Le sinistre occidentali devono smettere di parlare al posto degli ucraini
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Lo scorso maggio, un gruppo di accademici ucraini ha pubblicato sul blog dell’Università di Berkeley una “Lettera aperta a Noam Chomsky (e altri intellettuali che la pensano in modo simile) sulla guerra russo-ucraina”.
La lettera invita l’intellettuale e linguista americano a considerare alcuni schemi interpretativi che ricorrono nei suoi interventi sull'invasione dell'Ucraina, giudicati fallaci dai firmatari della lettera.
Siamo un gruppo di economisti accademici ucraini rimasti addolorati da una serie di sue recenti interviste e commenti sulla guerra russa contro l'Ucraina. Crediamo che la sua pubblica voce su questo argomento sia controproducente per porre fine all'ingiustificata invasione russa dell'Ucraina e a tutte le morti e le sofferenze che ha portato nel nostro paese.
In particolare, a Chomsky sono imputate (e contro-argomentate) queste posizioni: 1) negazione della sovranità ucraina su tutto il territorio nazionale; 2) trattare l’Ucraina come una pedina americana in una partita a scacchi geopolitica; 3) suggerire che la Russia è stata provocata dalla Nato; 4) affermare che gli Stati Uniti non sono poi così migliori della Russia 5) occultare i veri obiettivi di Putin nella decisione di invadere l’Ucraina; 6) Sostenere che la Russia è interessata a una soluzione diplomatica; 7) Sostenere che cedere alle richieste russe è il modo per evitare la guerra nucleare.
All’inizio dell’invasione, su OpenDemocracy, lo storico ucraino Taras Bilous, tra i redattori del sito Commons, ha pubblicato invece la “Lettera da Kyiv alla sinistra occidentale” (tradotta in italiano dal sito Menelique). L’intervento di Bilous è molto critico nei riguardi della sinistra “campista”, ossia quella sinistra che, in nome dell’antimperialismo, finisce per sostenere regimi autoritari, minimizzandone le responsabilità perché, in fin dei conti, la loro presenza contrasta il “nemico in casa” (e quindi la NATO, gli Stati Uniti e così via).
Bilous, nelle sue critiche, cita inoltre l’attivista britannico-siriana Leila Al-Shami, che nel 2018 parlava di “antimperialismo degli idioti” per quella parte di sinistra occidentale arrivata a sostenere il dittatore Assad in nome dell'antiamericanismo.
All’inizio di maggio, invece, la femminista Ucraina Tamara Zlobina ha criticato su Facebook vari appelli femministi comparsi in Europa, tra cui quello italiano di Non Una di Meno. Scrive Zlobina:
Tutti questi appelli suonavano come "Siamo contro la guerra! La guerra è un male. È un gioco da uomini! Vogliamo la pace! Siamo contrari a fornire armi all'Ucraina, perché le armi non farebbero altro che alimentare ancora di più il conflitto. Fermate la guerra con urgenza".
Nessuna delle "sorelle" ha pensato di consultarsi con le femministe ucraine quando ha scritto queste dichiarazioni (e quando le ucraine le hanno accidentalmente lette prima della pubblicazione e le hanno criticate, le loro voci sono state semplicemente ignorate).
Sembra di assistere a uno schema ricorrente, dove intellettuali e/o attivisti devono chiedere ad altri intellettuali e/o attivisti non solo di evitare di parlare a nome loro, ma di non canonizzare tragici errori interpretativi intanto che lo fanno. Se da noi questa dinamica può sembrare una novità, la lingua inglese ci dice che le cose stanno diversamente, usando l’espressione “westsplaining”.
Termine pressoché intraducibile, westsplaining indica il paternalismo e il senso di superiorità con cui un gruppo sociale (in questo caso “gli occidentali”) pretende di spiegare o commentare questioni che riguardano un secondo gruppo (in questo caso i paesi orientali che hanno avuto regimi comunisti), invalidandone la soggettività e l’esperienza. Linguisticamente, la parole nasce per derivazione da altre simili forme di controllo sociale attraverso i comportamenti, come il mansplaining o il whitesplaining. Benché “occidentale” od “orientali” come categorie siano discutibili o possano suonare troppo vaghe, i nostri palinsesti televisivi offrono carrellate di esempi di giornalisti, intellettuali o artisti che dal febbraio 2022 hanno scoperto di essere esperti di Ucraina e geopolitica.
