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Lo scontro Guardian – Wikileaks pone questioni giornalistiche fondamentali

29 Novembre 2018 7 min lettura

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Lo scontro Guardian – Wikileaks pone questioni giornalistiche fondamentali

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Due giorni fa il Guardian ha pubblicato uno scoop, firmato da Luke Harding e Dan Collyns, secondo il quale l'ex braccio destro di Donald Trump, Paul Manafort, avrebbe incontrato più volte Julian Assange nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra (dove risiede dal 2012 per evitare l'estradizione negli USA), pochi mesi prima del rilascio da parte di Wikileaks delle mail di Hillary Clinton (mail rubate da hacker riconducibili alla intelligence russa) con l'evidente obiettivo di danneggiarne la corsa alla Casa Bianca e favorendo di fatto l'elezione di Trump.

Per alcuni sarebbe la pistola fumante del collegamento stretto fra Trump e russi che avrebbero tramato contro Clinton e di fatto "manipolato" il risultato elettorale influenzando in questo modo l'opinione pubblica.

Ma alcune cose nell'articolo del Guardian non tornano. Ci sono diversi aspetti di debolezza dal punto di vista giornalistico che è giusto mettere in evidenza. Soprattutto perché il danno che deriva da un eventuale errore di questa portata – se si dovesse confermare quello che con grande forza e veemenza Wikileaks, prima, e Manafort, dopo, hanno dichiarato: ossia che quegli incontri non ci sono mai stati e il quotidiano ha pubblicato un falso – avrà ricadute inevitabili sulla fiducia nel giornalismo, al di là del Guardian stesso.

Andiamo per ordine: cosa svela il discusso scoop a firma di Luke Harding, come hanno reagito Assange e Manafort, quali sono le criticità emerse dal lavoro giornalistico del Guardian e perché è importante parlarne.

Lo "scoop" del Guardian

Secondo il Guardian, l'ex capo della campagna elettorale di Trump, Paul Manafort, avrebbe incontrato segretamente Julian Assange, dentro l'ambasciata dell'Ecuador a Londra. Secondo fonti anonime gli incontri sarebbero avvenuti nel 2013, 2015 e nella primavera del 2016, quando gli fu affidato un ruolo chiave nella campagna di Trump per la conquista della Casa Bianca.

Non è chiaro – dice il quotidiano britannico – il motivo di questi incontri e di cosa abbiano discusso. Ma l'ultimo incontro, si legge, potrebbe interessare il procuratore Robert Muller che sta indagando sulla presunta collusione fra la campagna di Trump e la Russia.

Una fonte "ben piazzata", così la definiscono Harding e Collyns, dice che Manafort ha incontrato Assange a marzo 2016. Mesi dopo Wikileaks ha rilasciato una serie di mail del partito Democratico rubate dall'intelligence russa.

Manafort è stato incarcerato quest'anno, condannato per 8 capi d'imputazione, di cui 5 per frode fiscale, uno per aver nascosto conti in banche estere e due per frodi bancarie. Si pensava fosse una delle figure fondamentali per l'inchiesta di Muller, ma lunedì scorso è emerso che avrebbe ripetutamente mentito all'FBI, nonostante un accordo di collaborazione stretto mesi fa in seguito al patteggiamento. Dal canto suo Manafort nega di essere venuto meno all'impegno e di aver violato l'accordo.

La rivelazione del Guardian si basa su differenti fonti tutte anonime, due delle quali avrebbero raccontato della prima visita avvenuta un anno dopo l'asilo concesso ad Assange.

Inoltre, un documento dell'intelligence dell'Ecuador, Senain, che il Guardian scrive di aver potuto vedere, segnala "Paul Manaford" (con il refuso nel cognome) come uno tra gli ospiti noti. Si parla poi anche di "Russians". Così scrive testualmente il Guardian senza fornire ulteriori dettagli: A separate internal document written by Ecuador’s Senain intelligence agency and seen by the Guardian lists “Paul Manaford [sic]” as one of several well-known guests. It also mentions “Russians”.

Secondo queste fonti dunque Manafort incontra Assange nel 2013, 2015 e poi a marzo 2016. Solo un mese dopo sarà nominato capo della campagna da Trump per le presidenziali, fino ad agosto.

La visita nel 2016 sarebbe durata 40 minuti, e la fonte ne descrive perfino l'abbigliamento. Camicia chiara, cardigan e pantaloni color sabbia. Normalmente chi entra nell'ambasciata viene registrato e deve mostrare il passaporto. Ma Manafort, scrive il Guardian senza ulteriori precisazioni, non risulta nei registri dell'ambasciata.

Secondo Harding, queste rivelazioni potrebbero gettare nuova luce sugli eventi che si sono susseguiti poi quell'estate, quando Wikileaks ha pubblicato decine di migliaia di email rubate dagli hacker del GRU, l'agenzia di intelligence militare russa, che secondo Hillary Clinton, avrebbero contribuito alla sua sconfitta.

Una delle questioni chiave è capire esattamente quando lo staff di Trump sarebbe venuto a conoscenza dell'operazione di hacking da parte del Cremlino, e cosa i suoi collaboratori più stretti hanno fatto, se lo hanno fatto, per incoraggiarla. Trump ha sempre negato collusioni.

L'articolo poi prosegue ricordando che, all'inizio di quest'anno, Muller ha incriminato 12 agenti del GRU, ritenuti responsabili dell'hack iniziato a marzo 2016.

Pochi mesi dopo, a giugno, Wikileaks tenta di contattare via mail tramite un intermediario il GRU, cercando di ottenere invano materiale sottratto al Comitato Nazionale dei Democratici. Dopo questi tentativi falliti, a metà luglio alcune spie di Putin spediscono i documenti con allegati criptati.

