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Com’è cambiato il sistema di potere in Ucraina dopo l’invasione russa

30 Dicembre 2022 11 min lettura

Com’è cambiato il sistema di potere in Ucraina dopo l’invasione russa

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L’invasione russa non ha solo trasformato il panorama politico internazionale, ma anche radicalmente alterato l’equilibrio di potere all’interno dell’Ucraina stessa. Molti degli osservatori, infatti, sono rimasti stupiti dalla sorprendente unità che l’élite politica ed economica del paese ha mostrato sin dai primi giorni di guerra. Con la concreta minaccia dell’esistenza stessa del paese, molte delle intestine lotte di potere che da sempre caratterizzano la politica ucraina sembrano passate in secondo piano. I carri armati russi non hanno portato a defezioni di massa da parte degli uomini di potere locali, nonostante alcune eccezioni soprattutto a sud (nella Kherson liberata in questi giorni, ad esempio). Anche i governatori e i potenti sindaci di città come Kharkiv, Odesa e Dnipro, che non erano in buoni rapporti con il potere centrale e spesso considerati come filo-russi, hanno opposto resistenza all’invasione, aiutando di fatto Kyiv a mantenere il controllo su queste regioni. Sin dalle prime settimane di guerra, infatti, l’amministrazione presidenziale di Zelensky e il ristretto gruppo di uomini intorno al presidente è diventato l’unico centro di potere nel paese.

Quest’unità ha di fatto permesso a Zelensky di risolvere molti dei personali problemi politici che hanno caratterizzato la sua presidenza fino all’inizio dell’invasione. A nove mesi da quella mattina del 24 febbraio, infatti, in pochi ricordano come prima della guerra la posizione del presidente fosse piuttosto precaria. Un consenso personale in costante calo, che si attestava intorno al 20%, numerose defezioni, lotte di potere all’interno della sua squadra di governo e un travagliato processo di “de-oligarchizzazione”. Proprio lo scontro con alcuni degli uomini più potenti del paese era diventato il principale grattacapo per il presidente che nel novembre 2021 aveva firmato la legge N. 1780-IX, volta a limitare l’eccessiva influenza degli oligarchi. All’epoca della sua approvazione la legge fu criticata per la sua vaga definizione di “oligarca” e per il fatto che tramite il controllo sull’organo preposto a stilare la lista di oligarchi (il Consiglio per la Sicurezza e la Difesa Nazionale) il presidente avrebbe esercitato un’eccessiva influenza sul processo portando anche ad accuse di autoritarismo.

Dall’inizio dell’invasione russa tutti questi problemi sembrano scomparsi. Il consenso verso Zelensky è schizzato alle stelle, attestandosi intorno al 90%. I suoi rivali, come l’ex presidente Poroshenko, e i vari oligarchi che da sempre hanno un’influenza sostanziale sulla vita politica del paese si sono ritrovati indeboliti economicamente e politicamente, mentre le forze di opposizione e influenti personalità che avevano una posizione piuttosto morbida nei confronti della Russia sono state definitivamente screditate.

Tutto questo, però, non è avvenuto per caso. Oltre all’impatto politico e sociale dell’invasione russa, infatti, la politica ucraina negli ultimi nove mesi è stata caratterizzata da un accentramento di potere da parte dell’amministrazione presidenziale. Una politica che per molti è naturale e giustificata dallo stato di guerra, ma che alcuni, tra cui il partito dell’ex presidente Poroshenko e alcune testate giornalistiche come Ukrainska Pravda, hanno iniziato a guardare con sospetto temendo le conseguenze che il consolidamento di una rigida gerarchia di potere potrebbe avere a lungo termine. 

Narrazione di guerra a reti unificate

In campo mediatico, la figura di Zelensky e dei suoi più vicini collaboratori ha da subito suscitato l’interesse del pubblico internazionale. Già lo scorso maggio la rivista britannica Time designava il presidente ucraino come uno degli uomini più influenti del pianeta.

Sul piano interno il consolidamento della sua figura in tempo di guerra è stato reso possibile anche grazie al monopolio mediatico. Già qualche giorno dopo l’inizio dell’invasione, infatti, le principali emittenti nazionali hanno iniziato a trasmettere notizie a reti unificate. Sono così scomparsi programmi politici e di dibattito (come i famosi talk-show), mentre il contenuto delle trasmissioni che vanno in onda sarebbe, per ora solo informalmente, monitorato dal ministero della Cultura e dell’Informazione e direttamente dall’amministrazione presidenziale.

