Violenza di genere in Italia: le leggi e cosa non funziona, perché le donne non denunciano, cosa succede negli altri paesi
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La morte di Alessandra Matteuzzi, la donna che viveva a Bologna e del cui omicidio è stato accusato l’ex compagno Giovanni Padovani alla fine di agosto, non è avvenuta senza preavviso. È stata piuttosto l’esito di una serie di eventi, minacce e segnali che la stessa Matteuzzi aveva riconosciuto e denunciato.
La prima denuncia, come ricostruito dalla stampa, era stata fatta a fine luglio, quando la donna si era rivolta ai carabinieri per notificare una serie di comportamenti molesti e ossessivi dell’ex partner. Dagli appostamenti sotto casa alle richieste continue di telefonate e videochiamate per accertarsi di dove Matteuzzi fosse, fino ad aver sostituito i dati personali dei social network della donna con i suoi per poterla controllare e aver trovato il modo di scaricare i messaggi inviati da Matteuzzi su Whatsapp.
A inizio agosto era stato aperto un fascicolo in Procura ed erano partiti gli accertamenti. Sembra però che i lavori abbiano subito dei rallentamenti perché alcune persone che dovevano essere ascoltate come testimoni non erano a Bologna in quel momento. Matteuzzi avrebbe anche ricontattato i carabinieri per capire a che punto fosse l’indagine e sentito il suo legale per dire che Padovani si era presentato nuovamente sotto casa sua.
Secondo il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato, la Procura ha fatto tutto quello che ha potuto e si attendeva un rapporto completo entro la fine di agosto. Amato ha aggiunto: “Dalla denuncia della vittima non emergevano situazioni di rischio concreto di violenza, era piuttosto la tipica condotta di stalkeraggio molesto”.
La sera del 23 agosto però Alessandra Matteuzzi è stata uccisa proprio sotto casa sua. D.i.Re ha definito questo femminicidio come l’ennesima morte annunciata, e la presidente Antonella Veltri ha parlato di “impotenza di istituzioni che non credono alle parole delle donne e non applicano correttamente le misure esistenti”.
Le norme in Italia
Come spiega a Valigia Blu anche Antonella Faieta, avvocata penalista, cassazionista e vicepresidente dell’associazione Telefono Rosa, “Partendo dalla premessa che tutto è perfettibile, le leggi contro la violenza di genere in Italia ci sono, ma a mancare è spesso la corretta e tempestiva applicazione delle stesse”.
L’apparato normativo in Italia si è arricchito di norme e misure precise finalizzate al contrasto della violenza di genere, a partire dalla legge 15 febbraio 1996, n. 66, che stabilisce le pene in caso di violenza sessuale. Legge che ha anche abrogato gli articoli del codice penale che definivano i delitti contro la libertà sessuale - come la “violenza carnale” o il “ratto a fine di matrimonio” - quali delitti contro la moralità pubblica e il buon costume.
La legge 04 aprile 2001, n. 154, nota come “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”, stabilisce ad esempio che il giudice possa prescrivere all’imputato “di lasciare immediatamente la casa familiare”, “di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice”, ed eventualmente anche di “non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa”.
Un altro passo importante fatto dall’Italia è la ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013, il “primo strumento internazionale giuridicamente vincolante” che ha lo scopo di contrastare la violenza di genere, ma anche di prevenirla e tutelarne le vittime. Tra i punti principali esplicitati nella Convenzione vi è la definizione della violenza di genere come violazione dei diritti umani, la necessità di introdurre misure che promuovano un cambiamento socioculturale, il risarcimento delle vittime, l’importanza della raccolta dati per riconoscere le violenze maggiormente diffuse e lavorare anche in termini di prevenzione e formazione.
