Zelensky e la risposta europea all’agguato mafioso di Trump e Vance
14 min letturaNella sera di venerdì 28 febbraio, ora di pranzo a Washington, si è toccato il momento più basso della diplomazia mondiale. L’agguato e le minacce del presidente statunitense Donald Trump e del suo vice JD Vance al leader ucraino Volodymyr Zelensky sono l’ennesima nota allarmante del nuovo corso dell’amministrazione statunitense, che nel primo mese completo di governo ha messo, tanto con le parole ma iniziando presto pure con i fatti, il mondo sottosopra.
Dietro il dito di America First, è chiaro l’obiettivo geopolitico di Trump nel suo secondo mandato: quello di allinearsi alla Russia di Vladimir Putin, con cui ha rapporti di lunga data, e promuovere l’ascesa delle autocrazie di estrema destra in Europa, usando la retorica sulla pace in Ucraina come cavallo di Troia nel proprio piano di distruzione del già agonizzante ordine internazionale, in particolare dentro l’Unione Europea e attorno ai suoi confini.
Strizzare l’occhio al Cremlino, con l’obiettivo ultimo di avere Mosca come alleata o per lo meno partner neutrale, piuttosto che nemica, nella competizione con la Cina, priorità del XXI secolo per gli Stati Uniti, come chiarito recentemente dall’ex ‘neocon’ e neo-trumpista Marco Rubio, Segretario di Stato degli Stati Uniti.
Due giorni prima del vertice a Washington, l’Occidente aveva già toccato il punto più angosciante della delirante comunicazione politica contemporanea, con il video generato dall’intelligenza artificiale in cui Trump ed Elon Musk festeggiano impunemente, insieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, la pulizia etnica dei palestinesi a Gaza.
Poco più di 48 ore dopo, abbiamo assistito in mondovisione all’accoglienza in stile paramafioso (giustificata dall’onnipresente motivetto trumpiano “Business is what I've done my whole life”) nello studio ovale della Casa Bianca nei confronti di un presidente di un paese che, proprio in settimana, ‘celebrava’ il terzo anniversario dell’invasione russa su larga scala.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Perché Zelensky era a Washington? L’accordo sui minerali tra Ucraina e Stati Uniti
Il 28 febbraio, Zelensky si è recato a Washington per incontrare Donald Trump fiducioso di firmare un accordo sui minerali strategici, tra cui le terre rare (Rare Earth Elements –REE, che comprendono 17 elementi chimici tra cui europio, lutezio e cerio, utilizzate nella realizzazione di smartphone e auto elettriche, computer e turbine eoliche), tanto care al leader repubblicano, dato per fatto alcuni giorni prima e la cui bozza era trapelata sui media ucraini. Si stima che le riserve di terre rare contenute nel giacimento di Azov, in Ucraina, superino quelle dei più importanti giacimenti del Nord America, anche se attualmente non vengono ancora sfruttate. Ieri Zelensky, dopo l'incontro on i leader europei, ha comunque affermato che "l'accordo sulle terre rare è pronto per essere firmato".
L’intesa prevedeva la creazione di un fondo comune tra Stati Uniti e Ucraina per la gestione delle entrate derivanti dalle risorse naturali ucraine, come gas, petrolio e, appunto, terre rare. Firmando l’accordo, Kyiv si impegnava a sua volta a versare il 50% dei ricavi futuri al fondo, che sarebbe stato utilizzato per attrarre investimenti nei settori minerario ed energetico. In ogni caso, l’accordo si basava su stime obsolete delle riserve minerarie ucraine, molte delle quali si trovano in territori occupati dalla Russia.
Parallelamente all’intesa economica, Zelensky aveva cercato soprattutto di ottenere garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti, sperando in un impegno più chiaro da parte di Trump: anche cercando di metterlo con le spalle al muro nei giorni precedenti, offrendo le sue dimissioni in cambio di un obiettivo su cui il presidente americano ha sempre posto il proprio veto: l’accesso dell’Ucraina alla NATO.
In generale, il presidente americano ha sempre evitato di fornire dettagli su possibili aiuti militari o sostegno strategico a lungo termine, e anche durante il vertice avrebbe poi detto “che gli Stati Uniti manderanno ancora armi, sperando siano il meno possibile”, e che le “garanzie di sicurezza sono solo il 2% del problema, [...] la parte difficile è questo accordo”.