Sullo sfondo delle drammatiche notizie dal fronte è passato quasi inosservato il fatto che i tre canali legati all’ex presidente e principale rivale politico di Zelensky, Petro Poroshenko, siano stati privati della licenza e dalla scorsa estate non possano più andare in onda (rimangono visibili solo online). Le motivazioni per questa decisione sono rimaste piuttosto vaghe e il Comitato per il Broadcasting, Radiocomunicazioni e Televisione (l’organo competente) non ha fornito motivazioni ufficiali, scaricando la responsabilità sul Consiglio per la Sicurezza e la Difesa Nazionale. Lo stesso portavoce del presidente, Mikhail Podolyak ha affermato che la causa sarebbe il “narcisismo” di Poroshenko che avrebbe usato i canali televisivi per promuovere la sua figura durante la guerra. Fatto che ha suscitato critiche da parte dell’opposizione, tanto che l’ex ambasciatore negli Stati Uniti (2015-2019) ha parlato direttamente di “censura politica”

Non sorprende quindi che anche quello che è considerato l’uomo più ricco del paese, il famoso oligarca Rinat Akhmetov, abbia deciso di disfarsi dei suoi ingenti asset mediatici. Akhmetov è stato uno dei cardini nel sostegno iniziale ai movimenti separatisti a Donetsk e Lugansk (mentre in altre regioni come Kharkiv e Dnipropetrovsk l’élite locale si era opposta a tali scenari) per poi tornare sui suoi passi. Incapace di vendere il suo Media Group Ukraine (che include alcuni dei canali televisivi più seguiti del paese come Ucraina 24) a causa della guerra, perdendo il controllo sui contenuti trasmessi e messo alle strette dalla “legge contro gli oligarchi” del 2021, Akhmetov ha di fatto ceduto allo Stato il suo impero mediatico.

Addio decentralizzazione?

Nei primi mesi di guerra la centralizzazione del potere nelle mani del presidente non ha provocato reazioni contrariate da parte dell’opinione pubblica e delle élite. Secondo alcuni sondaggi dello scorso agosto, ad esempio, circa il 62% degli ucraini considerava inammissibile anche una “critica costruttiva” delle azioni delle massime autorità dello Stato. Il 79% inoltre riteneva che durante la guerra il presidente dovesse avere il potere d’ingerenza sull’attività del parlamento e del governo per rafforzare la difesa del paese.

Nelle prime settimane di guerra l’abolizione da parte del Consiglio per la Sicurezza e la Difesa Nazionale di tre partiti politici considerati dalle autorità e parte della società come  filo-russi, il più grande dei quali, Piattaforma di Opposizione - Per la Vita, non aveva suscitato grande opposizione e risonanza mediatica. Secondo i sondaggi precedenti all’inizio dell’invasione queste forze politiche rappresentavano circa il 20% dell’elettorato del paese.

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Con il protrarsi della guerra, però, piccole crepe all’interno dell’unità tra l’élite del paese sono lentamente iniziate a riemergere. Con ingenti risorse e aiuti internazionali che continuano a fluire verso l’Ucraina, ad esempio, la tensione tra l’amministrazione presidenziale e le autorità locali è tornata a crescere. Secondo numerose fonti, tra cui il Washington Post, la centralizzazione del potere e delle risorse economiche durante la guerra sta ora provocando un crescente risentimento da parte delle autorità locali che si sono trovate in prima linea nell’organizzare la difesa e la ricostruzione delle proprie città. Allo scoppio della guerra, infatti, Kyiv aveva creato una serie di amministrazioni militari regionali subordinando di fatto i governi locali al presidente.

Tra le personalità più critiche nei confronti di Zelensky, ci sono non a caso le autorità locali che prima del conflitto godevano di un certo livello di autonomia informale nella gestione delle politiche e delle risorse, come il sindaco di Dnipro, Boris Filatov. Proprio Filatov nella sua intervista al quotidiano americano aveva parlato delle “tendenze autoritarie” che si starebbero sviluppando durante il conflitto, lamentando notevoli passi indietro nel processo di decentralizzazione e distribuzione delle risorse economiche. Le speculazioni secondo le quali la scorsa estate uomini vicini a Filatov, come l’oligarca Kolomoisky e il suo vecchio alleato Korban, fossero stati privati del loro passaporto ucraino rientrano nel quadro della crescente tensione tra il presidente e le autorità locali.

Infatti, pur controllando tramite il proprio partito (Servo del Popolo) il parlamento, il potere del presidente sulle autorità locali era rimasto limitato. Le elezioni locali del 2020 avevano restituito un quadro molto più disomogeneo a livello regionale, dove peculiarità locali e il vecchio sistema clientelare avevano continuato a giocare il proprio ruolo. Le maggiori città, soprattutto a sud e est del paese, erano rimaste nelle mani dei potenti attori locali che, ora che lo shock iniziale dell’invasione russa sta scemando, sembrano essere disposti ad opporre una maggiore resistenza al popolare leader pur di mettere le mani sui flussi economici che portano con sé i vari progetti di ricostruzione pianificati dal governo e finanziati dai partner internazionali.

