La copertura mediatica della violenza sessuale resta avvitata sui miti e dimentica le donne
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Il modo in cui i mezzi di informazione riportano le notizie di cronaca su episodi di violenza contro le donne può condizionare le reazioni individuali, sociali, politiche e giudiziarie. Il modo in cui tali notizie sono commentate sui mezzi di informazione e sui social media da opinionisti e pubblici intellettuali può condizionare l’impatto momentaneo e l’accettazione di stereotipi, luoghi comuni, disinformazione. Quando il fatto di cronaca arriva in tendenza, rimanendo all’attenzione per più giorni, si trasforma in una propagazione continua di rappresentazioni mediate che avrebbero il potenziale per cambiare la percezione della violenza contro le donne e scardinare stereotipi e luoghi comuni, se non si limitassero a riprodurli e ad amplificarli.
È quel tipo di progressione verificatasi in questi ultimi giorni a partire dalla notizia dello stupro subito da un’adolescente a Palermo. Un meccanismo spietato che è già pronto a ripiombare sui drammatici fatti di Caivano.
Se la copertura dei media, inclusi i commenti di opinionisti e intellettuali pubblici, è un indicatore delle convinzioni e degli atteggiamenti di una comunità sulla violenza contro le donne ed è lo spazio per misurare i cambiamenti delle norme sociali che la rinforzano, questo ultimo episodio dimostra che c’è ancora molto da fare affinché la violenza contro le donne sia percepita come un problema sociale sistemico.
Quella a cui abbiamo assistito è una narrazione monolitica concentrata sulle responsabilità individuali dei perpetratori, carente di contesto, mancante delle informazioni sulle donne più a rischio di subire violenza, priva di riferimenti al fatto che la violenza contro le donne non colpisce solo la sopravvissuta o la vittima, indifferente ai racconti di altre sopravvissute e in cui sono state sistematicamente omessi i rimandi ai servizi di aiuto per le donne che stanno subendo violenza e molestie.
La copertura è stata sostanzialmente improntata al sensazionalismo come ha nitidamente scritto Arianna Ciccone il 22 agosto: “Il sensazionalismo è ormai parte integrante del nostro sistema mediatico. Di fondo il giornalismo italiano, come sistema ripeto, non è in grado di gestire questi casi nel modo responsabile che richiedono”. Le linee guida per una copertura responsabile della violenza contro le donne, come ricorda Ciccone, sono state e sono completamente ignorate. Questo diventa particolarmente pericoloso in un’epoca in cui la cronaca di atti violenti costituisce uno dei principali prodotti attraverso i quali i media dominanti ingaggiano il pubblico.
I dati del Ministero dell’Interno mettono in evidenza che per l’Italia le violenze sessuali, “a fronte di un decremento nel 2020 rispetto all’anno precedente, mostrano un andamento in costante incremento nel biennio successivo” per arrivare a +11% nel 2022.
C’è un ulteriore aspetto che non riguarda il giornalismo ma il ruolo dell’esperta/o pubblica/o. Perché quelle responsabilità individuali sono state di volta in volta attribuite al mito del disagio giovanile, alla distruzione generazionale provocata dal mondo digitale e dai social media, a semplificazioni sul porno, a psicodiagnosi estemporanee. Una miscela perniciosa di miti, pregiudizi e disinformazione in cui la responsabilità sociale della violenza contro le donne non ha fatto capolino. Anche in questo caso, l’adesione a linee guida e codici deontologici è stata completamente sacrificata al conservatorismo delle proprie tesi – spendibili in ogni occasione propizia - e all’influenza sociale.
“Troppo spesso, infatti, la narrazione della violenza maschile contro le donne viene delineata da soggetti esterni – attori sociali e soggetti istituzionali – mentre le donne, che di quella violenza sono loro malgrado protagoniste, finiscono di frequente per essere escluse dalla costruzione della rappresentazione sociale di ciò che hanno subito” (citazione tratta dal libro Sopravvissute di Flaminia Saccà e Rosalba Belmonte).
Quali sono i miti nell’attuale copertura mediatica della violenza sessuale?
Da una revisione della letteratura scientifica sull’interconnessione tra politica, mezzi di informazione e percezione dei perpetratori di violenza sessuale, pubblicata nel 2022 dalle ricercatrici statunitensi Judith Zetkin e Miranda Sitney con Keith Kaufman, si possono trarre alcuni indizi sulla sua ciclicità. Dall’articolo, e quindi allo stato attuale delle conoscenze, emerge una chiara relazione ciclica tra media, miti istituzionali sui perpetratori e politica tale da plasmare la percezione che si ha dei perpetratori: la copertura mediatica perpetua i miti che indirizzano le percezioni e le reazioni emotive della comunità che verrà rassicurata da decisioni o anche solo proposte politiche drastiche e repressive. Secondo Zetkin e colleghi, tanto più la copertura mediatica va a selezionare tra gli episodi di violenza sessuale i più efferati, tanto più saranno giustificate punizioni gravi e a lungo termine dei perpetratori.