Il patto sui minerali non prevedeva infatti garanzie di sicurezza dirette, limitandosi a misure economiche e finanziarie, alcune del tutto astratte come la presenza di lavoratori statunitensi in Ucraina che fungerebbero da dissuasore per una terza invasione russa (sarebbe come dire che la pace in Medio Oriente è proporzionale a un maggiore coinvolgimento economico americano nell’estrazione di petrolio in paesi instabili come Iraq o Siria).
La vaghezza con cui Trump ha insistito sull’accordo, glissando sulle garanzie di sicurezza, ha alimentato in Zelensky dubbi sull’effettivo vantaggio per l’Ucraina che avrebbe rischiato di cedere parte delle proprie risorse senza ottenere in cambio un impegno solido da Washington per la difesa del paese.
Sebbene l’accordo in sé non fosse così svantaggioso per l’Ucraina rispetto all’iniziale ultimatum di Trump, le sue vaghe promesse ritenute più che sufficienti da Trump, e al contrario una scatola vuota per Zelensky e molti ucraini, sono uno dei motivi alla base del dissidio tra i due nello studio ovale.
Una discussione a favore di telecamere storica, senza precedenti nella storia americana e mondiale, e probabilmente non organizzata a tavolino, sebbene prevedibile: secondo una fonte diplomatica francese riportata dal Kyiv Independent, il presidente americano avrebbe provato a cancellare la visita di Zelensky nel tentativo di zittirne le prevedibili rimostranze riguardo all’abbraccio mortale fra Washington e Mosca, iniziato ufficialmente due settimane fa in Arabia Saudita.
Gli abbozzi di ‘pace imperiale’ fra Mosca e Washington hanno pure segnato l’adozione pressoché totale, da parte di Trump e del suo establishment, dei talking points della propaganda russa riguardo l’Ucraina e Zelensky, definito da Trump un “dittatore col 4% di approvazione interna” e un “comico mediocre” una settimana prima (qualche ora prima dell’incontro con Zelensky, il tycoon ha poi negato di aver mai pronunciato queste frasi, o comunque di non ricordarle).
Cosa è successo nei 49 minuti dentro lo Studio Ovale (e fuori)
La calma ha tenuto per almeno due terzi dell’incontro tra Zelensky e Trump, circondati alla sinistra delle telecamere dai rispettivi consiglieri (tra cui Andriy Yermak, capo dell’ufficio presidenziale, e Yuliya Sviridenko, ministra dello sviluppo economico sul lato ucraino e JD Vance e Marco Rubio sul lato statunitense) e una platea di giornalisti, ambasciatori e funzionari.
Le avvisaglie del disastro istituzionale, tuttavia, si erano già intraviste quando Trump, accogliendo il presidente ucraino alla vigilia dell’incontro, aveva ironizzato sui suoi “vestiti eleganti”. Secondo Axios, che ha raccolto le testimonianze di funzionari anonimi vicini a Trump, il team repubblicano avrebbe insistito, anche tramite il presidente polacco Andrzej Duda, perché Zelensky si presentasse alla Casa Bianca con giacca e cravatta addosso per la prima volta in tre anni.
Una condizione inaccettabile in questa sottile diplomazia del vestiario: cedendo a queste richieste, il look di Zelensky avrebbe restituito a livello simbolico un'altra fase della guerra in Ucraina, quella in cui il paese invaso accetta di interrompere la propria resistenza a fronte delle richieste di Trump e Putin, peraltro mai ufficializzate su un tavolo delle trattative che ad ora esiste solamente tra le due potenze.
E infatti la prima crepa evidente, circa 20 minuti dall’inizio dell’incontro a porte aperte, avviene quando il ‘giornalista preferito di Trump’ Brian Glenn, corrispondente per la Casa Bianca dell’emittente di estrema destra Real America’s Voice, ha chiesto di nuovo, in modo provocatorio e pungente, a Zelensky perché non stesse indossando un vestito come gli altri nella sala. “Ci sarà tempo per indossare un vestito come il tuo, magari più economico,” ha reagito stizzito Zelensky, realizzando definitivamente di essere accerchiato.
