Zerocalcare, l’accollo linguistico e il conflitto tra centro e periferia
10 min letturaUno dei livelli di lettura dei fumetti di Zerocalcare, e ora anche della serie Strappare lungo i bordi, forse ancora più identitario della tanto bistrattata parlata, è la mole di simboli, poster, spillette, scritte sui muri, sui citofoni e sui foglietti sparsi.
Frequentare (o aver frequentato) gli spazi e l’umanità descritta nei fumetti di Zerocalcare significa necessariamente fare esperienza del rapporto reale che esiste tra Michele Rech e la sua gente. Il leitmotiv della vita di movimento romano è quello di un flusso continuo di richieste di disegni, loghi, manifesti per gruppi e collettivi, numerose telefonate; una quantità incredibile di inviti a cause di cui certa militanza si occupa senza ricevere mai molta attenzione mediatica. Le richieste, quando possibile, sono esaudite in bilico tra l’accollo e la solidarietà. È un rapporto spesso canzonatorio, non di riverenza, ma di bonaria pretesa, come se il suo successo fosse un effetto collaterale non del tutto percepito, né determinante, a dire: “guarda che non è cambiato niente, devi continuare a fare ciò che hai sempre fatto per noi, forse anche di più. Ce lo devi”.
Questo rapporto tra il movimento romano e Zerocalcare si potrebbe definire quasi sanitario, funge da metaforici schiaffi in faccia appena si materializza la possibilità che lui possa alzare la cresta. Non è dato sapere se sia merito di questa pressione o di elementi più caratteriali, ma Zerocalcare per ora sembra aver eluso i cliché di quelli che ce la fanno e poi dimenticano le proprie origini, vanno a vivere in centro, diventano testimonial di qualche brand oppure finiscono fagocitati dal proprio ego o, peggio, si propongono come rappresentanti o portavoce di movimenti pensando di poterne incarnare tutte le anime e declinazioni. Gli sprazzi di egomania sono sicuramente un’esigenza indotta dai media, che non riescono a fare a meno di creare idoli, ma diciamo che per ora il rischio di perdita di contatto con la realtà sembra essere al di sotto della soglia di allarme. Nel 2021 è un rischio più che presente in un tipo di attivismo che fabbrica piedistalli e dove la necessità di confronto e l’urgenza di un contatto con chi si trova in prima linea nelle lotte, lontano dai riflettori, è molto tenue e tutto sommato anche semplice da bypassare grazie, ad esempio, all’architettura di piattaforme come Instagram.
Cito questa delicatissima relazione, già nota a chi segue Zerocalcare dagli albori del successo, soltanto perché riporta molti elementi e spunti per poter parlare di lingue, dialetti e accenti. In questo, infatti, Strappare lungo i bordi ha squassato gli argini di un non detto da sempre presente in Italia, nazione che troppe poche volte si è trovata a interrogarsi seriamente sulla natura e le implicazioni dell’uso della sua lingua ufficiale. E lo ha fatto arrivando in questi anni frammentati, in cui non è scontato sia possibile un’operazione simile senza perdersi in tifoserie e polemiche che buttano fumo sulle radici del problema. Eppure, l’antipatia, quando non la critica sfacciata a mezzo stampa, verso una parlata, un dialetto o una lingua minoritaria, non è mai soltanto una questione di lingua. È anche una questione di potere, di controllo; sicuramente di classe.
Per le persone meridionali è cosa nota che entrare nello spazio pubblico del discorso presuppone ripulirsi di tutte le cadenze, parole e accenti che ricordino un dialetto. Il dialetto, specie quello del sud, associato alla marginalità può essere protagonista, certo, ma soltanto quando esprime subalternità, quando si parla di miseria, malavita o quando è intrattenimento per la classe media; quando serve insomma a rafforzare l’egemonia della lingua ufficiale. Il dialetto deve esprimere sempre i suoi limiti, mai le sue possibilità, e di contrasto dare valore all’italiano che osserva ed è destinatario della rappresentazione, la consuma, ma soprattutto la controlla.
