una vibrante e giusta indignazione. La casta è diventata, col tempo, nella percezione collettiva, il paradigma per eccellenza delle grave disfunzioni presenti nella democrazia italiana. Più essa ha cercato di autoconservarsi, proteggendosi dagli attacchi, dalle critiche che le venivano rivolte, più la frustrazione nei suoi confronti è cresciuta, mutando in un grido rabbioso in quanto inascoltato, con il risultato fuorviante di lasciar proliferare facili demagogie, populismi vari che hanno catturato e fatta proprio l'indignazione dei cittadini.
Le conseguenze non si sono fatte attendere: superficialità negli attacchi, falsità, luoghi comuni e slogan hanno inficiato il dibattito pubblico riguardo la casta, spostandolo, purtroppo, verso questioni (il menù del Senato, per fare un esempio) che in altri tempi sarebbe state considerate marginali, ma di sicuro impatto emotivo, rispetto ad altre, mediaticamente meno coinvolgenti, ma con evidenti conseguenze sulla situazione economica italiana: evasione fiscale, sommerso, corruzione, paradisi fiscali, rimborsi elettorali.
L'"essere indignati" rischia di prevalere su tutto il resto, divenendo uno status symbol, un sentimento di rivalsa in unaguerra continua tra cittadini e politica. Le parole utilizzate come sassi per lapidare, in un sfogo continuo e costante, liberatorio, divenuto fine a sé stesso, perdendo il proprio senso rigenerante. Il confronto onesto, non corrotto da fuorvianti estremismi, è decaduto per lasciare spazio a “bruciamo il Parlamento” dove poter manifestare il proprio diritto, non più ad esserci, ma ad “essere incazzati” ed organizzare "presidi permanenti" contro gli “intoccabili” della Casta.
Un'indignazione permanente, pertanto, che ha tramutato la presa di coscienza - troppo lenta per le dinamiche dello sfogo - in una presa di posizione generalizzata - estremamente più diretta e funzionale - tramite la quale sviluppare un consenso popolare istantaneo che alla fine dei conti, però, non contiene soluzioni articolate di lungo respiro per un cambiamento culturalmente reale.
Non accettare queste prese di posizione, cercare di porsi con criticità nei confronti delle problematiche che di volta in volta investono il Paese, muovere dei dubbi verso tali atteggiamenti massificanti di disagio e rabbia, sono lette come un tradimento e, per questo, la persona che se ne macchia inquisita e condannata nell'agora di Facebook o Twitter. Non vi è possibilità di scelta. Da una parte il Bene - cittadini, popolo (del web) - da quell'altra, il Male - casta -.
Risultato: un dibattito pubblico incancrenito in uno sterile e inutile manicheismo. Proprio da qui consegue, penso, una delle storture più gravi, individuabile in un paradosso, che sterilizza definitivamente quelle proteste che si rifanno ai metodi della tendenza appena descritta: chi si scaglia contro la casta, descrivendola per com'è - sorda, arroccata in sé stessa, impenetrabile alle critiche - si comporta nello stesso identico modo del soggetto accusato, in quanto eccezioni, dubbi, appunti, tentennamenti sui metodi e sul linguaggio utilizzati per la protesta, non vengono il più delle volte ascoltati, accettati o permessi, poiché chi si fa rappresentante del Bene, chi si pone contro la casta, agisce sempre e comunque nella correttezza e se viene affermata qualche stupidaggine o falsità, è scusabile ed immune ad ogni dubbio di sorta, perché la “giusta causa” è il fine ultimo.
Inevitabilmente questo atteggiamento produce il rischio di irrigidire la voglia di cambiamento in un semplice blocco di aggregazione per una protesta sorda che, come specificato, si comporta più o meno come una casta, definibile, con una provocazione, casta degli indignati. Portatrice, quest'ultima, di una rivolta massificata, che non fa “più male a nessuno”, scaduta in un facile qualunquismo, nel riflesso immobilizzato del proprio nemico, costretta nella propria torre d'avorio dell'indignazione fine a sé stessa.
Ed ecco che le parole di Giorgio Gaber di più di trent'anni fa, in apertura di questo articolo, tornano più che mai attuali, in quanto solamente prendendo coscienza di un problema si può cercare di risolverlo; solamente sforzandosi di tornare all'utilità sociale di un pensiero critico, preparato, profondo - unica risposta scevra da demagogici slogan e populistiche rivoluzioni "dal basso" - possiamo trasformare la nostra giusta indignazione e sacrosanta rabbia in argomenti razionali e preparati costruendo un dibattito culturale e pubblico che centri i problemi del Paese, cercando di capirli e non offrendo più alla casta facili appigli dialettici per svicolare e non rispondere mai delle proprie reali responsabilità.
Il filosofo francese Marcel Gauchet, in una intervista a Repubblica su Le Democrazie emotive, ha detto: "Gli uomini politici vorrebbero far credere che conoscono i problemi della gente, proponendo soluzioni semplificate. L'appello al popolo - che però è una realtà sempre meno omogenea - implica spesso una qualche forma di demagogia. I moderni mezzi di comunicazione - che per altro in passato, hanno fatto benissimo alla democrazia - offrono possibilità infinite ai demagoghi. Dalla demagogia della semplicità a quella dell'emozione, che stimola le reazioni emotive più che il ragionamento". Se il senso comune distrugge la politica, noi abbiamo il dovere di sforzarci di tornare alla "politica".
Sta a noi, pertanto, mettendo in gioco la nostra responsabilità civica, far divenire le nostre parole, i nostri pensieri, le nostre azioni, indicazioni per una stagione di cambiamento che non risulti essere solo una stagione di "moda". Perché la moda, come si sa, passa.
Consiglio di lettura: Chi parla male pensa male di Maurizio Viroli - Il Fatto Quotidiano
Andrea Zitelli (ha collaborato Arrestate Zuckerberg ovunque)
@valigiablu - riproduzione consigliata
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