Nei primi venti minuti di conversazione, Trump e Zelensky si erano però scambiati parole di stima reciproca, nonostante i loro dissidi risalgano già al primo mandato del leader MAGA. Il presidente americano aveva elogiato il coraggio dei “valorosi soldati ucraini” e aveva mostrato un interesse di facciata per le foto dei prigionieri ucraini affamati nella cattività russa, esibite da Zelensky. Tuttavia, ha evitato di commentare oltre sull’operato di Putin, quando Zelensky lo ha definito ‘killer’ e ‘terrorista’.
Interrogato dai giornalisti, Trump ha ribadito che non è il caso di parlare male di un assente nella stanza, “come fatto per quattro anni da Biden”, con cui si dovrà trattare. Un’affermazione in contrasto con quanto lui stesso aveva fatto con Zelensky appena nove giorni prima.
A quel punto, Trump ha iniziato a velatamente rimproverare il presidente ucraino: “Noi capiamo perché odi così tanto quell’uomo [Putin], ma secondo noi non dovresti affatto”, arrivando a dichiarare che “tra questi due non c’è un love match, ed è proprio per questo che siamo in questa situazione oggi”.
Tra le righe, l’accusa: la guerra non sarebbe solo colpa della Russia, ma il risultato di presunti dissapori personali tra Putin e Zelensky. Un’affermazione paradossale, considerando che nel 2019 Zelensky fu eletto su una piattaforma politica che cercava il dialogo con Mosca per risolvere il conflitto nel Donbas, tanto da essere tacciato di filorussismo dagli avversari, tra cui l’ex presidente Petro Poroshenko.
Trump ha quindi rafforzato la sua narrazione: la guerra sarebbe stata evitabile, e gli Stati Uniti “non avrebbero dovuto permetterla. Purtroppo, erano guidati da una persona che non sapeva nulla, un uomo totalmente incompetente”. A quel punto è intervenuto il suo vice JD Vance, cogliendo l’assist perfetto per rinfacciare a Zelensky il suo endorsement ai democratici nell’ottobre 2024 durante una convention in Pennsylvania.
L’intervento di Vance è stato l’unico, giornalisti esclusi, nel bilaterale fra Trump e Zelensky. In un discorso intriso di populismo pacifista, scollegato dalla realtà circostante: Trump aveva infatti evitato per quaranta minuti di fornire qualsiasi minimo dettaglio sulle garanzie di sicurezza per Kyiv, incalzato sia da Zelensky che dai giornalisti.
Vance ha puntato il dito verso il presidente ucraino e ha rivendicato il ruolo della diplomazia statunitense nel “salvare la distruzione del tuo paese”, accusando poi Zelensky di avere difficoltà a trovare soldati per la difesa dell’Ucraina e di non essere riconoscente verso gli USA per il sostegno (Zelensky ha ringraziato gli americani 33 volte negli ultimi tre anni).
A quel punto, seppur ammettendo che “ogni paese in guerra ha diversi problemi” (e quello dell’arruolamento è reale) Zelensky ha rotto gli indugi, accusando gli americani di non rendersi conto della situazione, convinti “di essere protetti dall’oceano” attorno ai propri confini geografici.
Dopo aver evitato di cadere nelle numerose provocazioni precedenti, ha replicato direttamente a Vance, chiamandolo “JD”: “Di quale diplomazia stai parlando?”. Poi ha respinto la propaganda trumpiana, secondo cui solo Obama e Biden sarebbero stati ingannati da Putin. “Putin ha violato gli accordi di cessate il fuoco per 25 volte, anche durante la prima presidenza Trump”, ha ribattuto Zelensky in quello che, negli ultimi minuti, è diventato un processo di due uomini contro uno, nella madrelingua dei primi, nella loro casa istituzionale.
“Nessuno vuole la fine di questa guerra più di noi ucraini. La pace però deve essere costruita da Ucraina e Russia, non da Stati Uniti e Russia. Queste sono le parti che devono sedere sul tavolo delle trattative, poi ovviamente gli Stati Uniti come partner principale [...] e, lasciatemelo dire, anche l’Unione Europea dovrebbe essere lì”, ha aggiunto, ringraziando l’Europa per aver fatto, in termini quantitativi, più degli Stati Uniti per la difesa di Kyiv.
