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Zaialand: alla ricerca della lingua padana (che non esiste)

6 Dicembre 2010 4 min lettura

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Zaialand: alla ricerca della lingua padana (che non esiste)

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La lingua padana: quale?

La Lega Nord scuote gli animi dei fedeli sostenendo di amare le culture locali. Se c’è una parola che ha trovato nuova forza da quando soffia il vento verde nell’arena politica nazionale, non c’è dubbio, è il termine “dialetto”.

La scuola padana dichiara che “oltre alla metodologia di insegnamento (non più puramente nozionistica come quella statale), sta nel fatto che oltre ai programmi tradizionali è introdotto lo studio della lingua, della cultura e della tradizione locale, e non certo come materie secondarie o opzionali”; inoltre, un documento sulla cultura popolare dei leghisti spiega che “È fondamentale la valorizzazione della autonomia linguistica nella toponomastica locale attraverso l’uso della cartellonistica, che vede affiancato il toponimo del paese in lingua locale a quello in lingua italiana”. Non solo. 
Il territorio di Zaia, che si distingue sempre per lungimiranza, è andato oltre: nel sito della Regione, grazie all’Ufficio Attività Culturali e Culture Locali, nella persona di Marina Zago, si rimanda a un sito esterno, patrocinato dalle istituzioni, con un titolo efficace: Lingua Veneta. Si trovano il dizionario, la grammatica, la grafia veneta e anche il traduttore, così decido di conoscere maggiormente il mio dialetto e provo a scoprire qualche parola. Vi sono le varianti della lingua veneta, che interessante, mi dico, e osservo che l’alto vicentino, dove vivo, appartiene a un’unica area. 
Perciò, tutto chiaro, non c’è una lingua padana, non c’è una lingua veneta, non c’è un vicentino standard, ma c’è l’alto vicentino. Bene.
Vi faccio un esempio, se qualcuno nel mio piccolo paese volesse tradurre le seguenti battute:
«Quante ne avete?»
«Ne ho cinque, buttale là!».
Diventerebbe:
«Cuànte ghi navìo?»
«Ghi némo sìncue, tràle là!».
A pochi chilometri di distanza dal mio paese, si direbbe:
«Cuànte ghin gavìo?»
«Ghin ghémo zhìncue, tràele là!».
Se invece ci si sposta verso un’altra direzione, sempre di pochissimi chilometri, ecco le frasi:
«Cuànte ghé ne gavìo?».
«Ghé ne ghémo sìncue, traàle là!». 
Come potete notare, a distanze irrisorie sull’intero territorio veneto, talvolta anche con una sola vallata in mezzo, la lingua cambia, possiede sfumature sottili; chi per tradizione famigliare è cresciuto bilingue – l’italiano e il proprio dialetto – sa che situazioni simili accadono in tutta la penisola.
Istituzionalizzare, non soltanto nella scuola, un dialetto apre scenari imprevedibili, quale dialetto scegliere? Il paradosso è che fra padani, un padovano e un torinese per esempio, vi sarebbero enormi difficoltà di comprensione, ma anche fra un veronese e un altro veronese in alcuni casi: la gente di Malcesine, vicino alla provincia di Trento, parla un dialetto assai differente da coloro che abitano a Cologna Veneta, si intendono, ma non sempre. 
Esistono poi registri dialettali più o meno datati, io dico forchéta, non credo che serva la traduzione, ma mia nonna dice pirón.
L’elenco delle complessità continuerebbe ancora, un po’ come i paradossi di Zenone, non si finirebbe mai, arenandosi in spiagge linguistiche infinite. Un ultimo esempio, fra i tanti. A Roana, piccolo paese dell’Altopiano dei Sette Comuni, in provincia di Vicenza, esiste ancora oggi una minoranza etnica e linguistica cimbra, un’antica lingua di origine germanica, avete letto bene, germanica, e si organizzano corsi, si finanziano istituti, gli appassionati sono tantissimi, altresì fra i giovani. 
Come potere istituzionalizzare una lingua padana, no, veneta, no, vicentina, no, alto vicentina, se poi i cimbri rivendicano diritti di esistenza del tutto legittimi?
Chi ama davvero il dialetto veneto, senza ideologismi e invettive politiche, sa che un grande vicentino, Luigi Meneghello, si pensi a “Libera nos a Malo”, ma non sarebbe l’unico autore, ha raccontato nei suoi libri quanto le sfumature siano fondamentali, e proprio perché esistono bisogna conoscerle per provarne rispetto, bisogna esplorarle per andare oltre le difese territoriali.
Meneghello scriveva: “Sento quasi un dolore fisico a toccare quei nervi profondi a cui conduce basavéjo e barbastrìjo, ava e anguàna, ma anche solo rùa e pùa. Da tutto sprizza come un lampo-sgiantìzo, si sente il nodo ultimo di quella che chiamiamo la nostra vita, il groppo di materia che non si può schiacciare, il fondo impietrito. Non dico che questo è il dialetto, ma che nel dialetto c’è questo. So bene che non solo nel dialetto c’è questo, anzi ancor più in quell’altro dialetto degli occhi e degli altri organi del senso, quando il caso o certe disposizioni emotive determinano uno sfasamento tra il mondo delle parole e quelle delle cose”. 
Uno sfasamento che la Lega Nord in Veneto genera fra il dialetto alto, nel suo significato più profondo, e quello basso, nella sua funzionalità elettorale. Sentirsi veneti, amare il dialetto, parlarlo, condividerlo nei momenti anche più intimi è ben altra cosa che un’identità per marcare il “diverso”. 
Alla prossima settimana.

Morgan Palmas
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