Vagoni rosa contro la violenza sessuale sui treni? Meglio una città femminista
11 min letturaIl 3 dicembre due studentesse di 22 anni sopravvivono a un’aggressione. Quella sera, infatti, due uomini violentano una ragazza su un treno della linea Milano-Varese. Dopo poco, all’interno di una stazione della stessa linea, i due aggrediscono una seconda ragazza, che però riesce a divincolarsi e a mettersi in salvo. La squadra mobile di Varese ha poi identificato e fermato due uomini di 21 e 27 anni.
Nei giorni successivi, viene lanciata sul sito Change.org la petizione Vogliamo viaggiare sicure per richiedere vagoni rosa nelle ferrovie Trenord (al momento ha raggiunto più di 35.000 firme). Quello che genera la petizione è un’arena mediatica tra pro e contro, tra chi pretende la misura e chi la condanna, considerandola ora liberatoria, ora un male necessario, oppure restrittiva e ghettizzante.
Le polarizzazioni su temi sentiti hanno il difetto di allontanarci dalle esperienze reali, catapultandoci in una dimensione in cui esiste un’idea astratta, spoglia di tutte le sue implicazioni, da supportare o da affossare. Si consuma una enorme quantità di energia in un lasso di tempo molto limitato; poi, calati i riflettori, la questione viene abbandonata, lasciando dietro terra bruciata e una grande dose di frustrazione, soprattutto davanti a risultati minimi e a volte controproducenti.
Il dibattito sulla petizione sembra andare avanti con le stesse dinamiche. In questo caso mi sembra che perdano di importanza due questioni in particolare: certi dettagli sull’accaduto e il contesto in cui si è consumato questo orrore.
I dettagli: vulnerabilità, pericolo, indifferenza
La ricostruzione della Procura di Varese ha finora rivelato dettagli che rendono benissimo la situazione di vulnerabilità ed estremo pericolo che le due ragazze hanno vissuto. La seconda ragazza era in una stazione deserta, mentre la prima è stata trascinata in un vagone vuoto, ma contiguo a un altro in cui di gente ce n’era eccome. Le urla non hanno provocato nessuna risposta nelle carrozze vicine, che è proseguita fino al sopraggiungere del capotreno. La prima ragazza ha riportato lividi e ferite, non ha mai smesso di urlare e battersi per divincolarsi mentre veniva stuprata tra calci e pugni. La seconda ragazza, che per fortuna è riuscita a sfuggire agli aggressori, si è ritrovata in una condizione di isolamento estremo, senza avere nessuno intorno a cui chiedere aiuto. I due accusati sono stati poi identificati la sera stessa, mentre partecipavano a una festa nel varesotto. L’identificazione è avvenuta in seguito a una chiamata per schiamazzi da parte di un vicino.
I dettagli della prima aggressione raccontano una realtà difficile da digerire: l’indifferenza degli altri viaggiatori. Mentre gli uomini violentavano la ragazza e le grida si diffondevano per il convoglio, nessuno ha sentito la necessità di intervenire. Chi c’era tra quelle persone silenziose? Che percorso fisico hanno fatto quegli uomini per arrivare ad aggredire? Quante altre donne hanno rischiato quel giorno, nei giorni precedenti, ovunque questi e tanti altri uomini si sono aggirati, di essere aggredite? Quante l’hanno scampata e quante altre non ce l’hanno fatta?
Potremmo tornare indietro fino alla radice del problema: perché gli aggressori hanno avuto la libertà di portare avanti senza nessun ostacolo quel disegno di dominazione? Un piano così non si esprime in un atto unico, ma richiede tempo, in un’attitudine e in un modo di muoversi nello spazio condivisi e conniventi con molti altri soggetti. In Transforming a rape culture, bell hooks definisce «cultura dello stupro quella cultura che condona il terrorismo fisico ed emozionale contro le donne e lo presenta come la norma». Che cosa è emerso, se non l’indifferenza delle persone che non commettono materialmente la violenza, ma che ne giustificano le espressioni, quelle anche minime, quotidiane, facendo il lavoro del patriarcato (anche quando donne), giustificandolo continuamente, lasciando che continui a sedimentare e, all’estremo, non intervenendo nemmeno quando si manifesta nelle sue forme più violente? Non è colpevolizzando gli altri passeggeri che risolviamo il problema, è chiaro, tuttavia dobbiamo disegnare il panorama che lo produce.