Negli ultimi dieci minuti l’equilibrio, già molto precario, è dunque crollato. I dissidi, probabilmente irrisolvibili nelle trattative private, sono emersi in modo evidente davanti ai media. Trump ha proibito a Zelensky di “dire quello che noi [americani] sentiremo in futuro”, riferendosi alla frase del presidente ucraino sull’oceano che separa gli americani dagli europei – un concetto però introdotto dallo stesso Trump poco prima, mentre “invitava” l’UE a gestire i propri affari da sola e prendere atto del disimpegno statunitense.
Trump ha più volte accusato Zelensky di “non avere le carte” per giocare al suo gioco e lo ha invitato a sottomettersi per ottenerle, invece di “giocare alla Terza Guerra Mondiale”. Vance ha chiuso l’incontro annunciando che la discussione sarebbe continuata a porte chiuse. Zelensky ne esce forse indebolito sul piano politico – l’alleanza con Washington resta cruciale per il futuro dell’Ucraina – ma con l’onore intatto: Kyiv non è una pedina e lui non è un burattino pronto a eseguire ogni ordine della Casa Bianca.
In quello che, partito come un meeting complesso e delicato, si è rapidamente trasformato in un agguato improvvisato, Zelensky ha dimostrato di saper resistere, anche dopo tre anni, alle pressioni pubbliche del suo principale donor. Con un rifiuto netto della “pace per procura” tra Stati Uniti e Russia sulle spalle di generazioni di ucraini, ha di fatto annullato tre anni di accuse di “guerra per procura”.
Poco dopo, la CNN ha riportato che le discussioni private erano proseguite fino a quando Trump ha invitato Zelensky ad abbandonare la Casa Bianca, sostenendo che “non [fosse nella] posizione di negoziare”. A quel punto, il presidente ucraino ha deciso di anticipare la sua visita nel Regno Unito, ma prima ha concesso un’intervista straordinaria al media repubblicano per eccellenza: Fox News. Qui ha abbassato i toni, ma senza arretrare sulla sostanza: le garanzie sulla sicurezza rimangono cruciali per una pace duratura in Ucraina. Nessuna scusa a Trump, solo la speranza di mantenere relazioni proficue tra Kyiv e Washington, ritenute, appunto, ‘cruciali’.
Cosa succede ora? Gli incontri nel Regno Unito e il futuro della guerra in Ucraina
Nel frattempo, l’Unione Europea, così come i suoi principali leader, da Macron al neo eletto cancelliere tedesco Merz, da Sanchez a Tusk, si schierava a favore del presidente ucraino nell’imbarazzante siparietto condotto da Trump alla Casa Bianca, peraltro celebrato in Russia. L’unica grande eccezione in Europa - oltre ai soliti, cioè i primi ministri di Ungheria e Slovacchia Orban e Fico - è stata Giorgia Meloni, sempre più a un bivio e costretta a prendere una scelta fra la retorica pro-Ucraina e la sostanza filo-Trump.
In un’intervista a Politico, il deputato trumpista Dan Crenshaw ha detto agli europei di “aumentare la spesa militare, oppure stare in silenzio riguardo alle tattiche di Trump sulla guerra in Ucraina”. Meloni ha tacitamente preso la seconda strada, in contrasto con l’ambizioso ruolo che l’Italia si propone di avere sulla ricostruzione ucraina post-guerra, simboleggiata dalla Conferenza di Roma del prossimo luglio.
Zelensky e Meloni hanno però concesso sorrisi a favore di telecamere durante l’incontro bilaterale a Londra, nel quadro della conferenza organizzata dal primo ministro britannico Keir Starmer domenica 2 marzo, in cui si sono riuniti i leader europei per discutere di Ucraina e sicurezza.
L’incontro londinese ha avuto l’obiettivo di rafforzare il sostegno europeo a Kyiv e garantire un accordo duraturo sulla sua sovranità. Anche Zelensky è stato accolto con un cerimoniale opposto rispetto a quello ricevuto alla Casa Bianca, incontrando pure il Principe Carlo.