Il racconto mediatico usualmente si snoda attorno ad alcuni miti che generano paura e rabbia nella comunità e li rinforza.
Accanto alla credenza che la violenza sessuale sia perpetrata più frequentemente da un estraneo che da un individuo conosciuto (mito del “pericolo dell’estraneo”), i due miti più diffusi e dannosi per le loro implicazioni sono quello dell’omogeneità e della recidiva. Secondo il mito dell’omogeneità, tutti i perpetratori di violenza sessuale sono uguali, aggrediscono donne vulnerabili o bambine, rappresentano un rischio elevato per la sicurezza e tendono ad avere problematiche comportamentali o psichiatriche considerate arbitrariamente come fattori causali del crimine. I fatti, invece, dimostrano che esistono diversi tipi di perpetratori che presentano diversi gradi di rischio di commettere violenza contro le donne ed è sulla base di queste importanti differenze individuali che possono essere impostate diverse strategie di prevenzione e trattamento. Il mito della recidiva, concernente la credenza che il perpetratore ripeterà il crimine, mette in dubbio l’efficacia di ogni trattamento con la conseguenza che i percorsi di intervento e di prevenzione non ottengono sufficiente sostegno istituzionale. I fatti, invece, dimostrano che la recidiva di violenza sessuale tende a verificarsi per quei perpetratori che non hanno supporto sociale e non hanno un posto nella comunità (una casa, un lavoro). Pertanto, esiste uno spazio molto ampio di intervento e il ruolo di una comunicazione attenta e responsabile è decisiva per un cambiamento culturale.
“Un altro mito dello stupro”, scrive Maria Giuseppina Pacilli in Uomini duri (2020), “prevede che quando un uomo violenta una donna, la loro interazione comporti inevitabilmente un elevato grado di violenza ed efferatezza, violenza che deve essere visibile e quantificabile con tanto di lividi e segni di escoriazioni sul volto o sul corpo della vittima. Da questa premessa consegue quasi inevitabilmente che una donna debba necessariamente opporre resistenza fisica altrimenti non si può parlare di stupro”. E aggiunge poco più avanti: “C’è un mito tanto duraturo quanto difficile da abbandonare che funziona più o meno così: se un uomo è troppo eccitato, perché in uno stato prolungato di deprivazione sessuale o perché «costituzionalmente» molto interessato al sesso, c’è il ragionevole rischio che possa perdere il controllo di sé di fronte a una donna attraente. Per questo, sono le donne che sono tenute a stare attente, a premurarsi il più possibile rispetto al rischio di incappare in simili incidenti che non fanno altro che riflettere la vera natura maschile”. Tali miti rappresentano dei dispositivi culturali che legittimano la violenza sessuale e che “è fondamentale comprendere e demolire”. Non sorprende, proprio per l’interconnessione tra informazione, politica e percezioni attorno alla violenza sessuale, “di fronte all’ennesimo caso di stupro, sentire il politico o la politica di turno chiedere a gran voce la castrazione chimica del violentatore, ossia l’inibizione, indotta da un farmaco, della presunta eccessiva quantità di testosterone prodotta dal suo corpo. In questa soffocante e avvilente teoria idraulica del desiderio sessuale, in cui un uomo deve liberarsi del desiderio impetuoso e incontrollabile che proviene dai suoi ormoni, unici motori della sua individualità e della sua agentività, una donna dall’aspetto molto attraente – non a caso si usa il termine «provocante» per definire un abbigliamento sexy – può essere pericolosa, per sé stessa e per gli altri”, scrive icasticamente Pacilli.
Da un’indagine richiesta dalla Commissione Europea nel 2016 risultava che tra le circa 28.000 persone intervistate, il 27% affermava che i rapporti sessuali senza consenso possono essere giustificati in almeno una delle situazioni proposte: essere ubriache/i o drogate/i (12%), tornare volontariamente a casa con qualcuno (11%), indossare abiti succinti, provocanti o sexy, non dire chiaramente di no o non reagire fisicamente (entrambi 10%). Circa un terzo delle persone intervistate riteneva più probabile per una donna subire violenza sessuale da un estraneo che da una persona conosciuta.