Il panorama in cui si è consumata la seconda aggressione ci avvicina allora ai temi dell’urbanistica femminista e alle sue elaborazioni. Per quali soggetti sono pensate le città? Se lo stupro è, come sappiamo, strumento di controllo e dominio più che questione di appetiti sessuali, possiamo più facilmente avvicinarci alle elaborazioni di chi riconosce e studia quanto lo spazio urbano, in maniere differenti da quello domestico, sia da sempre un problema per le donne. Questa non è soltanto responsabilità degli aggressori, di singole persone che incarnano il male e la mostruosità, ma è una concezione che pervade tutto l’ambiente urbano. Non era previsto che le donne uscissero dallo spazio domestico, dove da sempre sono state relegate per essere controllate facilmente, e quando lo fanno, tutto deve comunicare loro che non devono sentirsi al sicuro. È per questo che chi sfugge a questa norma può essere ovunque sottoposta a molestie o violenza, e quando lo denuncia, a un giudizio che diventa sempre più duro quanto più si discosta dall’idea della vittima pura, l’unica valevole della protezione incondizionata della giustizia penale e dello Stato.
Il contesto: una denuncia ogni 131 minuti
La media delle aggressioni sessuali in Italia si attesta su numeri allarmanti. Stando alle sole denunce presentate alle forze dell’ordine, in Italia abbiamo avuto una media quotidiana di 11 stupri e abusi al giorno, dal gennaio all’aprile del 2021. Una denuncia ogni 131 minuti, più di 300 fascicoli al mese.
Sono numeri che dovrebbero portare alla luce l’invivibilità delle città per le donne anche agli occhi di un’opinione pubblica da troppo tempo desensibilizzata. Ma non è così, perché facendo due conti, come afferma anche l’Osservatorio Diritti, il numero dei casi che poi finiscono in tv e sui giornali è bassissimo; questo onore in genere ce l’hanno i casi in cui gli uomini coinvolti non sono italiani e che si concludono con un fermo o un arresto, ovvero con il successo da parte delle forze dell’ordine.
Il contesto sottolinea il marcio sotto la logica emergenziale e sensazionalista, che non può più valere per giustificare un problema strutturale. La violenza non è un’emergenza, ma un’esperienza delle relazioni di genere basate sulla sopraffazione delle donne che si riproduce in ogni ambiente, in varie specifiche forme e intersezioni da tenere ben presenti, ma che è comunque molto persistente. È il momento di costruire una consapevolezza ampia sul tema, è il caso di estendere la sacrosanta rabbia a ognuno di questi casi e anche alle minime avvisaglie di violenza in ogni luogo dello spazio pubblico e domestico, e pensare anche a soluzioni e azioni, immediate e a lungo termine.
I trasporti pubblici sono un campo di battaglia
Nonostante queste considerazioni generali, noi donne e tutti i corpi che esprimono una dissidenza sappiamo benissimo che i trasporti pubblici sono un particolare campo di battaglia, non più problematico di altri, ma che ha di certo delle caratteristiche più insidiose. Lo abbiamo sperimentato tutte come possa diventare uno spazio di estrema vulnerabilità e conosciamo anche la sua normalizzazione, che diventa materiale nelle tiepide risposte davanti ai racconti delle molestie ad amici e parenti, nell’invito a minimizzare, a non pensarci, ad andare avanti perché in fondo capita un po’ a tutte; come se fosse un elemento quasi formativo delle nostre vite. Ed è per questo che ci siamo abituate a normalizzarlo, perché forse ci siamo anche stancate di raccontarlo.
Nominare un vagone rosa di sicuro incarna un’ottica di riduzione del danno; la petizione sembra dire "possiamo sentirci al sicuro almeno in una carrozza, meritiamo almeno un momento di pace?". Ma questa astrazione ci parla molto di più della condizione a cui la cultura dello stupro ci ha ridotte; di un desiderio esasperato di libertà più che di una opzione percorribile per un numero significativo di donne. Chi si sente al sicuro e chi rimane fuori dalla percezione di questa sicurezza, in una carrozza di una linea ferroviaria limitata geograficamente e divisa secondo un binarismo che può essere impugnato come arma? Chi si sente al sicuro da questa limitatissima misura se le molestie e le violenze sulle donne si consumano anche e persino in diretta tv? La geografa femminista Gill Valentine ci spiega il meccanismo che attiviamo per tollerare questo costante stato di paura: «Le donne non riescono a essere spaventate da tutti gli uomini tutto il tempo; dunque, per mantenere un’illusione di controllo sulla propria sicurezza, hanno bisogno di sapere dove e quando incontreranno “gli uomini pericolosi” per poterli evitare.