Lungo la direttrice interpretativa del westsplaining è possibile capire come mai, per esempio in Italia, un considerevole numero di persone scambia l’invasione da parte di un regime autoritario come una guerra partigiana di liberazione dai nazisti. Ed è un problema che merita di essere affrontato, quanto meno per permetterne il più possibile l’individuazione, poiché specie a sinistra rischia di creare spaccature politiche e condannando all’impotenza ogni vocazione internazionalista. In nome del “realismo” occidentale, politici o intellettuali di sinistra, come faceva notare il già citato Taras Bilous, finiscono persino per trovarsi d’accordo con esponenti di punta dell’estrema destra americana - come Tucker Carlson.
Per vedere meglio questo fenomeno e le sue conseguenze pratiche, tra l'aprile e il maggio scorso abbiamo parlato con alcuni attivisti e studiosi provenienti dall'Europa Orientale. A muoverci durante la fase di ricerca e le interviste non è stato tanto il desiderio di raggiungere una verità inconfutabile - quella la lasciamo volentieri ai tanti retori che affollano l’opinione pubblica del nostro paese. Abbiamo cercato invece di spostare il più possibile lo sguardo e il focus del discorso, attingendo a quella risorsa che ogni "saputellismo" stronca sul nascere, e che è invece fondamentale nella comunicazione: l’ascolto. Siamo consapevoli che quanto segue potrà dare fastidio o suonare persino offensivo, ma del resto ascoltare è un'azione che richiede un impegno attivo.
“Fanculo al westsplaining delle sinistre occidentali”
Rispetto agli interventi prima citati, è di ben altro registo quello di Zosia Brom. Anarchica polacca, Zosia dal 2004 vive nel Regno Unito, dove è caporedattrice di Freedom, la più antica pubblicazione anarchica. Sul sito della rivista, lo scorso aprile ha pubblicato un’invettiva dal titolo inequivocabile: “Westsplaining. Fanculo ai saputelli delle sinistre occidentali” (qui la traduzione italiana):
Sono passati decenni dal crollo del comunismo nella sua versione est-europea, sono decenni che la Russia è diventata un regime turbocapitalista di stampo autoritario, e voi state ancora lì a raccontare che l’uomo forte della situazione sarebbe una specie di eroe «antimperialista», benché stia facendo tutto, ma proprio tutto il possibile per realizzare l’obiettivo che ha enunciato: ricostruire l’impero russo, anzi, allargarlo. Nella vostra testa, invece, sono la NATO e le altre organizzazioni occidentali a stare sempre dalla parte sbagliata. Tutti i mali del mondo sono opera loro. Potreste farvi un giretto su Google, ma no, per l’amor del cielo, perché disturbarsi quando uno può farsi imboccare da intellettuali come Noam Chomsky, con il suo vergognoso relativismo. [...] Antifascismo è proteggere le persone da chi esercita un potere strutturale. E oggi è Putin a esercitarlo. Se appoggiate la sua egemonia su un impero vasto e sempre più vasto, se a forza di benaltrismo scadete nell’inazione, siete anche voi dalla parte dell’aggressore. Quindi imbracciate le armi, raccogliete fondi, ospitate profughi… ma a questo punto la cosa migliore sarebbe chiudere quella cazzo di bocca. Scollegatevi dai social, andate a farvi un giro, lasciate questa guerra alla gente che sa davvero per che cosa combatte. Voi combattete per i like – è una cosa mortificante.
L’articolo di Zosia ha avuto un'eco enorme, unito naturalmente alle fisiologiche polemiche di rito (“identitarista”, “emotivo”, “xenofobo” e così via). “Di base gli anarchici hanno reagito nel solito modo, ossia essere di supporto” spiega a Valigia Blu. “Per quanto riguarda il resto della sinistra, molto è dipeso dalla provenienza. Ho ricevuto infatti molti feedback da persone dell’Europa Orientale, ma anche da militanti da Hong Kong, da Taiwan e dall’America Latina, che mi hanno detto quanto sia ora di risolvere certi problemi, di come questa egemonia occidentale sia stata più volte denunciata all’interno dei movimenti di sinistra”.