Una ‘de-oligarchizzazione’ definitiva?

La guerra ha indubbiamente accelerato anche il processo di “de-oligarchizzazione”, anche se rimane piuttosto difficile capire fino a che punto esso possa consolidarsi nel lungo periodo. Oltre alla perdita dell’influenza politica, dovuta alla centralizzazione dell’apparato mediatico, l’invasione russa, infatti, ha direttamente colpito le fondamenta del potere economico degli oligarchi. Rinat Akhmetov ha perso il controllo su parte del suo patrimonio in Donbas, come l’impianto metallurgico Azovstal' (il più grande produttore di acciaio del paese) e lo stabilimento intitolato a ‘Illič’, entrambi a Mariupol ed entrambi finiti sotto controllo russo. Altri influenti oligarchi, come Dmytro Firtash e Ihor Kolomoisky, hanno visto molte delle loro attività danneggiate, come la raffineria di Kolomoisky a Kremenchuk e lo stabilimento chimico Azot di Firtash a Sievierodonetsk. Un caso a parte è rappresentato da Viktor Medvedchuk, da molti considerato come ‘portavoce’ di Putin in Ucraina. Arrestato all’inizio della guerra, a settembre Medvedchuk è stato spedito a Mosca in cambio di numerosi prigionieri di guerra ucraini che erano finiti nelle mani delle forze russe.

Il processo di “de-oligarchizzazione”, infine, va inserito nello specifico contesto del travagliato processo di sviluppo del pluralismo politico in Ucraina. Per quanto possa sembrare paradossale, se da una parte l’influenza degli oligarchi ha per decenni minato il processo di riforma del sistema economico e politico del paese, dall’altra è stata anche una garanzia informale contro il concentramento del potere nella mani di un singolo gruppo o personalità. Il consolidamento di vari gruppi (spesso chiamati anche clan) – e i loro spesso contrastanti interessi economici e politici – è stato uno dei meccanismi (di certo non l’unico) che ha permesso all’Ucraina di evitare il destino che ha colpito la Russia e la Bielorussia, dove la lotta per il potere dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica aveva portato al consolidamento di un unico gruppo dominante (incentrato sulla figura del presidente). Anche così si possono spiegare le due rivoluzioni di piazza nel giro di 10 anni (rivoluzione arancione del 2004 e quella di Maidan del 2014) durante le quali, oltre alla società civile, a giocare un ruolo importante è stato il supporto mediatico e finanziario dato all’opposizione da parte dei cosiddetti oligarchi.

Lotta alla corte del presidente

A fare scalpore sul piano interno qualche mese fa è stato infine il licenziamento del capo dei Servizi di Sicurezza (SBU), Ivan Bakanov, e del Procuratore generale, Iryna Venediktova. Lo scandalo non ha solo aperto una finestra sulla dubbia fedeltà di alcuni membri delle forze di sicurezza, ma anche su alcune delle dinamiche interne all’amministrazione presidenziale.

Bakanov, infatti, era da sempre considerato come una delle personalità più vicine a Zelensky. Suo amico d’infanzia e successivamente partner economico, agli albori della carriera politica di Zelensky, Bakanov era considerato il suo braccio destro, tanto che il partito creato in prossimità delle vittoriose elezioni presidenziali era stato legalmente registrato proprio a suo nome. Secondo quanto riportato nei Pandora Papers, Bakanov era anche l’intestatario di numerose società offshore legate al presidente. Pur senza aver alcun background in materia militare, proprio Bakanov fu nominato capo dei Servizi di Sicurezza subito dopo l’inaugurazione della presidenza Zelensky.

I tre anni del suo operato a capo dei Servizi di Sicurezza, però, più che da una radicale riforma delle corrotte e compromesse strutture del SBU sono stati caratterizzati da scandali ed intrighi. Secondo alcune fonti, ad esempio, proprio Bakanov e Venediktova avrebbero contribuito ad affossare alcuni dei casi investigati dell’Ufficio nazionale anticorruzione (NABU) che coinvolgevano membri dell’amministrazione presidenziali. Non a caso i rapporti tra Zelensky e NABU, creato dopo la rivoluzione di Maidan del 2014, sono rimasti piuttosto tesi fino all’invasione russa e caratterizzati da svariati tentativi dell’amministrazione presidenziale di estendere il proprio controllo sugli organi anti-corruzione.