Una parlata, un accento, un dialetto è un codice, ma anche un luogo. E ciò che urta della rappresentazione di Zerocalcare è che la periferia è protagonista autosufficiente, che non si rappresenta necessariamente in contrasto, che ha trovato le sue maniere, di certo dolorose, ingiuste e imperfette, e la sua ragione d’essere, senza sentirsi in dovere di dare spazio o importanza al centro, ai centri. Così distanti che non è più necessario nemmeno nominarli. Il racconto generazionale, se sentissi la necessità di cercarlo, lo troverei qui: abbiamo dovuto fare a meno del rispetto e della considerazione di chi ha ridotto le nostre esistenze in frantumi, siamo diventati in un certo senso corpi marginali autosufficienti nelle città, non lo abbiamo mai espresso per non sentirci vittime; ora che lo rivendichiamo è una verità che non tutti vogliono ascoltare. Dirlo nelle lingue nostre è qualcosa di facile da recriminare (non vi capiamo) e insieme l’affronto più grande, perché è come prendere parola in quella lingua/luogo che il centro credeva di aver eliminato dal discorso. È difficile da ricevere perché il centro si rappresenta come unico luogo in grado di produrre narrazioni. Se questo è il trattamento pubblico riservato a un dialetto, immaginiamo la discriminazione invisibile che si consuma davanti a chi non padroneggia né dialetto, né italiano.
“Ma più semplicemente parlare tutti in italiano e farsi capire da 60 milioni di persone e non dare per scontato che gli altri capiscano il nostro dialetto/inflessione?”: è solo uno degli innumerevoli commenti che ho letto sulla serie. Non sono una linguista, né tantomeno una sociolinguista. Ma posso parlare di tre lingue/luoghi attraversati per portare altri spunti in grado di dire che quando si parla di lingua si sta sempre parlando di tutt’altro.
Il punto di partenza: un ambiente geografico quale una provincia del sud in cui il dialetto si parla fluentemente e in cui sono anche presenti elementi di analfabetismo. Per il centro ricco e produttivo, dialetti e parlate sono un codice indecifrabile, un’esclusione socialmente accettata, giustificata e normalizzata dal discorso pubblico: non ti capiamo, dunque non ci sentiamo in dovere di prenderti in considerazione, anche se il problema nel margine è causato dal centro. Per il centro ricco e produttivo, l’analfabetismo non è percepito come una responsabilità storica e sociale condivisa, come la possibilità negata di ridurre in segni intellegibili l’incredibile vitalità di un vocabolario e di un ecosistema che piuttosto ha dovuto sviluppare altre capacità per adattarsi alla sola forma orale. È così che si arriva al punto in cui si considera la lingua italiana, quella ufficiale, come unica forma possibile di comunicazione, cultura e presenza. Tutto quello che è diverso dal codice del centro è assente, è assenza. Eppure succedono un sacco di cose nei margini.
Un altro tema difficile per il senso borghese della cultura è la provincia del nord rappresentata come un luogo a cui tornare per ripiego, sfuggendo alla narrazione del centro di destinazione della diaspora meridionale. Il sindaco non si riconosce nella rappresentazione di Biella; chissà se gli sarà mai venuto in mente di chiedere invece ai suoi giovani se hanno avuto modo di riconoscere il vuoto della loro provincia.
Ampie aree del paese, da nord a sud, per non parlare delle isole, che da punti precisi urlano persino il loro desiderio di indipendenza, sempre invisibilizzato, riconoscono nella parlata e nei dialetti o nelle loro lingue un luogo di autodeterminazione e una comfort zone. Una lingua/luogo che sono spesso costretti ad abbandonare, per necessità, per scelta consapevole e rigetto o per entrare nel famoso spazio pubblico del discorso, quello dell’accademia, della tv, dell’editoria, del giornalismo, dove si produce cultura, pensiero critico. Dove si riproduce il potere.