Nella sua esperienza in giro per l’Europa, il westsplaining ha assunto due forme principali: l’accusa di “emotività” quando si parla di Russia e, sul piano organizzativo, il fatto che solitamente i lavori “da cervelloni” vengono lasciati ad altri - aspetto quest’ultimo molto marcato nei movimenti del Regno Unito. Un po’ come se i militanti dell’Europa Orientale fossero buoni più che altro come manovalanza. Qualcosa cui, bene o male, ha imparato a fare i conti, facendo di necessità virtù. Ma tuttavia è la situazione in Ucraina ad aver portato in risalto contraddizioni politiche tutt’altro che marginali.
“Penso ci sia un enorme doppio standard” spiega Zosia, “perché l'ultima volta che ho controllato l'approccio della sinistra alle persone oppresse che lottano per l'autodeterminazione era di andare da queste persone e dire: ‘giusto, cosa volete?’ Questo è ciò che accade con la Palestina, con il popolo curdo - giustamente, per la cronaca, non sto dicendo che dovremmo smettere di farlo. Ma all'improvviso c'è una sorta di doppio standard nei confronti degli europei dell'Est. E credo si riduca a questo pregiudizio di stereotiparci come persone incapaci di prendere decisioni da sole”. Lo stesso parlare in termini di “espansione della NATO”, in fondo, implica vedere paesi come la Polonia (o più recentemente Finlandia e Svezia) come delle colonie. “È una questione di autodeterminazione dell'Europa orientale. Quei paesi possono prendere decisioni stupide come gli inglesi con la Brexit o gli americani con Trump, o è necessario che qualcuno decida per loro?”.
Questo doppio standard ha delle ricadute proprio in quegli ambiti che caratterizzano l’attivismo di sinistra, i canali di mobilitazione che si mettono in moto dal basso. Per esempio, un'intervista di Freedom al gruppo antiautoritario Operation Solidarity Ukraine, è stato pubblicato in italiano sul sito anarchico Umanità Nova senza il link per le donazioni presente nell’originale. Inoltre è stato aggiunto un lungo cappello introduttivo dove si spiega come l’articolo tradotto sia stato pubblicato pur nella diversità di vedute, premettendo che “il fatto di non avere la guerra in casa, lungi dal renderci insensibili alle loro sofferenze, ci consente forse di avere un punto di vista politicamente più lucido e oggettivo”. Ecco quindi che tutta una seria di valutazioni (guerra per procura, Russia provocata dalla NATO, presenza di nazisti, ecc.) crea divisioni altrimenti impensabili e inquina un campo dove a sinistra non c’è mai stato troppo da discutere: la solidarietà. Questo perché abbiamo deciso che i "buoni" non devono impugnare armi, e che quella ucraina non è resistenza.
La classica spiegazione da bullo
Su incidenti del genere e su un certo tipo di atteggiamento riservato a chi proviene dall’Europa Orientale è molto pratico nelle valutazioni anche Nestor Makhno (nome di fantasia). Anche lui anarchico polacco, milita nel collettivo Dywizjon 161, composto da immigrati antifascisti, attualmente impegnati anche sul fronte dell’aiuto ai militanti ucraini e dei rifugiati al confine. Attivista fin dall’adolescenza, con i suoi 40 e passa anni Nestor è in un certo senso un veterano.
Quando gli chiediamo della sua esperienza col westsplaining sa subito cosa dire: “è un approccio davvero paternalista, come se fossimo dei bambini che non capiscono le cose”, spiega. “Le persone nell'Europa dell'Est sono questa massa priva di iniziativa, possono solo essere pedine dei grandi imperi - sai, non facciamo davvero le cose da soli, ma solo quando la CIA ci dice di farle. O in alternativa, se incontri una persona di sinistra che crede anche nell'imperialismo russo - perché molti di loro non credono in una cosa del genere, ma se li trovi che credono nella Russia e nell'imperialismo - allora dicono: ‘Oh, è solo un gioco tra Russia e Stati Uniti e tu sei nel mezzo e non hai potere’ capisci? Gli ucraini ovviamente non potevano incazzarsi da soli con i governi sbagliati, ma avevano bisogno che la CIA dicesse loro quando potevano agire”.
