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Diffamazione, perché quella legge è sbagliata

11 Ottobre 2014 7 min lettura

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Diffamazione, perché quella legge è sbagliata

6 min lettura

di Andrea Iannuzzi

Se ne parla da anni. Il tag è legge bavaglio ma con questa espressione, legata a una mobilitazione collettiva contro il tentativo di restringere la libertà di stampa messo in atto dal governo Berlusconi, si sono via via etichettate cose diverse e non sempre omogenee tra loro.

Ora il tema torna d’attualità perché il Senato si appresta a esaminare un testo che si propone di riformare il reato di diffamazione a mezzo stampa, estendendo i suoi confini alle testate on line (purché registrate ai sensi della Legge sulla Stampa), modificando le sanzioni in caso di condanna ma soprattutto prevedendo nuove procedure in tema di rettifica ed eventuale cancellazione dei contenuti on line.

Alla base l'idea di separare il giornalismo "registrato" da quello non registrato, un'idea medievale che di certo non salva i blogger: li espone ancora di più.

Una sintesi – commentata – della proposta è contenuta in questo articolo di Liana Milella su Repubblica, mentre l’esperto di diritto on line Guido Scorza ne parla qui.

Entrambi gli articoli contengono nel titolo la parola bavaglio e questo ha spinto Luca Sofri, direttore del Post, a scrivere questo post (minuscolo) sul suo blog Wittgenstein nel quale, a prescindere dal giudizio sui vari aspetti della legge, sostiene che sia inappropriato parlare di bavaglio.

Ha ragione. E anche io ho sbagliato a usare quella parola come riflesso condizionato quando ho postato su twitter l’articolo di Milella, taggando il premier Matteo Renzi affinché vigilasse sui lavori parlamentari.

Sofri ha ragione perché le parole, quando sono ripetute in modo semi-automatico, perdono il loro significato. Non chiamiamolo bavaglio. Ma sul fatto che si tratti di una buona legge nutro molti dubbi, mentre ho pochi dubbi sul fatto che – se non sarà modificata – rappresenti una limitazione della libertà di espressione, informazione e opinione in Italia (non ho usato volutamente il lemma “libertà di stampa”).

Ho espresso parte di questi dubbi in un thread su Facebook, nel quale ho taggato anche Francesco Nicodemo, ex responsabile comunicazione della segreteria Pd e ora nello staff di Palazzo Chigi.

Lo stesso Nicodemo, dopo essersi attivato, mi ha postato la precisazione della senatrice PD Rosanna Filippin, relatrice della proposta al Senato, che per chiudere il cerchio usa la parola “bavaglio”, anteponendole l’aggettivo “nessun”.

Nella nota della senatrice ci sono alcuni elementi che meritano una riflessione.

Il primo è che le modifiche alla legge sulla stampa e le nuove direttive in materia di diffamazione sono state concordate con l’Ordine dei Giornalisti. Quindi l’Ordine dei Giornalisti, anziché mettere mano in maniera radicale a una legge sulla stampa che risale al 1948, è favorevole ad equiparare sic et simpliciter le testate on line (registrate) a quelle cartacee.

Il secondo elemento rilevante è la garanzia che lei, come relatrice, “darà parere negativo” a qualsiasi proposta che riguardi blog e siti non registrati. Il fatto che lei sia contraria però non esclude che emendamenti in tal senso possano essere presentati e trovare anche i voti per passare.

Il terzo elemento degno di nota riguarda i commenti agli articoli: la responsabilità del commento, dice Filippin, sarà solo in capo all’autore stesso (purché non sia anonimo, visto che nessuna legge per ora vieta i commenti anonimi o con pseudonimo), mentre alla testata potrà essere richiesta la rimozione del commento.

Alla luce di tutto ciò, mi pare che il testo in discussione al Senato continui a presentare diversi punti critici che provo ad elencare.

1. Trovo poco sensata l’idea di “punire” chi registra la propria testata on line pur senza averne l’obbligo – a differenza delle testate cartacee, per le quali invece l’obbligo esiste pena la non possibilità di stampare. Si tratta di un invito implicito a non registrare la testata, per non incorrere nelle sanzioni. Ripeto: si può fare giornalismo on line anche con siti non registrati e in questo caso si potranno scrivere tutte le fregnacce del mondo senza rientrare nelle fattispecie della legge. D’altra parte, il limite della registrazione è l’unico al momento disponibile per evitare l’effetto “bavaglio”.

2. Che ne sarà dei blog ospitati da piattaforme / testate registrate? Risponderanno alla stessa legge? I blog sono notoriamente spazi liberi auto-gestiti dal blogger: non ne faccio una questione di merito, ma questa è senz’altro una zona grigia sulla quale vale la pena riflettere.