Sempre dal 2013 è in vigore la legge 15 ottobre 2013, n. 119, che prevede ad esempio l’introduzione di “un’aggravante comune […] se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori o di una donna in gravidanza”; la possibilità di un “controllo a distanza” con braccialetto elettronico “del presunto autore di atti di violenza domestica”; l’inserimento dei “reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking tra quelli che hanno priorità assoluta nella formazione dei ruoli d’udienza”; la modifica del reato di atti persecutori, ovvero lo stalking che era stato introdotto già nel 2009 e per cui dal 2013 la querela è “irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate e aggravate” ed è stata introdotta “una aggravante quando il fatto è commesso attraverso strumenti informatici e telematici”.
Nel 2015 è stato poi adottato un Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, che dedicava “un budget di 30 milioni” a “progetti territoriali e formazione”, e che esplicitava la necessità di un sistema di raccolta dati univoco, come già richiesto dalla Convenzione di Istanbul. Come messo in evidenza anche dal focus sul femminicidio realizzato dall’Ufficio Valutazione Impatto del Senato, l’Italia non prevedeva infatti “un sistema integrato di raccolta e di elaborazione dei dati”, per cui ad esempio il numero dei femminicidi variava “a seconda del soggetto rilevatore e dei criteri di classificazione seguiti”. Ci sono voluti ancora diversi anni prima che si iniziasse però a parlare di una raccolta di dati sistematica e a marzo 2022 è stato presentato l’accordo tra Istat e Dipartimento per le Pari Opportunità, finalizzato a “costruire il sistema integrato di raccolta ed elaborazione dati, previsto dal Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”.
Dal Piano d’azione presentato nel 2015 è anche derivata l’approvazione del Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il 2017-2020, rinnovato poi un anno dopo dalla sua scadenza con il nuovo Piano per il 2021-2023 che si focalizza maggiormente sulla violenza domestica così come sul ruolo della prevenzione e della formazione.
Nel 2019 è entrato anche in vigore il cosiddetto Codice Rosso, un insieme di misure volte ad accelerare i procedimenti penali, che ha inasprito le pene in caso di violenza di genere e che ha introdotto quattro nuovi reati: la “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate”, la “deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso”, la “costrizione o induzione al matrimonio” e la “violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”.
Nello specifico poi il Codice Rosso prevede che, il pubblico ministero, dopo essere stato tempestivamente informato della denuncia ed entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, riascolti la donna che ha sporto denuncia. Proprio questa misura è stata tra le più criticate del Codice Rosso. Come ha spiegato Elena Biaggioni, avvocata penalista e coordinatrice del Gruppo avvocate della rete D.i.Re., i tre giorni di tempo “costituiscono un margine pericoloso o inutile. Pericoloso, perché non è detto che la donna sia in sicurezza. Inutile, perché se la donna non è pronta e non è sicura, non racconterà nulla o minimizzerà”.
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Antonella Faieta evidenzia anche che un altro problema del Codice Rosso riguarda la sua applicazione, dal momento che spesso “non viene applicato in maniera rigida così come era stato pensato. A volte c’è una sottovalutazione della situazione e di ciò che dovrebbe essere necessario fare”.
Come spiega a Valigia Blu Chiara Gravina, avvocata civilista del centro antiviolenza Roberta Lanzino, un discorso analogo
vale anche per le norme in campo civilistico, perché in Italia abbiamo un ordinamento e un apparato normativo nazionale funzionante, specialmente se viene poi anche dovutamente integrato con le normative internazionali e in particolar modo con la Convenzione di Istanbul, ma purtroppo si scontra con una mentalità di cui siamo intrisi, fatta di minimizzazione, banalizzazone e svalutazione del fenomeno della violenza domestica e di negazione della violenza sessuale.
Cosa succede negli altri paesi
Tra il 2020 e il 2021, la Turchia è uscita dalla Convenzione di Istanbul, la Polonia ha manifestato la volontà di fare altrettanto mentre l’Ungheria ha deciso di non ratificarla affatto. Nel 2022, il Regno Unito invece ha ratificato la Convenzione, ma con riserva su parte dell’articolo 44 e sull’articolo 59. Come spiegato dall'organizzazione sui diritti umani Human Rights Watch, questa riserva permette al governo di non seguire gli obblighi legali prescritti dai due articoli, tra cui anche la protezione delle donne migranti che sono vittime di violenza e il cui stato di residenza dipende dal partner abusante.