C’è poi un tratto molto diffuso nei militanti di sinistra occidentali, ossia la difficoltà a concepire il totalitarismo sovietico come esperienza vissuta, e quindi fuori da ogni meccanismo di proiezione simbolica, dai bignami di Guerra fredda. Il che diventa irritante per persone come Nestor, che hanno ricordi diretti legati alle truppe sovietiche in casa propria. “Ci sono persone provenienti dai paesi occidentali che non hanno mai vissuto in quelle zone, che non sono mai state vive in quel periodo, che ti dicono quanto sia stato bello, e tu pensi: ‘Certo, certo, come no’. A volte ti imbatti in gente del genere nelle discussioni online, ma ti fai quattro risate senza nemmeno farti coinvolgere, perché è assolutamente inutile dare corda a queste persone. È come parlare coi terrapiattisti” spiega. Se c’è una cosa che manca a noi occidentali, è l’esperienza diretta o la memoria storica di chi ha dovuto sopravvivere tra due totalitarismi - quello nazista e quello stalinista.
Ben più seria, tornando al presente, è la situazione quando il westplaining offusca la lettura delle cause dell’invasione, proprio perché la simbolizzazione della Russia come polo antagonista della Nato ne nasconde la storia particolare, i tratti salienti, o gli aspetti più materiali. “Tutti ricordano che l'Iraq è stato invaso per il petrolio, o altre risorse. Perché pensate che l'Ucraina sia stata invasa? Hanno tonnellate di risorse e le terre più fertili del mondo”. Invece di pensare all’invasione come a una partita a scacchi, la metafora più utile per Nestor è un’altra: “Tutti gli imperi che fanno la guerra hanno sempre detto che qualcuno li ha provocati” spiega. “È la classica spiegazione da bullo. ‘Non volevo farlo, ma sono stato costretto’. Come il tizio che picchia la moglie, che dice sempre la stessa cosa, ‘mi ha provocato. Non volevo picchiarla, ma lei mi ha provocato’”.
Propaganda ripetuta a pappagallo
Jaroslava Barbieri è una ricercatrice italo-ucraina. Studia il coinvolgimento di attori statali (e non) della Russia nelle autoproclamate repubbliche dell’Ucraina orientale e nella Transnistria, in Moldavia. Si tratta dei cavalli di Troia con cui la Russia ha cercato e cerca di minare dall’interno l’ordine costituzionale dei due paesi. “Con l’invasione, in un certo senso la Russia ha mostrato che questa strategia ha fallito e non è più percorribile”, spiega a Valigia Blu.
Per formazione e background, Jaroslava ha la possibilità di confrontare come viene coperta e affrontata l’invasione dell’Ucraina dalla prospettiva del Regno Unito, dove vive e porta avanti un PhD presso l’Università di Birmingham, e dall’Italia. La politica è per lei un’area di studio, non di militanza. “Essendo in parte occidentale non ho mai dovuto affrontare atteggiamenti paternalisti, ma più che altro fortissimi bias e fraintendimenti circa il contesto ucraino, in particolare dal mondo dei media e della politica”, spiega. ll westsplaining, nell’esperienza di Jaroslava, è più un atteggiamento cognitivo che qualcosa subito personalmente. “Il Regno Unito in questo è molto diverso dall’Italia, dove specialmente da ambienti di sinistra è ripetuta a pappagallo la propaganda del Cremlino, perciò senti dire che l'Ucraina è uno Stato autoritario che punisce le forze di opposizione. E queste persone non comprendono la natura dell'opposizione in Ucraina: si tratta essenzialmente di persone finanziate dal Cremlino e che promuovono messaggi, programmi politici e agende che mirano a minare la statualità e l'ordine costituzionale dell'Ucraina dall'interno. Magari parlano dell’invasione americana di Russia e Iraq, ma non senti mai parlare dell’invasione russa dell’Afghanistan, o della Cecenia, non menzionano mai il coinvolgimento della Russia in Siria, e su bombardamenti e armi chimiche chiudono un occhio”.