Nel loro complesso, gli studi che analizzano la copertura mediatica della violenza contro le donne evidenziano come questa tenda a riflettere l'ambivalenza della società sul tema e a rinforzare le norme culturali e sociali di genere, perpetuando costrutti maschilisti. Le scelte lessicali che distanziano il perpetratore dal crimine, la drammatizzazione dei dettagli e l’effetto terrificante che mira a intrattenere chi legge sono aspetti ricorrenti nel resoconto giornalistico, incluso quello degli ultimi giorni. Quello che abbiamo visto, difatti, è stata un'informazione, commenti d'intellettuali ed esperte/i inclusi, morbosamente appiccicata ai profili dei ragazzi stupratori e allo stesso tempo provocatoria per poter capitalizzare sempre di più da ogni loro azione sguaiata o posa.
Sappiamo come devono essere coperti i casi di violenza sulle donne, ma continuiamo a fare gli stessi errori
L’ideologia patriarcale è stata collegata a un modo di dare le notizie che vede i perpetratori di violenza contro le donne presentati come provocati dalle donne o succubi di circostanze non sotto il loro controllo, come riassumono le ricercatrici australiane Patricia Eastel, Kate Holland, Michelle Dunne Breen, Cathy Vaughan e Georgina Sutherland nell’introduzione a un’analisi pubblicata nel 2018 che ha considerato la copertura delle notizie di due casi di violenza contro le donne da parte del partner. Per le autrici, un sottotesto ricorrente è che la violenza contro le donne è resa allo stesso tempo come fenomeno “casuale e specifico, drammatico e mondano: non un problema sociale, non un problema di genere, ma una disgrazia che colpisce gli individui problematici”.
Ancora una volta ne è risultata completamente silenziata la voce delle donne.
“Interrogarsi sul significato che una donna sopravvissuta alla violenza maschile attribuisce alla sua esperienza non è funzionale solamente a comprendere gli aspetti più profondi del suo vissuto, ma anche a riflettere sui rapporti di potere e dominio interni alla nostra società. Dare la parola a chi ha subito violenza di genere significa scegliere di adottare la prospettiva di quei soggetti che, all’interno di una struttura sociale basata su rapporti diseguali, si trovano in una posizione di svantaggio. In tal modo, la violenza viene riconosciuta all’interno di un comune orizzonte sociale di significato, in cui il piano personale e politico non sono distinti, ma si integrano e l’uno diviene costitutivo dell’altro” (dal libro Sopravvissute di Flaminia Saccà e Rosalba Belmonte).
Quali sono le indicazioni per una comunicazione pubblica responsabile?
Le linee guida dell’UNICEF, in collaborazione con UNFPA e UN Women in Asia-Pacifico e Asia Meridionale, sono indirizzate a professionisti e professioniste dell’informazione affinché forniscano Una rappresentazione e una copertura responsabili della violenza contro le donne e della violenza contro le bambine.
Segue un estratto dei punti chiave delle linee guida che fa anche comprendere tutto quello che è stato sbagliato nei giorni scorsi:
“Quando sviluppi storie, serie o editoriali su questioni di violenza contro le donne e di violenza contro le bambine e i bambini, rafforza i principi guida della violenza di genere e un approccio incentrato sulla sopravvivenza.
• I contenuti dovrebbero idealmente fornire inviti all'azione, incluse le informazioni sui servizi di supporto disponibili localmente.
• Evita la sensazionalizzazione della violenza attraverso la rappresentazione di atti violenti nei dettagli, in tutti i tipi di contenuti (visivo, audio e scritto). Invece, nomina il tipo di violenza vissuta, come l'abuso emotivo, e prosegui con la storia.
• Evita rappresentazioni visive che ritraggono le persone sopravvissute come vittime. Invece, mostra le persone sopravvissute come dotate di potere che hanno deciso di parlare. Le rappresentazioni visive possono anche mostrare comportamenti positivi e dovrebbero evitare di rafforzare le disuguaglianze di genere, i pregiudizi e gli stereotipi sui ruoli di genere o sulla violenza, come la subordinazione femminile o il fatto che la violenza fisica sia l'unica forma grave (la stessa considerazione dovrebbe essere data ad altre forme gravi di violenza come quella sessuale, emotiva ed economica).
• Evita di "dare la colpa alle vittime" o di suggerire che le persone sopravvissute siano responsabili di aver causato o provocato violenza.
• Nel discutere le questioni di violenza contro le donne e di violenza contro le bambine, è importante tenere a mente i determinanti della violenza di genere: questi includono norme di genere inique, atteggiamenti, squilibri di potere, patriarcato e mascolinità dannose”.