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Più controllo non significa più sicurezza
Puntare l’obiettivo sul contesto ampio e sulle responsabilità collettive proviene chiaramente da un punto di vista antipunitivo e trasformativo. E questo significa prima di tutto credere che la responsabilità della violenza non è solo degli attori coinvolti, ma collettiva. Comprende poi problematizzare l’intervento dello Stato e delle forze dell’ordine per risolvere i conflitti sociali e, infine, il tenere conto delle implicazioni e delle conseguenze di quando le donne bianche e generalmente di classe media invocano più controllo per reclamare la propria sicurezza. In molte questa storia la conoscono già e non sempre è a lieto fine.
Non è difficile immaginare che l'aumento di controlli sarà la risposta più verosimile alla proposta dei vagoni rosa. Da Varese, incurante di tutte le istanze messe in campo in questi giorni, l’assessore regionale alla Sicurezza, immigrazione e polizia locale Riccardo De Corato è già molto chiaro: quali vagoni rosa, l’unico modello possibile da riprodurre è aumentare gli stipendi alle forze dell’ordine e fargli fare straordinari. Le uniche misure che il potere è in grado di concepire, quando invocato, anche e soprattutto da donne, sono le stesse di sempre: più polizia, più sorveglianza, più carcere, pene più severe. E questo significa, nell’immediato, condizioni sempre più invivibili per le fasce più marginali delle città.
Lo abbiamo pagato sulla nostra pelle e sappiamo benissimo che istituzioni che applaudono l’omolesbobitransfobia e la misoginia come se fosse una festa, che condannano le donne a situazioni di perenne subalternità, che investono capitali e inventano maniere sempre più articolate per soffiare sul fuoco dei fascismi e saccheggiare diritti, che sono espressioni di partiti razzisti, basati sul mito di una mascolinità dominante, non saranno mai interlocutori possibili, né alleati affidabili. Faranno concessioni solo se queste si prestano a essere espressione della stessa cultura che li mantiene ai posti di comando, eseguite da organi coercitivi che esercitano e alimentano la stessa violenza da cui vogliamo difenderci.
L'esempio di Barcellona e dei "Punt Lila"
I vagoni rosa, volendo, potremmo attivarli anche domani. In molte lo facciamo già, lo abbiamo sempre fatto, fa parte di quegli automatismi che abbiamo inserito nel nostro panorama mentale. Ma certo, possiamo insistere e renderlo palese per visibilizzare la gravità del problema, riempiendo i treni delle nostre istanze, tutti i vagoni, mentre proviamo a salvarci la pelle. Poiché in fondo la domanda è: a chi dobbiamo chiedere il permesso di uno spazio dedicato quando già conosciamo l’unico principio che ci tiene al sicuro ovunque? Dopotutto, riducendola ai minimi termini e senza tutte le sue sovrastrutture, la richiesta dei vagoni rosa non è altro che un desiderio di sorellanza, quella che probabilmente le donne che hanno firmato non hanno mai trovato nei loro percorsi verso casa, perché troppo lontane da gruppi politici organizzati, perché isolate dalle altre donne che vivono altre situazioni di pericolo, perché la violenza nelle loro cerchie è probabilmente sempre giustificata e normalizzata, e magari anche perché è la prima volta che si ritrovano ad agire e finalmente prendere consapevolezza del problema. La richiesta delle donne firmatarie forse esprime più che una soluzione verosimile, l’assenza di supporto, la desertificazione di spazi di condivisione nella vita quotidiana, così simili a quella stazione vuota e a quei vagoni di gente che non è intervenuta.
Reclamare trasporti sicuri dovrebbe significare renderli femministi, rompere l’omertà negli spazi domestici e pubblici e riempirli delle pratiche che ci portiamo dietro tutti i giorni. Occorre nominarle e renderle palesi, condividere le reti e le soluzioni immediate che abbiamo costruito e imparato, tra cui attraversare gli spazi sentendo la responsabilità condivisa della violenza e della cura da opporre a quella violenza.
Invece che invocare una generica divisione in maschi e femmine, potremmo dividerci in base a chi assume questo impegno e chi invece sceglie di stare dalla parte del problema, perché ostile al cambiamento, o soltanto perché indifferente all’angoscia esistenziale che dobbiamo provare in una cultura che non tollera la nostra libertà di movimento. Abbiamo bisogno di intervenire e attivare quel meccanismo che viene da un gradino ancora più in basso, viscerale e profondo anche in una petizione online, e da femministe abbiamo il dovere di intersecarlo anche con la coscienza dei nostri privilegi.