Nel frattempo molti paesi si stanno muovendo verso quelle che sono conosciute come le “leggi del consenso”. Nel 2018 ad esempio in Svezia è stata introdotta una legge che prevede che un rapporto sessuale senza consenso esplicito sia da considerarsi uno stupro. Dopo soli due anni, il numero di condanne per violenza sessuale in Svezia è aumentato del 75%, dimostrando l’impatto che questa norma ha avuto: “È un buon segno”, ha detto Stina Holmberg, ricercatrice del National Council on Crime Prevention, “questo ha portato a una maggiore giustizia per le vittime di stupro”.
Nel 2020 anche la Danimarca ha approvato una legge simile. Secondo i dati del ministero della Giustizia, qui ogni anno circa 11400 donne vengono violentate o subiscono un tentativo di stupro, e nel 2016 l’Istituto europeo per la parità di genere EIGE aveva stimato che il numero di donne che avevano subito violenza fosse il 19% più alto rispetto alla media europea.
Notizia recente è quella che riguarda la Spagna, che ha approvato una legge per cui in un rapporto sessuale il consenso non possa essere dato per scontato, anzi deve essere esplicitato e il silenzio non può essere interpretato come consenso.
Antonella Faieta spiega che “Noi abbiamo già queste leggi. Ci sono stati momenti di arresto, sentenze anche non condivisibili, però abbiamo una giurisprudenza che è molto chiara sul discorso del consenso, sulla sua identificazione e sul comprendere se l’uomo fosse in grado di capire se ci fosse o meno consenso”.
Capire la violenza di genere
Secondo l’avvocata Faieta, il problema in Italia spesso piuttosto sta a monte, perché si fa ancora fatica a capire cosa sia la violenza, anche tra i soggetti che dovrebbero intervenire in caso di denuncia. “Quando avviene una rapina”, dice Faieta, “le indagini sono pronte e immediate e lo stesso deve succedere quando c’è una denuncia da parte di una donna per violenza. Le leggi ci sono, ma potrebbero essere applicate molto meglio se ci fosse una comprensione del fenomeno e se ci fosse uno studio sul fattore rischio, su quanto quella donna” che ha sporto denuncia “è esposta al rischio”. In caso di stalking ad esempio, “se minimizziamo, se non riusciamo a leggere gli indicatori e non capiamo che si può generare una situazione di alto rischio, il problema rimane, a prescindere dalla denuncia. La parola chiave è quindi ‘formazione’, dobbiamo capire cos’è la violenza di genere”.
Molta confusione e minimizzazione permane anche nei casi di violenza domestica e in ambito familiare. Stando ai dati, tra le donne che nel 2020 hanno intrapreso un percorso di fuoriuscita dalla violenza attraverso un CAV nove su dieci hanno ricevuto violenza psicologica, il 67% ha subito violenza fisica, il 49% minacce, il 38% violenza economica. “Nel 59,8% dei casi”, dice l’indagine ISTAT, “l’autore della violenza è il partner convivente, nel 23% un ex partner” e la stragrande maggioranza delle donne ha subito almeno due forme di violenza.
“Quando parliamo di violenza domestica”, spiega l’avvocata Gravina, “non parliamo di un episodio, ma di comportamenti che nel tempo hanno portato a un’asimmetria delle posizioni. Nella violenza non c’è simmetria, c’è sproporzione, c’è una persona che domina sull’altra e lo fa a livello psicologico, di controllo, economico, fisico”.