Con lo scoppio della guerra la posizione di Bakanov è diventata lentamente insostenibile. Il caos dei primi giorni di guerra, infatti, aveva messo a nudo tutti i problemi causati dal rallentamento del processo di riforma del SBU sotto la sua gestione. Una serie di defezioni e le falle nell’organizzazione della difesa del fronte meridionale avevano portato alla facile occupazione da parte delle forze russe della regione di Kherson già nelle prime ore della guerra. Nei mesi successivi, altri casi di defezione avevano colpito direttamente Bakanov, tra i quali l’arresto, in Serbia, di Andriy Naumov (che aveva con sé un milione di dollari in contanti) capo del dipartimento degli affari interni del SBU la cui rapida ascesa all’interno delle strutture di sicurezza corrispose proprio con la nomina di Bakanov. L’arresto con l’accusa di aver passato informazioni segrete ai russi dell’ex capo del SBU in Crimea, nonché consulente personale di Bakanov, Oleh Kulinich, è stata infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Il rimpasto all’interno dei Servizi di Sicurezza e della Procura è anche un segnale, seppur indiretto, del definitivo consolidamento di una delle diverse fazioni all’interno dell’amministrazione presidenziale. Ad emergere come figura cardine alla corte di Zelensky è stato Andriy Yermak, personalità in lenta ascesa sin dall’inizio della carriera politica di Zelensky, divenuto capo dell’apparato presidenziale nel febbraio 2020. Secondo quanto riportato da Ukrainska Pravda, dopo che Yermak si era sbarazzato del suo predecessore (Andriy Bohdan) e dell’influente Ministro degli Interni, Arsen Avakov, Bakanov era rimasto l’ultimo baluardo al consolidamento della sua fazione. I due infatti erano da tempo in competizione per diventare la figura più influente all’interno dell’ufficio presidenziale. La guerra ha di fatto fornito un’opportunità. Il nuovo capo del SBU e il nuovo Procuratore, infatti, sarebbero personalità legate proprio a Yermak che può ora contare sul controllo degli organi giudiziari e dell’apparato di sicurezza. Una figura che per Zelensky è diventata insostituibile o quasi.

Il futuro e la ‘militarizzazione’ della politica

Con l’indebolimento degli oligarchi e dell’opposizione politica, il consolidamento del potere di Zelensky e l’accentramento del controllo sul sistema giudiziario e sull’apparato di sicurezza, l’unica figura che può competere con il presidente è oggi Valerij Zalužnyj, comandante in capo delle Forze armate. Divenuto estremamente popolare in patria e all’estero, negli ultimi mesi Zalužnyj è entrato in contrasto con l’amministrazione presidenziale sulla gestione di alcuni aspetti pratici della guerra. Sebbene il conflitto sia stato presto risolto, speculazioni inerenti a una crescente rivalità tra il presidente e il comandante in capo hanno iniziato a trovare crescente spazio nel dibattito pubblico. Pur negando ogni ambizione politica, la creazione da parte di Zalužnyj di una sua fondazione di beneficenza sarebbe stata osservata con cautela dalla presidenza, in quanto potrebbe rappresentare la base per un futuro progetto politico.

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Anche se le voci di una crescente rivalità appaiono oggi esagerate, l’apparato militare e la figura di Zalužnyj rappresenta l’unica sfera sulla quale l’amministrazione presidenziale non ha pieno controllo. L’apparato militare guidato da Zalužnyj, inoltre, appare oggi come l’unica istituzione in grado di competere con il presidente in popolarità. Secondo alcuni sondaggi proprio le forze armate e la presidenza sono oggi le istituzioni dello Stato che suscitano maggiore fiducia, rispettivamente il 96% e il 82%. Un fattore che potrebbe pesare se il presidente venisse chiamato a fare difficili scelte politiche.

La capacità dell’Ucraina di sopravvivere alle bombe russe è certamente dipesa dall’iniziale unità d’intenti dimostrata dalle massime istituzioni dello Stato. Ed è proprio la costante minaccia russa a rappresentare oggi il collante che, nonostante le numerose divergenze, rende la progressiva centralizzazione del potere accettabile per la popolazione, l’opposizione e i vari gruppi di potere. Questi elementi però convivono in un equilibrio precario e quello che sembra oggi un inevitabile prolungamento della guerra potrebbe riportare alla superficie le numerose contraddizioni e problemi politici interni che l’invasione ha contribuito a modellare. 

Immagine in anteprima: Il comandante in capo delle Forze armate, Valerij Zalužnyj, e il presidente ucraino, Vladimir Zelensky, via nv.ua

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