Ai colloqui hanno partecipato i leader di Francia, Germania, Danimarca, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Spagna, Finlandia, Svezia, Repubblica Ceca e Romania, insieme a rappresentanti di Turchia (quest’ultima sempre pronta a ospitare i negoziati tra russi e ucraini), al Segretario Generale della NATO Mark Rutte e ai leader dell’UE Ursula von der Leyen e António Costa.
Prima del vertice di Londra e dopo l’incontro Trump-Zelensky alla Casa Bianca, il presidente francese Macron ha cercato di invitare tutte le parti alla calma, e lo stesso avrebbe fatto Starmer. Mentre Zelensky aveva calmato la propria rabbia, Trump ha infatti continuato a provocare il leader ucraino, secondo lui colpevole di insultare Putin, definendo quest’ultimo come colui che cerca davvero la pace, rispetto al leader ucraino.
Il team di Trump continua a ritenere che sia Zelensky a dovere cambiare atteggiamento, piuttosto che il contrario. Il consigliere alla sicurezza americana Mike Waltz ha persino detto che Zelensky dovrebbe rendersi conto che “Trump non è Biden, e queste cose non sono più permesse,” invitando nuovamente alla subordinazione ucraina alle mutate volontà di Washington. Il più convinto nelle critiche ai repubblicani che chiedono le dimissioni di Zelensky è stato il democratico Bernie Sanders, definendo la proposta repubblicana una “prospettiva terribile”.
Dal canto loro, Macron e Starmer si sono posti alla guida degli sforzi europei per persuadere Trump a non affrettare un cessate il fuoco che leda gli interessi di Kyiv e Bruxelles e a garantire sicurezza all’Ucraina.
Durante gli incontri a Washington della scorsa settimana, i due leader hanno presentato un piano che prevede il dispiegamento di forze di pace in territorio ucraino, cercando di orientare la posizione americana sulla guerra. A Londra, domenica, Macron ha proposto l’idea di un cessate il fuoco di un mese per quanto riguarda “l'aria, i mari e le infrastrutture energetiche". La seconda parte del piano prevede che i paesi europei inviino un contingente di pace in Ucraina, ma solo in una fase successiva. “Non ci saranno truppe europee sul suolo ucraino nelle prossime settimane. La questione è come utilizzare questo tempo per cercare di ottenere un cessate il fuoco e negoziare, il che richiederà diverse settimane, e poi, una volta firmata la pace, lo spiegamento [delle truppe]”, ha detto Macron.
La novità di Londra è che Kyiv sarà interlocutore imprescindibile di questi sforzi congiunti, a differenza dell’approccio americano con Mosca. L’appoggio americano al piano franco-britannico rimane però molto importante nell’idea di Starmer.
Starmer ha dichiarato che l’Europa sta affrontando un momento ‘generazionale’ per la sua sicurezza, e il supporto all’Ucraina è fondamentale in questa sfida storica. A margine degli incontri, una nota diffusa da Zelensky sugli esiti del vertice comunica che "gli alleati hanno deciso di coordinare le loro posizioni, di elaborare un piano d'azione congiunto e definire passi concreti per porre fine alla guerra con una pace giusta, garantendo all'Ucraina solide garanzie di sicurezza."
Una constatazione asciutta rispetto alle dichiarazioni di Starner, in ogni caso apprezzate a Kyiv, di supportare l’Ucraina “fino alla fine”, stanziando un prestito aggiuntivo di quasi due miliardi di sterline, e impegnandosi a coordinare una "coalizione dei volenterosi" con "truppe sul terreno e aerei in volo" con gli altri paesi europei pronti a scendere in campo in Ucraina come peacekeepers. Dichiarazioni altisonanti, di certo importanti e strategiche, che dovranno però fare i conti con la realtà: Kyiv non può permettersi un secondo tradimento. E non possono farlo nemmeno Londra e Bruxelles.
"Siamo a un bivio nella storia oggi, questo non è il momento per ulteriori parole, è il momento di agire, il momento di farsi avanti e guidare. Uniti attorno a un nuovo piano per una pace giusta e duratura,” ha detto Starmer. In Ucraina tanti si augurano che alle parole seguano davvero i fatti: ciò rafforzerebbe, altresì, il ruolo dell’Unione Europea (e del Regno Unito) nelle prossime trattative, così come sullo scenario internazionale a lungo termine.
Immagine in anteprima: frame video CNBC-TV18 via YouTube
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