Questo tipo di differenze tra Regno Unito e Italia si vede naturalmente nei media, in particolare nelle voci che vengono chiamate a parlare della guerra. Jaroslava fa l’esempio della British Academy, che ha pubblicato a beneficio dei media una lista di esperti consultabili su Russia e Ucraina (provenienti da ogni paese), grazie anche al fatto che il Regno Unito ha una validissima comunità di studiosi di quell’area. Lei stessa è intervenuta come esperta per diversi podcast o testate d’informazione. “In Italia vedo sempre più queste figure che di colpo sono diventate punti di riferimenti nel commentare l’Ucraina, e non hanno mai studiato nulla della regione, non hanno competenze al riguardo. Ed è degradante come a volte invitino questi cosiddetti ‘giornalisti’ russi, che di base sono rappresentanti della macchina di propaganda del Cremlino, e venga offerta loro una piattaforma per dare l’impressione di un giornalismo obiettivo. E non c’è mai un giornalista ucraino, oppure viene invitato ma si trova in questa farsa dove da una parte si chiede l’interpretazione ucraina dei fatti e poi quella razionale, come se la verità fosse da qualche parte a metà strada”. Sempre in tema di mancata solidarietà, Jaroslava fa notare inoltre come non venga mai diffuso nessun rimando utile a donazioni, come per esempio la pagina ufficiale creata dal governo ucraino per la comunità internazionale, United 24, dove è possibile scegliere l'area verso cui destinare le donazioni.
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In un simile panorama non c’è spazio per un fattore fondamentale nelle analisi geopolitiche, o degli scenari bellici: gli errori. La Russia è qualcosa che può far paura, qualcosa che non va provocato onde evitare escalation (ma da cui non ci preoccupa di dipendere energeticamente). Se è vista come impero, lo è in contrapposizione con quello che si considera il vero nemico - gli Stati Uniti, la NATO, l’Ucraina nazista, l’Ucraina pedina dell’Occidente. Non è un paese che può conoscere la stanchezza da guerra, le cui élite, per quanto corrotte o colluse, possono defezionare o decidere di collaborare col nemico. Eppure non concepire la fallibilità di un leader significa essere nella scia del suo culto.
“Puoi già vedere un cambiamento nella retorica interna Russa, perché inizialmente avevano previsto che l’invasione sarebbe stata una guerra-lampo. Così tutto sarebbe passato come ‘denazificazione’ dell’Ucraina” spiega Jaroslava. “Ma ora hanno iniziato a parlare di una guerra in atto tra la Russia e il resto del mondo, perché hanno bisogno di fornire il senso di un nemico massiccio e giustificare così le perdite che la Russia ha subito, e che diventeranno sempre più difficili da nascondere al pubblico interno”. Questo riguarda anche il rischio di escalation nucleare, i simulacri di causa-effetto in cui il discorso pubblico nasconde le insidie interne di una decisione senza precedenti. "Non è come nei film, dove si preme il pulsante rosso e questo accade. È un processo molto complicato con una catena di comando. Quindi è possibile che qualcuno all'interno della catena di comando si rifiuti di eseguire l'ordine".
C’è poi l’incapacità di leggere l’imperialismo russo nelle relazioni degli ex paesi del blocco sovietico, tirando una linea di continuità che vada dall’invasione della Cecenia a quella dell’Ucraina, o che inquadri questi rapporti su un arco di tempo più ampio. Gli imperi occidentali come Francia e Regno Unito hanno dovuto gestire relazioni tra lo stato nazionale e le colonie oltremare - poi ex colonie. La Russia, invece, come impero si è sempre espansa in una situazione di contiguità territoriale. “Una volta crollato l’impero sovietico”, spiega Jaroslava, “i rapporti tra ex colonizzatore ed ex colonie sono rimasti sfocati. C’è sempre stata da parte russa una continua manipolazione della storia per nascondere i danni provocati dal suo passato coloniale, ed è importante capirlo per capire cosa sta avvenendo oggi”.
“Certo che voi ucraini siete testardi”
Anche Taras Fedirko vive nel Regno Unito, dove è ricercatore presso l’Università di St. Andrews e si occupa di antropologia politica ed economica - in particolare del rapporto tra oligarchie e media nell’Ucraina, suo paese d’origine. Classe ‘90, appartiene a una generazione che nello studiare le dinamiche di potere nel proprio paese ha maturato una coscienza politica. Ha svolto il PhD nel Regno Unito proprio quando è scoppiata la rivoluzione del 2014, che l’ha costretto quindi a seguire gli eventi a distanza per via della coscrizione. Da immigrato, inoltre, ha subito tutta quella retorica xenofoba che ha caratterizzato il Regno Unito negli anni culminati con la Brexit. Perciò, benché sia cresciuto in una famiglia fortemente di destra (“mio padre ha fatto parte di un gruppo di militanti anti-Perestroika”, spiega), politicamente si riconosce nella sinistra.