Seconda tappa. La Catalogna, dove intimare a una persona di parlare lo spagnolo in pubblico per mancanza di comprensione, cosa che accade costantemente, è metaforicamente il richiamo franchista all’unità dello Stato. Il catalano parlato in Catalogna era una lingua clandestina perché proibita sotto il franchismo, poi nominata lingua ufficiale solo nel 1979. La lingua è sempre stata la maniera di (tentare di) mantenere uniti territori con fortissime spinte indipendentiste e di autodeterminazione, e ancora oggi l’uso esclusivo del castigliano è uno degli argomenti cari all’estrema destra di ispirazione franchista. Qui il richiamo alla lingua ufficiale è apertamente il richiamo all’unità e insieme l’ombra dell’oppressione, che è stata sempre anche linguistica. Questo tenendo anche conto della critica che arriva da punti di vista decoloniali, che oggi in Catalogna si ritrovano a rivendicare l’uso del castigliano: “Questa è la lingua dell'oppressore, ma ne ho bisogno per parlarti”, per dirla con Adrienne Rich. Potrebbe essere questo un elemento che in Italia ancora si muove in forma subconscia?
Nel 2020, lo scrittore Douglas Stuart con il suo Shuggie Bain, ambientato nella Glasgow degli anni '80, vince il Booker Prize. A ruota vengono pubblicati in Regno Unito, romanzi, racconti, film e serie tv di ambientazione working class; tendenza che in Europa raggiunge altri paesi, come Francia e Spagna. Il dibattito si accende sulle vite ai margini, sulla necessità di aprire l’accesso alle storie e alle culture e alle lingue della strada, intersecando le questioni di genere e di razza. Mentre in Italia Shuggie Bain raggiunge soltanto poche cerchie già sensibili, il resto delle narrazioni di classe lavoratrice si contano sulle dita della mano. Poche coraggiose case editrici affrontano il tema della classe, tra tutte Alegre e la collana working class curata da Alberto Prunetti, senza comunque ricevere l’attenzione che meritano testi come Chav, libretto che è molte cose, prima fra tutte una critica feroce al mondo dell’attivismo di classe media, e Tea Rooms, di Luisa Carnés, una proletaria nel mondo della ristorazione. Tutto questo ha delle conseguenze ben precise, e cioè l’estrema difficoltà che ha la cultura di strada, di periferia, di classe povera e lavoratrice di farsi ascoltare e capire, e dunque difficoltà di restituire dignità ai suoi temi, alle lingue, agli slang e ai codici necessari a descrivere anche i suoi problemi. E non parliamo solo di operai e fabbriche, ma di un immaginario pieno di soggetti diversissimi e di pratiche di sopravvivenza, autodifesa e resistenza alla violenza economica, immobiliaria, lavorativa; dell’assenza di possibilità, ma anche di presenza, di cura e delle capacità insite nelle comunità per ritrovare benessere e forme di partecipazione alla collettività compatibili e rispettose di certi stili di vita.
In particolare in Scozia, il momento d’oro della letteratura working class sta fomentando un dibattito estremamente interessante sulla questione linguistica e sul rapporto tra i dialetti e le parlate e le lingue che parlano del privilegio. Perché in Scozia le lingue ufficiali sono tre: tra il gaelico e l’inglese, è lo scots (lo scozzese) la lingua eletta a descrivere il paese che passa sottotraccia, quello che contiene di certo miseria e storie truci, ma anche una tenerezza che ancora resiste ai tentacoli della furia gentrificatrice sulle inflessioni e sugli accenti, nel tentativo di renderli appetibili a una visione più cosmopolita della città. È la lingua in cui riverberano gli echi dei vecchi cantieri navali o che parla delle Irn Bru consumate tra i ponteggi delle nuove imprese edili (la bevanda prodotta da un’azienda a gestione familiare che si rifiuta di vendersi alla CocaCola ed è la salvezza dei lavoratori con un rapporto complicato con l’alcool), la parlata impossibile da eludere nell’East End, quella dei pub, della tradizione orale dei cantastorie e della musica folk.