Degli altri luoghi in cui la divisione dei vagoni è attiva si è parlato ovunque, qui vorrei portare invece un’altra esperienza. Quella dei Punt Lila (“Punti viola”), che esistono a Barcellona e in molti comuni catalani e sono organizzati in una rete territoriale. I Punti viola sono dei punti informativi fisicamente riconoscibili nello spazio urbano e presidiati sia da personale già operativo in altri ambiti della lotta alla violenza, sia personale volontario, e presenti principalmente nelle situazioni di svago, come feste e concerti. La sperimentazione sta dando buoni risultati ed è stata estesa negli anni anche ad altri contesti (educativi, sportivi, commerciali e sanitari, tra gli altri). Nei Punt Lila sono presenti persone capaci sia di intervenire nell’immediato in casi di molestie, sia di promuovere una formazione continua nello spazio pubblico sul tema della violenza sulle donne e di genere. Di sicuro la scelta di finanziare una iniziativa del genere deriva da una sensibilità già molto alta sul tema della violenza; in questo caso un’amministrazione dichiaratamente femminista, come quella di Barcellona. Immaginiamo quale gioco al ribasso sarebbe invece un vagone rosa? Dobbiamo e possiamo pretendere di più, in virtù delle incredibili competenze che sviluppiamo dal basso per combattere la violenza. A partire dal formare figure comunitarie sul tema della violenza di genere, sui problemi della mascolinità egemonica, sui modi in cui le città sono pericolose per noi. Presidiare lo spazio pubblico con queste risorse e queste competenze lascerebbe passare un messaggio un po’ più articolato: ovvero, non esiste spazio in cui la violenza non esiste e non esiste spazio in cui è ammissibile e saremo dappertutto a ricordarlo. Insomma, la percezione di immediatezza di una soluzione come il vagone rosa potrebbe essere solo illusoria. E se fosse davvero l’unica soluzione, non ce la renderebbero così facile.
Di chi sono le città
Leslie Kern è una delle studiose che negli ultimi anni ha portato alla luce le fondamenta su cui sono edificate le città. Parliamo di urbanistica femminista quando consideriamo che poco o nulla dello spazio che attraversiamo è organizzato per tenere conto delle nostre esigenze, di sicurezza, di organizzazione, di vita affettiva. Le città sono perlopiù spazi pensati per l’uomo medio, che si muove con un mezzo privato da casa a lavoro, attraversando spazi morti, occupandosi di una sola cosa al giorno. Le città delle donne sarebbero città in cui tutto è raggiungibile a piedi o che consideri le traiettorie di cura con cui si muovono per occuparsi dei numerosi compiti di riproduzione della vita, ma anche di mantenere relazioni sostenibili per non ritrovarci isolate quando dobbiamo occuparci di bambin3, delle persone anziane, delle amicizie in difficoltà e anche di noi stesse, quando dobbiamo tornare a casa dal lavoro, dallo studio e dai momenti di ozio. Nella maggior parte dei casi, tutto, dall’ideazione delle linee di trasporto, delle connessioni tra i vari elementi urbani, della vivibilità e salubrità degli spazi, è costruito senza tener conto di queste esigenze e non a caso questo produce degrado e violenza su di noi.
Quando invochiamo sicurezza, è importante figurarsi la mappa mentale di tutto quello che manca e soprattutto delle sacche di marginalità che non arriviamo a constatare di persona. Come espone Kern ne La città femminista, dobbiamo porci domande cruciali che oggi servono a portare qualche elemento in più anche nelle nostre considerazioni. Parlando di sicurezza, Kern scrive:
Devo chiedermi come il mio desiderio di sicurezza possa condurre a un incremento della sorveglianza sulle comunità razzializzate. Devo chiedermi come il mio desiderio di ‘rivendicare’ lo spazio urbano possa perpetuare pratiche e discorsi coloniali, che danneggino gli sforzi di altre comunità (…). Farsi questo tipo di domande richiede un approccio intersezionale e un certo livello di autoriflessione sulla mia posizione.
La solidarietà generata dal femminismo intersezionale e, allo stesso tempo, la fiducia che qualcosa insieme possiamo trasformarla, sono pensieri e pratiche che attiviamo non solo quando la nostra sopravvivenza è minacciata, cosa che accade tutti i giorni parlando di sopravvivenza fisica, ma anche materiale e culturale, ma quando capiamo che oltre a occuparci di sopravvivere, dobbiamo strapparci il tempo per la costruzione di alternative sostenibili per tutt3, non soltanto per un gruppo molto ristretto. E l’unica risposta sostenibile non sarà mai una regola calata dall’alto, anestetizzata di tutta la sua carica conflittuale.