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Giuseppe D’Avanzo e il rugby per salvare l’Italia

1 Agosto 2011 6 min lettura

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Giuseppe D’Avanzo e il rugby per salvare l’Italia

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5 min lettura

Noi appassionati del rugby - diversi e un po' sfigati come può esserlo in Italia chi non ama il calcio - abbiamo un sogno: vedere l' 8 settembre a Marsiglia, quando l'Italia giocherà con gli All Blacks la partita di esordio dei Mondiali, il premier, il leader dell' opposizione. Perché no?, il capo dello Stato. In buona sostanza, chi ha sulle spalle la responsabilità di guidare il Paese.
Per un motivo elementare: abbiamo la convinzione che l'Italia abbia bisogno del rugby; che i princìpi del rugby consentano di guardare meglio lo «stato presente del costume degli italiani».

Siamo persuasi che questo gioco possa migliorare l'Italia. È un mistero inglorioso, per gli italiani, il rugby. Pochi sanno esattamente di che cosa si tratta. È un peccato perché il rugby ha le stesse capacità mitopoietiche del calcio e, come il calcio, permette di interpretare il mondo.
Dalla sua, il football può vantare moltissimi scrittori che si sono misurati con quest'impresa. Qui da noi con il rugby si è misurato soltanto, che io sappia, Alessandro Baricco con tre cronache (due su questo giornale) che, per noi del rugby, sono ancora oggi una medaglia da mostrare in giro. Di quelle cronache, negli spogliatoi e sugli spalti semideserti, se ne conoscono le frasi a memoria. Un paio in particolare: «Rugby, gioco da psiche cubista»; «Qualsiasi partita di rugby è una partita di calcio che va fuori di testa». Non si discute la scintillante eleganza della scrittura. Mi sembra, però, che la prova di Baricco confonda quel poco che nel rugby è chiaro. «Psiche cubista». A naso, credo che si possa contestare l' accostamento tra i volumi, i vuoti del cubismo e il rugby.
Il rugby è fatto di traiettorie e di pieni, quando è ben organizzato e giocato. Se si apre un vuoto è per sfinitezza o errore tattico. L'omogeneità dello spazio non interrotto, impenetrabile alle cose, di Braque mi appare l'immagine rovesciata del rugby dove i giocatori devono irrompere continuamente nello spazio altrui.
Il fatto è che faccio molta fatica a vedere nella leggiadria nuda e molle de Les demoiselles d'Avignon di Picasso l' di una "linea trequarti", nella certezza che non si possa trattare di un "pacchetto di mischia" (gli "avanti" hanno troppo da fare là sotto per essere leggiadri). Soprattutto i tempi non tornano.
Quando il cubismo nacque tra il 1907 e il 1908 al Salon d'Automne, il rugby era già più che maggiorenne con i suoi ottantaquattro anni, se è vero che uno spiritello anarchico consigliò a quel mattocchio d' irlandese di William Webb Ellis - nel Bigside della "pubblic school" di Rugby - di afferrare la palla con le mani e di non giocarla con i piedi, il 1 novembre del 1823. Qualcosa sulla natura del gioco vorrà, dovrà pure svelarsi se è nato nel terzo decennio dell' Ottocento e non nel primo del Novecento. La differenza - mi pare - è addirittura decisiva per comprendere quale cultura, nella sua fase originaria, sia custodita dal carattere del gioco. A cavallo di quel 1823 in Inghilterra è in corso una rivoluzione.
Il Paese - il primo Paese urbanizzato e modernizzato della storia - è "l'officina del mondo", un vortice impetuoso di scienza, tecnologia, industria, istruzione, cultura, riformismo politico che cancella le antiche demarcazioni sociali tra signori e contadini, fra agricoltori nelle campagne e artigiani nelle città. La forza di quel processo di modernizzazione in movimento in quegli anni divide più che unire.
Nella grande Isola, scrive Benjamin Disraeli, ci sono "due Nazioni": «Non vi è comunità in Inghilterra. Crediamo di essere una Nazione e siamo due Nazioni sullo stesso territorio, due Nazioni ostili nei ricordi, inconciliabili nei progetti». (Già qui qualche eco della nostra attuale condizione dovrebbe appassionarci).
