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Violenza contro le donne, infanzia violata e silenzi complici: storie di abusi e un sistema che non protegge

25 Novembre 2024 4 min lettura

Violenza contro le donne, infanzia violata e silenzi complici: storie di abusi e un sistema che non protegge

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Sette giorni fa. Provincia di Napoli.

Mimma ha sei anni e ha paura di quei signori con la divisa. Ha paura pure di quelli col camice bianco. Mimma ha paura di tutti e solo dopo ore abbraccia una poliziotta poliziotta e nell’orecchio le dice che cosa le ha fatto suo padre. Nessuno l’avrebbe saputo se non ci fosse stato un video a documentare quella violenza. Un video girato con una telecamera nascosta piazzata dalla sorella maggiore Tina, che aveva visto che la piccola aveva smesso di sorridere, stentava a parlare, era nervosa. Tina conosceva quelle paure ed evidentemente conosceva suo padre: anche lei era stata violentata in passato e anche l’altre sorella, che però ora vuole solo dimenticare. Tina ha dovuto incastrarlo con un video per farlo arrestare. È andata a denunciarlo e ha portato anche Mimma che però era spaventatissima.

Gli accertamenti medici sono stati disposti ed eseguiti solo due giorni dopo. Un ritardo che rischia di inquinare gli accertamenti scientifici e quindi le prove che su una bimba così piccola sono un’operazione delicatissima per l’incidenza sia fisica che psicologica. Da un lato una bimba e due donne (la mamma se ne è andata via da tempo), e dall’altro un uomo, anagraficamente loro padre e convivente che per anni impunemente ha esercitato la sua violenza facendo leva sulla paura, sulla vergogna, sulla solitudine. “Ho fatto per mia sorella quello che non sono riuscita a fare per me perché nessuno mi avrebbe creduta - ha spiegato Tina, studentessa universitaria, agli inquirenti - Ho dovuto portare una prova e onestamente speravo di non averne, speravo che almeno con Mimma si fosse fermato. Invece no. Quel video è orribile”. La piccola ora è ricoverata, suo padre è in carcere e la speranza è che il video basti per lasciarcelo il più a lungo possibile.

Quattro giorni fa. Provincia di Napoli.

Due gemelline di tre anni, piangendo, hanno raccontato che un educatore, approfittando di un momento in cui erano soli, le ha toccate. La polizia sta facendo accertamenti. Le bimbe sono state portate in un ospedale pediatrico.

Due casi orribili in una sola settimana di cui non ho letto su nessun giornale, perché ormai la cronaca si fa prevalentemente con le veline e invece mi sono resa conto che se avessi fatto il giro di nera, come mi hanno insegnato anni fa, interrogando una gamma ampia di fonti, di questi casi ne avrei tirati fuori molti altri. Purtroppo.

Non ho indicato i Comuni dove sono avvenuti i fatti e nemmeno i nomi che sono di fantasia, mi è bastato stare sei giorni di fila a Napoli per venire a sapere queste due storie. Non sono storie che hanno attinenza con il territorio (sarebbero potute accadere in qualsiasi altro posto in Italia), hanno a che fare con la versione più estrema e malata della violenza di genere: quella in cui l’uomo si approfitta dell’essere umano più indifeso di tutti, le bambine.

A che serve raccontarle? A delineare e definire un problema. Senza galleggiare nell’orrore, raccontare ciò che non va. Le falle in un sistema in cui per esempio gli accertamenti non sempre sono ben coordinati (nel primo caso come mai la bimba è stata portata in ospedale dopo due giorni?), coloro che dovrebbero essere sentinella in vicende che riguardano i minori cosa hanno fatto? Perché si ha paura di non essere protetti? Perché non si crede che una denuncia non possa essere risolutiva? Quali sono i tempi della giustizia e quali ostacoli possono arrivare? Al netto di un grandissimo lavoro fatto da alcune associazioni e centri antiviolenza (non sempre adeguatamente finanziati), a quale complicato e doloroso percorso sono esposte le donne e ancora di più le bambine? Da circa un anno e mezzo un lavoro che sto facendo mi obbliga a una particolare attenzione a queste storie di violenza sulle donne.

E più vado a fondo più mi accorgo di quanto siano ordinarie. Più che alle denunce, ho dato un’occhiata ai flussi di dati del Sistema Informativo Sanitario del Ministero della Salute, relativi agli accessi in pronto soccorso (flusso EMUR) e alle dimissioni ospedaliere (flusso SDO), che costituiscono importanti fonti di informazione su questo fenomeno.

Vengono fuori dati drammatici: sono più di quattordici mila gli accessi in pronto soccorso delle donne vittime di violenza nel 2022 in Italia (nei dati viene specificato che non è stata conteggiata la Calabria). Forse arriveranno i dati del 2023 e non credo che saranno migliori. Dietro questi numeri, c’è la donna picchiata abitualmente dal partner, quella che non se ne può andare perché non ha indipendenza economica, quella che ha paura che le tolgano i figli, c’é quella abusata nel sottopassaggio della stazione, la straniera violentata e invisibile, la ragazzina che non sa difendersi e ha paura di parlare, quella abusata da chi esercita una posizione di potere o che “subisci, stai zitta o non lavori più”, quella con handicap che ha difficoltà perfino a capirlo e lo realizza solo mentre accade e così via.

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Questi dati elaborati anche dall’ISTAT ci dicono anche un’altra cosa: nel caso dei ricoveri femminili si hanno notizie su chi ha commesso la violenza solo nel 10,8% dei casi. É la fotografia del silenzio e dell’impunità. É la fotografia di quel patriarcato che di cui inspiegabilmente si fa fatica ad ammettere la resistenza.

É una fotografia di un sistema che evidentemente non garantisce le donne, non le fa sentire al sicuro nella denuncia.

Le donne vengono uccise anche quando non muoiono.

Immagine in anteprima: frame video Fanpage.it via YouTube

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