Harding ricorda anche che a suo tempo Trump accolse trionfante il rilascio di quelle mail da parte di Assange. A ottobre dichiarò testualmente: "Amo Wikileaks", quando Wikileaks rilasciò una seconda tranche di mail sottratte dall'account di John Podesta, il capo della campagna elettorale di Clinton.

Nel 2017 Assange ha poi tentato segretamente di ottenere un accordo col Dipartimento di Giustizia di Trump  per evitare la prigione negli Stati Uniti.

Harding cita anche un viaggio di Manafort in Ecuador per incontrare il presidente, appena eletto, Moren. Durante questi colloqui, sempre secondo fonti anonime, avrebbe discretamente sollevato la questione Assange. Su questo però un'altra fonte avrebbe espresso scetticismo.

L'articolo si chiude facendo notare che, in base a una ingiunzione del tribunale rilasciata per errore, il Dipartimento di Giustizia americano si starebbe preparando a incriminare Assange.

La risposta di Wikileaks

La risposta di Wikileaks è stata istantanea, e non lascia spazio ad interpretazioni. "Questo sarà ricordato come il giorno in cui il Guardian ha permesso a un falsificatore seriale di distruggere totalmente la reputazione del giornale. Wikileaks è pronto a scommettere un milione di dollari e la testa del suo direttore sul fatto che Manafort non abbia mai incontrato Assange". In un altro tweet poi definisce l'articolo del Guardian come il "più infame disastro giornalistico da quando Stern pubblicò i (falsi) Diari di Hitler".

Poco dopo in un altro tweet Wikileaks fa notare come il Guardian stesse silenziosamente cambiando alcune parti dell'articolo. Alterando il titolo, specificando che sono le fonti anonime a sostenere la rivelazione, usando condizionali, aggiungendo la replica di Assange che nega gli incontri e definisce bufala la rivelazione.

In tarda serata poi Wikileaks ha annunciato di aver dato mandato di fare causa al Guardian, lanciando al contempo una raccolta fondi per sostenere l'iniziativa legale.

In seguito è arrivata anche la dichiarazione di Manafort: anche lui nega di aver mai incontrato Assange.

Dubbi e criticità sull'articolo del Guardian

Pochi minuti dopo la pubblicazione, alcuni giornalisti di alto profilo tra critici e sostenitori di Wikileakes, hanno iniziato ad avanzare dubbi sullo scoop del Guardian.

Tanto che il giornale ha iniziato ad apportare modifiche all'articolo, di fatto prendendo le distanze da alcune affermazioni attribuendole alle fonti anonime a partire dal titolo stesso. Cambiamenti che ha fatto senza darne conto ai lettori e senza dare spiegazioni. Qui si possono vedere tutte le parti modificate o aggiunte.

Vediamo da vicino alcune criticità e debolezze dell'articolo, raccolte da Dailydot. Lo scoop si basa esclusivamente su fonti anonime interne al governo dell'Ecuador e i servizi di intelligence. Certo da solo questo non è un motivo per negare la validità delle accuse, ma l'accettazione acritica di queste fonti e il fatto che l'articolo dipenda interamente da esse fa scattare una sorta di allarme fra i giornalisti (e anche i lettori dovrebbero essere prudenti nell'accettare acriticamente queste testimonianze). Da notare che nessun altro giornale ha fino ad ora confermato lo scoop del Guardian con proprie fonti. Cosa che avrebbe potuto rafforzare la versione del quotidiano britannico.

L'articolo si basa anche su un documento interno di una ex agenzia di intelligence dell'Ecuador (SENAIN, chiusa nel 2016), che parla vagamente di visite di "Manaford" e senza ulteriori spiegazioni o contesti di "Russi". Documento che non è possibile verificare, perché il Guardian non lo ha reso pubblico.

Sorprende che nella ricostruzione dettagliata del contesto in cui emerge questa rivelazione, i due autori dello scoop non abbiano menzionato la vicenda che vede coinvolta proprio SENAIN e Wikileaks, che pubblicò informazioni che svelavano l'uso di hacking da parte appunto dell'agenzia di intelligence.

Dettaglio non secondario, che i lettori avrebbero avuto diritto di conoscere per avere un quadro completo del contesto e poter poi decidere autonomamente se ritenere affidabile o meno una fonte simile.

C'è poi la questione dei registri dell'ambasciata che contraddicono la storia.
I registri sulle visite che Assange ha ricevuto sette settimane prima del rilascio delle mail del Partito Democratico sono stati pubblicati dallo stesso Guardian a maggio e da quei registri non risulta nessuna delle tre visite di Manafort di cui parlano le fonti anonime. L'articolo di maggio porta la firma degli stessi autori dello scoop di due giorni fa: Luke Harding e Dan Collyns. Altri giornalisti hanno fatto notare che dipendenti dell'ambasciata negano di aver mai visto Manafort.

Infine, come fa notare Glenn Greenwald su Intercept, ci si chiede come sia possibile che il Guardian non sia riuscito a fornire altre evidenze (foto, video), considerando che stiamo parlando di una delle città più sorvegliate al mondo e visto che l'ambasciata è circondata da telecamere di sicurezza.

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Il Guardian ad oggi non ha risposto nel merito alle critiche e alle richieste di chiarimenti.

Come Greenwald mi auguro che la storia sia vera e che il Guardian sia in grado di gestire e respingere le accuse di aver pubblicato una storia falsa, perché questa vicenda avrà ricadute pesantissime sulla credibilità e la fiducia nei media che vanno ben al di là del solo Guardian.

Immagine in anteprima via DailyDot

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