3. Se la legge prevede la responsabilità diretta del commentatore (e quindi la necessità della testata di registrarlo e renderlo individuabile), tanto vale chiudere i commenti una volta per tutte. Mettiamo il caso che l’utente lasci un commento anonimo che qualcun altro ritiene lesivo o diffamatorio. Chi deve rintracciare le generalità del commentatore? Chi le deve dare a chi? Oggi di questi casi si occupa in genere la polizia postale, ma un domani è ipotizzabile che la testata fornisca direttamente al “diffamato” le generalità del commentatore affinché possa rivalersi in solido? E con quale diritto una testata cancella il commento di un utente solo perché un altro utente lo chiede? L’utente richiedente deve dimostrare il suo interesse diretto? O arriveremo al tutti contro tutti, per cui tizio chiede di cancellare il commento di caio perché gli sta antipatico? Il fatto di richiamare la “norma Google” nel testo non è un buon segnale (aggiornamento: come fa notare Massimo Mantellini su twitter non esiste alcuna sentenza europea Google che riguarda la responsabilità dei commenti). È noto infatti che Google, dopo il pronunciamento della Corte Europea sul diritto all’oblio – che prevede la responsabilità diretta dei motori di ricerca sui link sgraditi – abbia adottato un criterio del tutto arbitrario nella rimozione dei link. Sarà dunque la testata a decidere quali commenti cancellare e quali no? E su quelli non cancellati, rischierà comunque sanzioni?

4. Ma il punto più delicato riguarda le disposizioni in materia di rettifica e/o cancellazione di presunti (e ribadisco presunti) contenuti diffamatori. Se interpreto bene la proposta di legge, si arriverà a una situazione contraria a ogni stato di diritto per cui ogni contenuto viene considerato potenzialmente diffamatorio, fino a eventuale prova contraria.

Provo a spiegarmi. Mettiamo che io cronista scrivo che il politico ics è indagato, perchè l’ho saputo da fonti riservate. Mettiamo che il politico ics, pur essendo effettivamente indagato, non abbia ricevuto alcun avviso di garanzia. Il politico ics, in base alla nuova legge, mi chiede di pubblicare la rettifica (ipotesi “Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia”, ma potrebbe anche essere “non sono indagato”) e che mi chieda di rimuovere l’articolo nel quale ho scritto che è indagato.

Io a questo punto posso fare diverse cose. La prima è pubblicargli la rettifica secondo le disposizioni di legge, quindi all’interno dello stesso articolo (la stessa URL, in termini tecnici) ma in posizione dominante, cioè sopra l’articolo stesso. Siamo dunque al paradosso che il lettore leggerà prima la rettifica dell’articolo stesso.

La seconda cosa che posso fare è accogliere la sua richiesta di cancellazione (e a quel punto non vedo la necessità di rettifica, se il contenuto è cancellato, ma anche su questo la legge non è chiara, perché prevede che comunque la rettifica sia pubblicata a parte, come contenuto a sé stante. Paradosso: all’interno del sito e sui motori di ricerca si troverà la rettifica di un articolo che non esiste più, cosa che contrasterà con lo stesso diritto all’oblio invocato dal ricorrente).

La terza cosa (e quarta) che posso fare è ignorare la richiesta di rettifica, o quella di cancellazione, o entrambe. Ed è qui che la legge diventa, a mio avviso, liberticida. In questo caso infatti è previsto che il ricorrente si rivolga a un giudice e il giudice irroghi una sanzione pecuniaria alla testata e all’autore dell’articolo.

Quello che non ho capito (e se qualcuno me lo spiega, ne sarei felice) è quale e quanto sia il potere discrezionale del giudice nell’irrogare la sanzione. I casi sono due: A) il giudice, prima di irrogare la sanzione, deve avviare un’indagine per capire se davvero quel contenuto è diffamatorio. Ma in questo modo verrebbe meno il senso stesso della legge e di fatto si assisterebbe a una replica della querela per diffamazione anche per la semplice rettifica. B) il giudice è tenuto a irrogare la sanzione e questo significa che per ogni rettifica non pubblicata la testata (e il giornalista) sanno di andare incontro a una multa.

In entrambi i casi (l’ipotesi di dover affrontare un iter giudiziario parallelo oppure quella di dover pagare subito una sanzione) anche chi sa di aver scritto una cosa vera avrà molti buoni motivi per accogliere la rettifica o addirittura cancellare, soprattutto se alle spalle non ha un editore disposto a rimetterci di tasca propria.

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Il risultato è quello che ho sintetizzato nel titolo: siamo alla diffamazione preventiva, all’obbligo di esaudire le richieste di chi si sente diffamato a prescindere dall’oggettiva sussistenza della diffamazione. Soprattutto, a compensare tutto ciò non esiste alcuna sanzione per dissuadere la rettifica (o la querela) facile: se una richiesta di rettifica si dovesse rivelare infondata, il richiedente non viene minimamente sanzionato, come fa notare Arianna Ciccone.

L’idea che in un paese che giustamente garantisce i suoi cittadini – e in particolare i membri delle istituzioni – fino al terzo grado di giudizio, si possa invece trattare come diffamatorio qualunque contenuto (e di conseguenza come diffamatore il suo autore) prima del pronunciamento di un giudice e solo su richiesta di parte, mi lascia basito.

Se questo è il modo per recuperare posizioni nella classifica della libertà d’informazione (nel 2012 l’Italia era al 24° posto su 25 in Europa, l’unica “semilibera” insieme alla Turchia), mi sa che non faremo molta strada.

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