Come i media dovrebbero coprire i casi di violenza sulle donne
L’urgenza di una copertura responsabile della violenza contro le donne riguarda non solo i media tradizionali ma anche i social media soprattutto per le figure riconosciute come esperte.
Alcune organizzazioni professionali hanno stilato proprie linee guida per la comunicazione sui social media. La questione è particolarmente rilevante nel caso delle professioni sanitarie per le conseguenze che può avere la diffusione di disinformazione e di tesi non sostanziate da prove e fonti affidabili. Pur non includendo norme di condotta specifiche per la comunicazione pubblica sulla violenza contro le donne, tali raccomandazioni costituiscono le basi di un uso in scienza e coscienza di strumenti di influenza sociale così potenti quali sono i social media.
Agli inizi di agosto sono state diffuse le Raccomandazioni sull’uso di social media, di sistemi di posta elettronica e di instant messaging nella professione medica e nella comunicazione medico-paziente.
In attesa di apposite raccomandazioni anche per la professione psicologica, si possono prendere a riferimento le Linee guida dell’APA [American Psychological Association] per l'uso ottimale dei social media nella pratica psicologica professionale di ottobre 2021.
Ad esempio, in queste linee guida è specificato che:
• 2.7: Gli psicologi e le psicologhe si sforzano di tenere dichiarazioni accurate e veritiere sui social media sulla propria pratica, sui colleghi, sulla professione psicologica e su altre questioni e di prestare particolare attenzione al supporto scientifico e alla base empirica delle dichiarazioni fatte e ai limiti delle prove disponibili su argomenti particolari.
Quali sono le conseguenze fisiche e psicologiche della violenza sessuale?
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2013, circa il 35,6% delle donne ha sperimentato qualche forma di violenza sessuale, con prevalenze variabili tra i diversi paesi. Da un’indagine dell’ISTAT condotta nel 2014 su un campione di 24.000 donne di età compresa tra 16 e 70 anni, emerge che il 31,5% ha riferito di avere subito violenza fisica o sessuale (il 21% delle donne intervistate ha riferito di avere subito violenza sessuale e il 5,4% di avere subito le forme più gravi di violenza sessuale come lo stupro e il tentato stupro).
La violenza sessuale ha conseguenze psicologiche e fisiche per le donne che la subiscono. Tali conseguenze sono descritte in un articolo pubblicato nel 2022 da Barbara Giussy, ginecologa e coordinatrice del Soccorso Violenza Sessuale e Domestica alla Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, assieme a un gruppo di collaboratrici.
Le conseguenze psicologiche della violenza sessuale possono manifestarsi sia nel periodo immediatamente successivo alla violenza sia nel lungo termine. Depressione, ansia, tentato suicidio, disturbo da stress post-traumatico (PTSD), disturbo dissociativo, disturbi alimentari e disturbi del sonno sono stati riportati con rischi elevati da diversi studi. Inoltre, molto spesso le donne che sopravvivono alla violenza sessuale possono soffrire di incubi, pensieri ricorrenti, flashback, riduzione di attenzione e concentrazione o ipervigilanza e possono manifestare difficoltà nelle relazioni sessuali o affettive e una riduzione delle interazioni sociali.
Le conseguenze fisiche della violenza sessuale, come spiegano Giussy e collaboratrici, non si riferiscono esclusivamente all’impatto della forza fisica o di un’arma ma all’immobilizzazione derivante dalla paura. Le donne che sperimentano immobilità tonica sono maggiormente a rischio di disturbo da stress post-traumatico. Le autrici chiariscono che molto spesso la violenza sessuale e lo stupro non sono associati alla presenza di lesioni genitali o extragenitali. Solo in circa un terzo delle sopravvissute a uno stupro si riscontrano lesioni fisiche visibili. “Ciò significa”, aggiungono le autrici, “che potrebbe essere pericoloso porre troppa enfasi sul significato forense delle lesioni genitali nelle donne adulte sopravvissute alla violenza sessuale, e che l'unica deduzione che può essere fatta con una certa sicurezza è che sia il rapporto sessuale consensuale sia quello non consensuale possono essere o non essere associati a lesioni genitali. Il consenso - che rappresenta l'elemento connotativo del reato di violenza sessuale - non può essere dedotto semplicemente da una valutazione delle lesioni genitali o extra–genitali”.
Altre conseguenze sono legate al fatto che le sopravvissute a una violenza sessuale possono presentare un rischio maggiore di gravidanza indesiderata, aborto non sicuro, infezioni sessualmente trasmissibili tra cui quella da HIV, infezioni del tratto urinario, disfunzioni sessuali, infertilità, malattia infiammatoria pelvica e dolore pelvico cronico.