Qualche settimana fa ho partecipato alla presentazione di un libro che si chiama Duck feet, in un quartiere della periferia di Glasgow. L’autore è Ely Percy, queer e neurodivergente, che ambienta le sue storie nel suo luogo di nascita, un quartiere povero del Renfrewshire. Il libro è pubblicato in scozzese e durante la presentazione c’è stata una discussione sulla ricezione del manoscritto da parte delle case editrici. Ely ha provato molte volte a inviarlo in giro prima che smettessero di dare sempre la stessa risposta: "un libro pubblicato in scozzese non avrebbe un mercato e non sarebbe appetibile per il nostro catalogo". E invece, complice proprio l’ondata di narrazioni working class, la pubblicazione di Duck feet è diventata un piccolo caso editoriale. “Il maggiore timore delle case editrici”, afferma Percy “era di non riuscire a vendere questo libro perché scritto in una lingua minoritaria. Siamo partiti dalla provincia e dalle periferie ed è andato esaurito in tutti i posti in cui lo stiamo portando. Molta gente ha ripreso a leggere grazie a questo libro”. Il problema, dunque, non era di vendite, ma il fatto di non rivolgersi in una lingua immediatamente intellegibile alla classe media e soprattutto dare per scontato che la classe media fosse l’unica consumatrice di cultura. In altre parole, è molto più facile stigmatizzare chi non legge piuttosto che dare spazio a narrazioni che siano rilevanti per chi vive ai margini e in cui ci si possa identificare facilmente.
Da queste prospettive è molto evidente quanto il mondo culturale italiano sia invece ancora poco permeabile a certi discorsi e tendenze. Tranne poche eccezioni e la presenza di mosche bianche all’interno di grandi sistemi, il mondo della produzione di cultura riflette gusti molto borghesi che si percepiscono come il grado zero della narrazione, ed è raro che si intersechino le questioni linguistiche, quelle di classe, genere e razza se non in piccole e medie case editrici e produzioni. Tutto ciò che non è destinato al target di classe media è soggetto a critica; la serie di Zerocalcare è l’ultima e forse più eclatante dimostrazione in ordine di tempo.
Questo permette di chiudere il cerchio e tornare al punto di partenza. Il dialetto, la parlata, non è solo una lingua/luogo, ma la testimonianza di un vincolo. Non esisterebbero dialetti se non ci fossero le comunità, le relazioni, i legami che li tengono in vita. Non si tratta di codici scritti, standardizzati, usati nella cultura ufficiale, serve dunque una comunità che si relaziona in modo costante a tenerli in vita. Le periferie sono i più grandi luoghi di sperimentazione linguistica, dove le culture si mescolano di più e creano il vocabolario per il possibile, in questi luoghi sempre molto variegato. La working class è abituata alla mutevolezza e alla mancanza di controllo. Recepisce bene il cambio e la creatività della lingua perché la crea e se ne nutre. Fa parte di quell’imprevedibilità che i quartieri più ricchi cercano in ogni modo di sterilizzare e parlando di lingue, stigmatizzare o standardizzare. Ed questa la più insopportabile delle constatazioni per chi quella lingua marginale la contesta. Per un modello di sviluppo che aliena e atomizza questi legami sono inaccettabili. Abbiamo detto che le comunità fanno le lingue, e vale anche per le neolingue, per l’esigenza di trovare parole nuove per rappresentarsi. Ma quando quella comunità riesce ad accedere ai canali di massa per valorizzare sé stessa e non il contrasto a sé stessa, è sempre qualcosa che fa saltare i riferimenti, come un’anomalia del sistema.
Più della critica sul fatto che Zerocalcare sia o meno in grado di raccontare l’universale, credo sia più sensato concentrarsi sull’auspicio che queste narrazioni laterali si moltiplichino, che siano anche gli altri personaggi, i Secco, le Carmen, a raccontare la loro versione dei fatti; che si imparino a parlare anche le lingue che invece non ci sono per niente familiari, per dimostrare che non partiamo tutti dallo stesso punto, perché c’è anche chi nasce senza nessuna aspettativa addosso, senza nemmeno il foglio da strappare lungo i bordi.