Nella palude di una nazione divisa affiora la necessità di trovare ragioni comuni, l'urgenza di creare un sistema educativo capace di formare giuristi, medici, funzionari dello stato, scienziati che sappiano - sì - lavorare con efficienza, ma siano anche consapevoli dell' interesse pubblico e dotati di "buone maniere". In questo bisogno prende forma l'idea di Thomas Arnold, preside della Rugby School, l'autentico padre del gioco, al di là del mito fondativo che fa di William Webb Ellis l'eroe. Egli immagina un nuovo modello educativo fondato su una "cristianità energica", sul servizio alla collettività, sulla disciplina abbinata al senso di responsabilità; una formazione innervata da valori che, senza rallentare "l'officina del mondo", cancelli la frattura che si è creata tra le "due Nazioni" con il rispetto e la reciproca comprensione, una memoria comune, un progetto non più "inconciliabile", ma condiviso. (Quanto questo sia necessario - oggi - all' Italia è inutile dire).
Thomas Arnold è convinto che lo sport possa avere un ruolo essenziale in questa missione. Il corpo lo si può dire veramente "formato", conclude, soltanto quando con tutte le sue risorse è al servizio di un ideale morale. Lo sport non è più svago, allora. Diventa un cardine della "formazione morale". Se ogni ragazzo conosce la vittoria e la sconfitta, si rafforza la sua stabilità emotiva. Lo si prepara al servizio sociale perché si confronta con grande impegno in un quadro di regole reciprocamente accettate. Gli si insegna a rispettare l' avversario pur volendolo sconfiggere. Lo si educa ad accettare serenamente e senza alibi l'esito della competizione. Una partita - soprattutto la brutale franchezza di una partita di rugby - apre il solco entro cui si definisce un ethos, un'idea di gentleman, un modo di stare al mondo e con gli altri.
Offre la possibilità di dimostrare forza d' animo, coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la materia grezza di quella etica del fair play, che trova il suo slogan nell'esortazione vittoriana Play up and play the man! Gioca e sii uomo.
Perdonatemi la tirata. Voglio dire che il rugby è spesso raccontato con una retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne conoscono le regole appare la sfrenatezza di un regime psichico primitivo segnata dai gesti di ragazzotti saturi di irrequieto testosterone. In questa luce, non se ne intravedono le metamorfosi di comportamento che si consumano nel gioco né quanto quelle metamorfosi siano indotte da un pratica auto-repressiva, governata dal Super-Io. Credo che non sia coerente allora parlare di "follia", di "caos", di «una partita di calcio che va fuori di testa». Il rugby è una faccenda per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne) contro quindici, separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in gara per conquistare l'area di meta e schiacciarvi l'ovale.
Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura spudorato nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l' apparenza, è l'esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o nel gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture.
Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l'odio è paura cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione gregaria, l'arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la violenza o forse proprio grazie a quella. Dite, si può immaginare qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche, comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l'ingegno talentuoso e non il metodo. La furbizia e non la lealtà. L'inventiva e mai la preparazione. Il "miracolo" e mai l'organizzazione. L'individualità e mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del "gruppo chiuso" e mai il desiderio di farsi stimare da chi al "gruppo" (ceto, famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l'ammirazione che suscita nell' avversario. Il rugby - la comprensione del gioco, della sua nervatura, del suo spirito e consuetudine - spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del nostro stare insieme.
Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così estraneo all'identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio per riformarla. L'appuntamento è al Velodrome di Marsiglia, l' 8 settembre. Le prenderemo, ma non importa. Play up and play the man!
Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica 2007

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