Giussy e collaboratrici approfondiscono anche la percentuale rilevante di ragazze adolescenti che hanno subito violenza sessuale. “Si stima generalmente che in tutto il mondo dal 12% al 25% delle ragazze di età inferiore ai 18 anni siano vittime di qualche tipo di violenza sessuale”, e, per quanto riguarda l’indagine dell’ISTAT sopra citata, le autrici aggiungono che “circa il 10% delle donne intervistate ha riferito di essere stata vittima di violenza sessuale prima dei 16 anni”. Si tratta di dati preoccupanti per diversi motivi. “In primo luogo”, scrivono Giussy e colleghe, “l'esposizione a un grave trauma come la violenza sessuale nell'adolescenza può avere un impatto negativo di lunga durata sul benessere psicologico e sulla salute mentale, e anche essere associata allo sviluppo di disturbi di personalità borderline o schizoide. Inoltre, le conseguenze di un trauma ripetuto (come un abuso sessuale in giovane età perpetrato da un parente, da un amico o da qualcuno ben noto alla ragazza) possono essere particolarmente dannose per lo sviluppo psicologico in adolescenza. In secondo luogo, le ragazze esposte a violenza sessuale vanno incontro a una maggiore probabilità di ri-sperimentare abusi sessuali in età adulta”.
Un ulteriore aspetto preoccupante riportato nell’articolo è che le adolescenti che hanno subito violenza sessuale tendono a richiedere aiuto in una fase successiva rispetto alle donne adulte. Questo ritardo ha ripercussioni negative sulla salute fisica e sulla salute psicologica, nonché sul procedimento giudiziario. “Per tutti questi motivi”, affermano Giussy e colleghe “i programmi di prevenzione dovrebbero essere focalizzati sull'importanza di una denuncia tempestiva di violenza sessuale, e le ginecologhe e i ginecologi dovrebbero diventare consapevoli di questo aspetto delicato, per meglio assistere le sopravvissute adolescenti”.
Le figure professionali che devono fornire assistenza e supporto devono avere una preparazione tecnica e psicologica specifica. “L'accesso ai servizi clinici può rappresentare una prima esperienza riparativa rispetto al rapporto predatorio e oppressivo che la donna ha vissuto al momento della violenza sessuale”. L’assistenza medica e l’assistenza legale possono essere integrate successivamente alla valutazione dei bisogni psicologici. L’assistenza psicologica immediata è fondamentale per intervenire sui sintomi e per prevenire le conseguenze a lungo termine. “La pietra angolare della prima consulenza psicologica a una sopravvissuta alla violenza sessuale” specificano Giussy e collaboratrici “è ascoltare empaticamente la storia della violenza e la sua esperienza, iniziando un'alleanza terapeutica per contenere le emozioni e il sentimento di paura, la vergogna, la colpa, l’autocondanna e l’umiliazione”.
Solo le persone con una formazione specialistica possono far parte della rete di supporto professionale nei centri antiviolenza e nei servizi clinici ma ciascuna e ciascuno di noi può osservare, ascoltare, avere conoscenza del centro specializzato più vicino e della linea telefonica 1522 per poter fornire un aiuto rispettoso e tempestivo.
“Io non sapevo cosa dire. Non riuscivo a capire che cos’era la violenza. Non riuscivo a capire proprio che quello che stavo subendo era violenza… Non avevo capito cosa stavo vivendo”.
“Le donne accolte dai centri antiviolenza ritrovano se stesse, tornano ad essere protagoniste della propria vita e a sentirsi libere di scegliere il proprio futuro. Tuttavia, la maggior parte delle intervistate racconta di essere venuta a conoscenza dell’esistenza di queste realtà soltanto dopo un lungo periodo di violenze e solo in pochi casi ne sono venute a conoscenza attraverso le istituzioni. Da qui l’invito condiviso da tutte a potenziare i centri antiviolenza, a dare loro una maggiore visibilità e, soprattutto, a rafforzare la loro collaborazione con le istituzioni, in particolar modo con le forze dell’ordine, che dovrebbero indirizzare sin da subito verso di essi tutte le donne che sporgono una denuncia per violenza o che non lo fanno perché sono troppo spaventate” (dal libro Sopravvissute di Flaminia Saccà e Rosalba Belmonte).
La mappatura dei Centri Anti Violenza aggiornata ad aprile 2023 è fornita dal Dipartimento per le Pari Opportunità ed è disponibile qui.
Il 1522 è il numero gratuito da tutti i telefoni, attivo 24 ore su 24, che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure apri la chat da qui.
(Immagine in anteprima via Comune di Villafranca)