“C’è questa presunzione secondo cui le lotte politiche che sono importanti per la sinistra occidentale sono necessariamente importanti per la gente in Ucraina” spiega Taras. “I nemici politici della sinistra in Occidente devono essere i nemici della gente in Ucraina o altrove nel mondo. Con questo voglio dire che, negli ultimi 20, forse 30 anni, la sinistra occidentale ha fatto della NATO e dell'imperialismo statunitense il nemico principale a causa della sua espansione, e non per quello che ha fatto al resto del mondo”.
Molti aspetti lo hanno colpito o persino fatto arrabbiare negli ultimi mesi, circa il dibattito sull’invasione dell’Ucraina. Da abbonato dell’edizione americana di Jacobin, si è ritrovato deluso dalla prospettiva adottata, “dal modo in cui parlano della fornitura di armi dei pericoli che ne derivano, il modo in cui parlano della destra ucraina senza esaminare effettivamente l’estrema destra russa, o come usano l’imperialismo russo contro l’Ucraina”.
Il senso di invalidazione non è soltanto ideologico per Taras. Attraverso i media, le narrazioni che vengono imposte, arriva anche al personale, nel quotidiano. La madre di Taras, infatti, vive da tempo in Italia, dove ha ottenuto la cittadinanza, e come secondo lavoro fa la massaggiatrice. “I clienti ora le dicono: ‘Oh, sei ucraina? Come mai siete così testardi?’ come a chiederle ‘Come mai non vi arrendete?' Sono le stesse persone che 10 anni fa le dicevano quanto la vita in Unione Sovietica fosse meravigliosa, anche se lei faceva notare che, se fosse stato così, non sarebbe venuta in Italia”.
Dato il suo ambito di ricerca, Taras ha studiato l’evoluzione delle oligarchie nel paese, che ben prima della rivoluzione del 2014 hanno usato i media come pedina di scambio con la politica, usando il potere di agenda setting per favorire gli altri ambiti di affari in cui sono coinvolti (energia, acciaio e grande industria in generale). Dopo la rivoluzione di Euromaidan questo tipo di gioco di influenze è diventato in un certo senso più aperto e trasparente, e quindi più cinico. In questo panorama si situano poi con difficoltà i media indipendenti, che sono più aperti e ricalcano il modello occidentale di libera informazione. Naturalmente tra gli effetti della guerra c’è quello di aver sconvolto questo scenario: “Zelenskyy è passato dall’essere un presidente debole a uno molto forte, essendo il presidente di un paese in guerra”, spiega Taras. “È discutibile fino a che punto il governo stia cercando di volgere a proprio favore questa situazione, o se non si tratti invece di una naturale conseguenza della guerra”.
Il quadro è estremamente complesso, e se pensiamo per un attimo a come l’Ucraina è discussa e rappresentata ci si rende conto che alla fine molto si riduce al ruotare attorno alla “denazificazione” della propaganda russa, fino ai casi estremi in cui il governo attuale viene descritto come illegittimo. Non abbiamo una visione chiara delle contraddizioni che può avere un paese che dal 2014 si trova ad avere un esercito nemico in casa propria. “Questo è uno dei mie problemi con il westsplaining. Manca di empatia. Chi non lo capisce dovrebbe provare sulla propria pelle cosa significa vivere in un paese in guerra ed essere attaccato da missili, perché, sai, non è essere politicizzati da ciò è semplicemente inimmaginabile”.
Quanto all’estrema destra, e alla sovraesposizione data al battaglione Azov, Taras fa alcuni conti. “Il battaglione Azov conta circa 2000 unità. I partiti di estrema destra alle ultime elezioni si sono uniti in un blocco solo, sai quanto hanno preso? Circa il 2%. Mettilo a confronto con la situazione politica in Francia, o in Polonia, o in Germania, con le infiltrazioni in questi paesi dell’estrema destra nelle forze militari”. Il problema, insomma, non è tanto politico quanto retorico, perché il “nazista” è un tipo di nemico che funziona, incarna il male assoluto. Mentre per una parte della sinistra occidentale vedere un soldato russo con falce e martello, così come l’iconografia alla Babushka, assume un valore eroico con cui identificarsi emotivamente, prescindendo dagli elementi storici più problematici.
