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Il problema non è (solo) Berlusconi

9 Agosto 2011 5 min lettura

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Il problema non è (solo) Berlusconi

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Casta, gogna, forconi, rivoluzione... Quante volte abbiamo sentito dire:
«dopo Berlusconi ci vorranno anni per ricostruire? Bisognerà costruire sulle macerie». Prima cominciamo allora, meglio è.

Vorrei ancora una volta (sì, è l'ossessione di Valigia Blu), proporre una riflessione sul linguaggio.

Bisognerebbe, come dice Zagrebelsky, richiamare l'attenzione sull'importanza del linguaggio in uso, data la sua forza conformatrice del senso comune, operante anche senza che ce ne accorgiamo.

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Riporto qui alcuni brani del suo libro Sulla lingua del tempo presente:

"Dietro le parole si affaccia una visione delle cose, una filosofia, un credo religioso, un punto di vista, insomma una cultura, intesa come insieme delle conoscenze, delle credenze, del costume e di qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dell'uomo come membro di una società" (G. Beccaria, Tra le pieghe delle parole. Lingua storia cultura). Parlando di parole, dunque, parliamo non di me o di te, ma di noi.

La lingua può essere dotazione del potere, che se ne avvale per rendere omogenee le coscienze e governarle, massificandole... (oppure) può essere strumento di coscienze che elaborano forme comunicative di resistenza all'omologazione.
Il linguaggio acriticamente accettato esercita qualcosa come una dittatura simbolica... 

...I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata "sdoganata" perché qualunque parola deve essere contestualizzata.
Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l'ha inaugurato e anzi, all'inizio, l'ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia.
Oggi è politicamente corretto il dileggio, l'aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l'occultamento delle difficoltà, le promesse dell'impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù.

Tutti atteggiamenti che sembrano d'amicizia, essendo invece insulti e offese. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe.

...Dovremmo ritrovare l'orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti.
Se alle parole xenofobe di Borghezio noi rispondiamo: «bisognerebbe farlo sodomizzare da arabi e neri», dove testimoniamo la nostra diversità rispetto a Borghezio? In cosa siamo diversi da lui?
Se manifestiamo sotto le sedi di partito al grido «Fassino boia», «Berlusconi boia», in cosa testimoniamo il desiderio di una politica che abbia a cuore il bene dei cittadini?
Se commentiamo vomitando e con la bava alla bocca, quel commento non denuncia prima di tutto la nostra debolezza, la nostra fragilità nell'argomentare, nell'esporre le nostre idee? Non abbiamo già perso?
C'è, inoltre, una preoccupante e avvilente ostilità di fondo quando ci confrontiamo con idee diverse dalle nostre. Ostilità che affidiamo poi a un linguaggio violento, aggressivo, rivolto contro la persona e non contro le opinioni della persona. Questo annulla ogni occasione di dialogo, di incontro.
Forse la rivoluzione davvero comincia qui. Da noi, dalla nostra capacità di essere presenti a noi stessi, dalla nostra capacità di utilizzare queste nuove agorà, questi enormi, meravigliosi spazi pubblici digitali per esprimere il meglio di noi stessi. La piena consapevolezza che siamo le parole che usiamo. Vi ricordate Nanni Moretti? Le parole sono importanti. Chi parla male, pensa male...
Come ha scritto Giovanna Zucconi: Nulla è più rivoluzionario, oggi, che rispettare le parole. “Grazie, prego”. C'è più energia, più originalità, più efficacia, nello smontare con altri toni, gentili, la coazione aspra che oggi domina. E annoia. E opprime. Riprendiamocele, le parole, maneggiamole con cautela, brandiamole con il rispetto che meritano. Che meritiamo.
Questa, perciò, è la nostra proposta, riuscire a creare insieme un "luogo" dove io possa dare l'esempio di confronto in cui lo scopo non è battere l'avversario o mostrare quanto io sia intelligente, stiloso, o vantarmi di quanto i miei post siano condivisi sui social network, o aumentare di una zolla il mio orticello, ma in cui lo scopo è diffondere un modo di comunicare in cui il messaggio è il come si trasmette, e non soltanto il cosa si trasmette.
Leggendo un articolo di David Grossman che commentava le manifestazioni di protesta in Israele non ho potuto fare a meno di provare una profonda malinconia:
Da tanti anni ormai abbiamo smesso di dialogare, e sicuramente di ascoltare. Come sarebbe infatti possibile in questo clima di "arraffa più che puoi" non aggredirci a vicenda, razziare? In fin dei conti è quello che ci dicono di fare in tutti i modi possibili: ognuno per sé. E più queste incessanti schermaglie ci indebolivano più era facile controllarci, manipolarci, stordirci, vittime di un occulto ed efficace "divide et impera". E così, per i detentori del capitale, del potere e degli organi di stampa, l´occuparsi di questioni cruciali si trasformava in uno scontro tra "chi ama il Paese e chi lo odia", "chi gli è fedele e chi lo tradisce", "chi è un buon ebreo e chi ha dimenticato di esserlo".
Ogni dibattito razionale finiva immerso in uno sciroppo di sentimentalismo, di patriottismo e di nazionalismo kitsch, di ipocrita virtuosità e di vittimismo.

Un poco alla volta ci è stata preclusa la possibilità di criticare lucidamente ciò che stava accadendo. Israele si è ritrovato a mantenere verso i propri cittadini un atteggiamento totalmente in contrasto con i suoi valori e ideali di un tempo.
L'attuale movimento di protesta e la sua onda d'urto propongono un possibile dialogo tra chi, da decenni, non si parla più. Tra classi sociali diverse e distanti, tra religiosi e laici, tra arabi ed ebrei. In questo processo di possibile identificazione comune potrebbe svilupparsi un dialogo più realista ed empatico tra la destra e la sinistra, per esempio riguardo all'indifferenza della sinistra verso gli evacuati dalla striscia di Gaza. Un dialogo che potrebbe anche salvare qualcosa del senso di solidarietà reciproca al quale un paese come il nostro non può permettersi di rinunciare. 
La capacità di creare dialogo... nel nostro Paese è possibile? Da dove possiamo cominciare se non dalle parole che usiamo?

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