Secondo Gravina in Italia esiste anche un problema di gestione dei casi di violenza domestica, che ancora viene confusa con il conflitto familiare, “anche in presenza di denuncia penale o di procedimento penale che ancora non è stato definito”. Gravina sostiene che nonostante l’obbligo di comunicazione tra giudice penale e giudice civile introdotto con la legge 69 del 2019, non sempre questo scambio avviene davvero e oltretutto ci si basa ancora “sullo stereotipo per cui un ‘cattivo marito’, un uomo violento, è comunque un buon padre. Ciò che si vuole tutelare in primis è il diritto dell’uomo a fare il padre” e a mantenere un rapporto con i figli.
“Questa logica danneggia moltissimo le donne e gli stessi minori”, dice l’avvocata, “perché ad esempio non si indagano gli eventuali traumi” che la violenza agita dal padre sulla madre ha generato sui figli. Non si indaga neppure se i minori “vogliono realmente continuare ad avere rapporti con il padre e come quei rapporti debbano essere disciplinati per la tutela della donna”.
A questo Gravina aggiunge che in Italia non vengono spesso neanche applicati gli articoli 31 e 51 della Convenzione di Istanbul, che chiedono ai soggetti incaricati di tutelare le donne vittime di violenza di non comprometterne la sicurezza: “Tutte le udienze di separazione e volontaria giurisdizione”, dice Gravina, “si fanno alla compresenza dell’uomo e della donna” e “le parti si incontrano nei corridoi, nelle aule, negli uffici dei servizi sociali”.
Perché le donne non denunciano
Dall’ultimo report pubblicato da D.i.Re emerge un altro dato importante: tra le donne accolte dalla rete solo il 28% ha scelto poi di avviare un percorso giudiziario. Secondo D.i.Re, questo dato così basso e che non ha subito particolari variazioni negli anni dipende principalmente dalla vittimizzazione secondaria che le donne subiscono da parte delle istituzioni in fase di denuncia. La paura di venire colpevolizzate e di non essere credute anche durante i processi e dalle istituzioni convince molte donne a desistere.
“Nelle istituzioni, nelle autorità giudiziarie, nelle forze dell’ordine che raccolgono le denunce ritroviamo ancora troppo spesso reticenza e diffidenza nei confronti delle donne che sporgono denuncia”, lamenta Gravina, che aggiunge che esiste “questa convinzione per cui le donne denuncino inventandosi un caso di violenza domestica per avere un vantaggio giudiziario, ma i dati ci dicono tutt’altro. È raro che le donne vittime di violenza domestica ne parlino, e spesso lo fanno quando la violenza ha iniziato a ritorcersi anche contro i figli”.
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L’avvocata Faieta spiega anzi che tra le donne che scelgono di denunciare solo una piccola parte vuole che l’uomo venga punito e che lei venga risarcita: la maggior parte di loro vuole “solo interrompere quella situazione di violenza. Dicono ‘mi interessa poco della condanna, voglio solo che non dia più fastidio a me e ai miei figli, che non ci faccia più del male’. Spesso le donne vogliono solo essere lasciate in pace”.
Le donne temono anche di acuire la rabbia dell’uomo, di generare ulteriore violenza sporgendo denuncia o che il rapporto con i figli possa cambiare. Ed è molto comune che siano loro stesse a non riconoscere i segnali di un uomo violento o a normalizzarne i comportamenti: “Noi sentiamo sempre, quotidianamente, donne che dicono frasi come ‘non posso mandare il padre dei miei figli in carcere’”, dice Gravina, che aggiunge: “Fa tutto parte di un sommerso, ed è di questo sommerso che dovremmo preoccuparci”.
Come spiega l’avvocata Faieta, raccontare di essere vittime di violenza domestica comporta d’altronde “uno sforzo enorme. Non è facile dire ‘quest’uomo mi picchia, mi offende, mi sputa in faccia, mi dice che non valgo niente come madre e come moglie’. Anche perché questo implica fare i conti con se stesse, con la sensazione di aver fallito scegliendo di avere una relazione con quest’uomo, così come significa mettere da parte la speranza che lui cambierà. E questo deve essere capito quando viene sporta una denuncia, deve essere capito che una donna si porta dietro tutto questo”.