Conclusione: Il silenzio dei saputelli
Sul Foglio, a metà giugno la corrispondente di guerra Cecilia Sala faceva notare come sul Donbas sia iniziata a calare la “nebbia di guerra”, quella vaghezza di informazioni che prima o poi avvolge le zone di conflitto. Questo cambiamento, secondo Sala, è dovuto a due ragioni:
La prima è che a Severodonetsk si combatte strada per strada ed è in corso una carneficina di soldati da entrambe le parti (Zelensky ha detto che sarà ricordata come una delle battaglie più brutali nelle storia militare recente): i soldati sul campo non hanno tempo di raccontare online cosa succede e non hanno più il morale adatto per farlo. Per i giornalisti entrare in città è troppo pericoloso, e non ci sono le foto scattate con lo smartphone dai civili (a Mariupol ce n’erano ancora almeno centomila, a Severodonetsk poche migliaia, forse alcune centinaia).
La seconda ragione è che la guerra è cambiata e gli ucraini non hanno motivo di condividere con il resto del mondo tutte le informazioni dal campo. Non è strano: la fog of war sarebbe la prassi in ogni guerra, ma questa volta l’abitudine a conoscere gli eventi minuto per minuto aveva creato un’illusione e un’aspettativa. La curva dell’attenzione dell’opinione pubblica internazionale si è abbassata per stanchezza, ma incide anche che le notizie e le immagini che ci arrivano siano meno: il flusso si è interrotto e la situazione sul campo è meno chiara.
Alla difficoltà di documentare, si somma dunque il fatto che, lontano dai massacri, non abbiamo poi tutta questa voglia di assistere da spettatori all’orrore. C’è una curva di interesse e senso di responsabilità oltre la quale molti iniziano a sentire la guerra come una tortura cognitiva. Smettere di informarsi, distrarsi, diventa un meccanismo difensivo. Ovviamente chi vive in quelle zone, chi ne è fuggito o chi ha legami diretti non può concedersi quello che, a tutti gli effetti, è un privilegio. Non può permettersi l’oblio, e anzi deve fare i conti con l’essere un superstite, la consapevolezza che non c’è davvero nessun merito nel sopravvivere, nessuna virtù morale, solo l’assoluta tirannia del caos.
Se comprendiamo ciò, comprendiamo anche perché la prospettiva Occidentale, il “saputellismo”, è un meccanismo di potere e controllo sociale. Quando si vorrà smettere di prestare attenzione a conflitti di cui siamo stati in parte responsabili (chi parla oggi contro l’invio di armi dimentica di solito quante ne abbiamo vendute ai russi, in barba agli embarghi europei), le stesse voci che ora affollano talk-show, radio, colonne dei quotidiani di carta o digitali, profili social, teatri e così via, faranno qualcosa di molto semplice. Parleranno d'altro, e non certo per censura calata dall'alto. Questo è avvenuto ad avviene verso paesi come Siria, Afghanistan e Yemen. Se c’è un limite che possiamo concedere al realismo, a ogni realismo, è proprio questo: di avvalorare un campo di osservazione funzionale alle forze egemoni.
Qualche giorno fa, Alessandro Gilioli, direttore di Radio Popolare, in un post su Facebook analizzava le ragioni di chi vorrebbe cessasse l’invio di armi all’Ucraina. Tra queste, la convinzione che si arriverà il prima possibile a un tavolo di trattativa. Secondo Gilioli, in Ucraina si potrebbe arrivare a una “semi-dittatura” scegliendo pragmaticamente quello che ritiene essere il “male minore”:
La posizione di quanti sono contrari a dare altre armi all'Ucraina viene spesso rifiutata come ideologica: uno schema mentale rigido dovuto a preconcetto antiamericanismo o, al meglio, a un pacifismo "a qualsiasi costo", indifferente alle conseguenze dei propri atti.
È possibile, anzi altamente probabile, che molti tra i contrari alla spedizione di armi siano effettivamente prigionieri di una delle due ideologie: quella del pacifismo "qualsiasi cosa comporti" e quella della contrapposizione per partito preso alla Nato e agli Stati Uniti (poi ci sono pure quelli a cui piace Putin, certo, ma non li prendo nemmeno in considerazione).
In Occidente, Stati Uniti compresi, sta però emergendo sempre di più un'altra forma e un'altra argomentazione, per lo stop alle armi. Con zero ideologia e, al contrario, fatta di un pragmatismo estremo (financo cinico, probabilmente).
È l'argomentazione "scacchistica" del What If, del "Cosa succede se".
Se c’è un altro limite che possiamo imputare ai realisti, ai fan della realpolitik, è quello di non capire come funziona la mente di un bravo scacchista. Un campione di scacchi non calcola le varianti come farebbe un computer, non ragiona in base a: “se muovo questo pezzo, il mio avversario può far così, oppure così, oppure può muovere quest'altro pezzo”. Questo perché già dopo poche risposte possibili l’albero delle varianti diventa estremamente complicato, e c’è davvero da perdersi.
Magnus Carlsen, attuale campione del mondo di scacchi e considerato forse il giocatore più forte di tutti i tempi, spiega in questo video come funziona la sua memoria, una sorta di laboratorio permanente di immagini di partite in cui analizza posizioni, e come un'intuizione scorge ordine dove altri vedono il caos.
Il bravo scacchista sa riconoscere i temi tattici in una data posizione, pensa "posso sacrificare questo alfiere su quel pedone perché al centro c'è una data configurazione pedonale" e ragiona spesso in termini speculativi - magari accetta una posizione sulla carta inferiore perché psicologicamente più affine al suo stile di gioco. Quel tipo di calcolo su varianti possibili può arrivare in determinate fasi, estremamente tattiche. Ma chi pensa che gli scacchi siano soltanto calcolo e previsione non ha mai studiato partite di giocatori come Mikhail Tal o David Bronstein, né ha mai giocato partite lampo. La fiducia nel calcolo razionale che passa per il considerare la geopolitica una partita, esprime un feticismo verso il potere della razionalità, e nient'altro; una sottesa fascinazione per la potenza in atto, nella verità terribile che manifesta, come ordine del mondo ineluttabile. In ogni caso, negli scacchi si gioca ad armi pari. E un ex campione della disciplina come Garry Kasparov, che ben conosce Putin e ha dedicato anni a contrastarlo, ad avvertire del "gioco" che stava conducendo, sulla variante della "semi dittatura" russa ipotizzata da Gilioli avrebbe probabilmente molto da ridire. Analizzando le grandi partite del passato, gli scacchisti della realpolitik dovrebbero andare fino in fondo, e dirci "be' il Bianco ha fatto bene ad arrendersi, in Petain vs Hitler!", o spiegarci come è stato possibile che superpotenze come Stati Uniti e Russia perdessero in Vietnam e Afghanistan.
Gli scacchi, comunque, ci tornano utili per un altro discorso allegorico. Quando si tratta di Russia, gli ucraini sono infatti come campioni di scacchi: hanno un’ottima memoria, lavorano su quella e sugli errori commessi cercando di raggiungere una posizione migliore. Ma, a differenza dei bravi scacchisti, sono stati costretti ad averla, così come a imparare dagli errori, perché tra il vincere e il perdere la differenza non è mai stata una questione di orgoglio per loro, ma di sopravvivenza.
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Per tutti questi motivi, amplificare e moltiplicare le voci dell’Ucraina dovrebbe essere prioritario, in particolare per qualunque formazione o associazione di sinistra - intesa qui nel suo più ampio spettro possibile. Anche solo come esercizio di autoformazione. Così come occorre una effettiva solidarietà, la quale non può realizzarsi se è il solo soccorritore a decidere di cosa abbia bisogno il soccorso, quali siano le sue esigenze. Sul lungo periodo, considerando dimensioni e popolazione dell’Ucraina, se dovessero prevalere il calcolo e il silenzio, milioni e milioni di sopravvissuti diventeranno una testimonianza vivente in tutto il mondo dell’arrogante cecità dell’Occidente. A quel punto, potete starne certi, la loro voce ci diventerà insopportabile. E se i saputelli decideranno di parlarne ancora, probabilmente sarà per dire "insomma, se questi ucraini si fossero arresi subito, invece di ostinarsi a combattere..."
Immagine di anteprima via Wikimedia Commons