L’avvocata Gravina considera importante anche che le donne che vogliono denunciare chiedano l’assistenza di un legale o si rivolgano a un centro antiviolenza, affinché sappiano cosa succederà e cosa dovranno affrontare in caso di processo, ma anche per essere messe in sicurezza o essere notificate tempestivamente in caso ad esempio di richiesta di archiviazione di una misura: “A noi è successo tante volte”, dice Gravina a proposito del suo lavoro con il centro antiviolenza Lanzino, “di seguire donne che non sono state informate della decadenza della misura di divieto di avvicinamento o che l’avvocato dell’uomo avesse fatto richiesta di modifica o annullamento della misura stessa. Magari una donna è convinta che quell’uomo non si possa avvicinare a lei, quando in realtà può”.
Il ruolo dei centri antiviolenza
Come dimostra il rapporto ISTAT sulle case rifugio e i centri antiviolenza, queste strutture svolgono un ruolo centrale nel contrasto alla violenza di genere. Le case rifugio sono a indirizzo segreto e gratuite e garantiscono ospitalità e protezione a donne vittime di violenza e ai loro figli. I centri antiviolenza offrono consulenza, supporto legale e psicologico specializzati e orientamento al lavoro e sostengono la donna nelle varie fasi del suo percorso di fuoriuscita dalla violenza. Sono spesso proprio i CAV poi ad anticipare esigenze e misure di tutela per fare in modo che la donna che sceglie di denunciare sia sempre al sicuro. “Dobbiamo prima essere sicure di aver messo in sicurezza la donna o quantomeno di aver attivato altri canali”, dice Gravina, “Capiamo ad esempio la sua rete amicale e parentale, le consigliamo una serie di passi da fare prima di sporgere denuncia, e poi aspettiamo i suoi tempi, che lei sia pronta a denunciare”.
Nel 2020 si contavano 350 CAV e 366 case rifugio, gestite da persone con almeno cinque anni di esperienza in materia di contrasto alla violenza di genere, e le donne che hanno contattato almeno una volta i centri sono state 54.609, 3964 unità in più rispetto al 2019. L’indagine Istat ha anche rilevato un’insufficienza dei posti letto nelle case rifugio rispetto alle esigenze e una distribuzione non omogenea sul territorio.
Per quanto riguarda invece il 1522, il servizio gratuito e attivo 24 ore su 24 ore per dare aiuto e smistare le richieste delle donne vittime di violenza di genere, il numero di chiamate valide nel 2021 è aumentato del 13,7% rispetto all’anno precedente. Il 68,7% delle donne che si sono rivolte al 1522 sono state indirizzate a un servizio del territorio e di queste il 90,1% è stato inviato a un centro antiviolenza.
Il Telefono Rosa invece ha riferito a Valigia Blu di aver ricevuto 1820 telefonate da gennaio ad agosto 2022, 746 telefonate relative a casi di violenza e che le donne seguite dalle avvocate penaliste e civiliste dell’associazione sono state 523 mentre 536 quelle seguite dalle loro psicologhe specializzate.
Il volontariato è principalmente ciò che fa funzionare i CAV, come spiega ad esempio D.i.Re relativamente alla propria rete, anche a causa di “una mancanza di ‘stabilità’ delle risorse economico-finanziarie su cui i centri possono contare”.
Secondo Gravina, i centri antiviolenza dovrebbero “avere un riconoscimento più importante da parte delle istituzioni e delle autorità giudiziare. Dovremmo essere tenute di più in considerazione e coinvolte di più nelle politiche di genere e nei percorsi delle donne. Quando si tratta di andare nel dettaglio delle situazioni, aiutare concretamente una donna, metterci in rete con i loro servizi sociali, finanziarci o darci un contributo, le istituzioni fanno spesso fatica a riconoscerci”.
Immagine in anteprima: Camelia.boban, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons