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Uscire dall’invisibile: la violenza contro le donne con disabilità

8 Marzo 2022 10 min lettura

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Uscire dall’invisibile: la violenza contro le donne con disabilità

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Insulti, derisione, aggressioni fisiche, baci e carezze contro la propria volontà: la violenza sulle donne con disabilità assume forme diverse e spesso non viene riconosciuta come tale, a meno che non si tratti di atti eclatanti che finiscono sui giornali. La pandemia, con la difficoltà di uscire di casa, ha peggiorato la situazione. La seconda edizione della ricerca Vera (Violence Emergence, Recognition and Awareness), realizzata tra maggio e novembre 2020 da Fish (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) attraverso questionari anonimi a 486 donne con disabilità, mostra che il 62% ha subito una qualche forma di violenza; solo un terzo la riconosce come tale.

“Nel centro di riabilitazione dove facevo ippoterapia, un giorno il mio fisioterapista era assente e c’era un sostituto”, racconta Emanuela Di Marzio, 38 anni, nata con una paralisi cerebrale infantile, la tetraparesi spastica distonica neonatale. “Visto che pioveva, mi ha proposto di fare esercizi in una stanza. Mi ha alzato dalla sedia, mi ha fatto appoggiare le mani sul tavolo e da dietro mi ha tirato giù i pantaloni. Non sapevo cosa stesse facendo: mi diceva che era un esercizio di respirazione che mi avrebbe aiutato a camminare”.

Emanuela non mette in discussione l’autorità dell’uomo, anzi è convinta di essere lei stessa a non riuscire a eseguire bene l’esercizio. È solo dopo qualche ora, parlando con la madre, che capisce di essere stata violata. Decide allora di denunciare: “La violenza sulle donne disabili è tripla: violenza fisica, psicologica, ma anche istituzionale, perché a processo è stata ordinata una perizia psichiatrica per verificare l’attendibilità di Emanuela”, racconta la madre, Paola Fanzini, fondatrice dell’associazione Lampada dei Desideri per i diritti delle persone con disabilità. “Di base, la persona con disabilità non viene creduta. Poi abbiamo scoperto che l’uomo aveva commesso altre violenze sessuali”.

I tipi di violenza più comuni sono gli insulti, la molestia sessuale e il divieto di vedere persone care. A volte la violenza viene agita sulla disabilità stessa, attraverso l’interruzione delle terapie, la rottura degli ausili o il maltrattamento degli animali guida. “C’è un’assenza di conoscenza di questo tema”, afferma Silvia Cutrera, vicepresidente di Fish e responsabile del gruppo donne dell’organizzazione. “Spesso le donne con disabilità risultano invisibili nelle indagini e mancano dati disaggregati. Anche la nostra ricerca non è esaustiva, perché il campione non è rappresentativo: tra le rispondenti, solo il 15% ha una disabilità intellettiva, mentre l’80% ha un titolo di studio medio-alto. La violenza però non fa differenze, e il fenomeno è sicuramente più grave di quel che appare dai risultati della nostra indagine”.

Nell’87% dei casi, chi fa violenza è una persona conosciuta e vicina: il partner o l’ex (24%), un familiare (20%), un conoscente (16%) oppure il capo o un collega di lavoro (12%). La cosa che preoccupa è la difficoltà di queste donne di reagire: solo il 14% si è confidata con qualcuno e solo il 3,5% si è rivolto a un centro antiviolenza. “La violenza è più difficile da denunciare quando a perpetrarla è il proprio caregiver e quando la stessa sopravvivenza della donna dipende dal ricevere assistenza”, spiega Cutrera. “C’è la paura di restare sola, senza aiuti, di finire in una struttura o di perdere l’affidamento dei figli”.

Con la pandemia, l’isolamento e la chiusura prolungata delle residenze ha fatto aumentare il rischio di violenze nelle strutture: nella primavera del 2020 a Troina, in provincia di Enna, una ragazza con disabilità mentale è stata sottoposta a violenze ripetute da parte di un operatore. I familiari non potevano accedere al centro per via delle restrizioni, e si sono accorti solo successivamente che la donna era incinta. Molte associazioni hanno denunciato il problema, chiedendo la riapertura al pubblico di questi luoghi, che in alcuni casi sono ancora oggi inaccessibili.

Denunciare le violenze non è semplice

Se una donna con disabilità decide di denunciare, deve prima superare una serie di ostacoli: può aver bisogno di aiuto per arrivare al centro antiviolenza, o a volte anche solo per fare una telefonata. Come fare quando la persona che fa violenza è chi si occupa di lei? Quando si tratta di una donna con una disabilità psichica, si presenta poi il problema della credibilità: ha più valore la sua parola o quella di un uomo considerato “sano”? E chi non è in grado di parlare o di esprimersi, come fa a denunciare?

Gli operatori non sempre sono preparati: “A volte assistiamo ad atteggiamenti sminuenti nei confronti della violenza sulle donne con disabilità, che vengono invitate a sopportare un po’ quando il caregiver diventa aggressivo”, racconta Rosalba Taddeini, psicologa di Differenza Donna, associazione che nel 2014 ha aperto a Roma uno sportello per contrastare le discriminazioni multiple. “Ma la consapevolezza sta crescendo e anche i centri antiviolenza si stanno attrezzando per diventare sempre più inclusivi”.

Differenza Donna dà supporto a donne con disabilità ma anche a donne migranti, offrendo assistenza psicologica e legale e, nei casi più critici, l’accoglienza in una casa protetta. “Non sempre le donne riescono a venire da noi”, continua Taddeini, “e così in alcuni casi siamo noi ad andare verso di loro, nei centri, presso le associazioni, oppure direttamente a casa”.

Tra loro c’era anche Giulia (nome di fantasia), che aveva alle spalle una storia di anni di violenze: da piccola veniva abusata dal nonno, poi era stata venduta dal padre a un uomo che l’aveva sposata per ottenere il permesso di soggiorno. Quando è rimasta incinta, il marito l’ha fatta cadere dalle scale e le ha provocato un aborto. “A volte abbiamo davanti agli occhi situazioni eclatanti di violenza, che però non vengono approfondite”, spiega Taddeini. “Ricordo un caso di una ragazza con sindrome di Down che aveva abortito 13 volte e al consultorio nessuno si era mai domandato il perché. Alla fine si è scoperto che il padre la spingeva a prostituirsi”.

Dal 2014 al 2019, le donne con disabilità vittime di violenza seguite da Differenza Donna sono state 143. Con la pandemia, si è registrato un forte aumento: tra novembre 2019 e novembre 2020 sono state 90 le donne prese in carico dall’associazione, e 98 solo nei primi sette mesi del 2021. “Lo sportello è rimasto sempre aperto”, racconta Taddeini. “Nel primo lockdown c’è stato un calo delle chiamate, dal momento che le donne non avevano la possibilità di telefonare senza essere ascoltate, e non avevano neanche modo di uscire di casa con una scusa. Con la riapertura invece abbiamo avuto un’impennata di richieste. Oggi stiamo svolgendo un'indagine sulla salute riproduttiva e sessuale delle donne con disabilità: per contribuire basta scrivere a d.donna@differenzadonna.it e richiedere il questionario”.

Nell’aprile 2020 anche a Bologna ha aperto uno sportello di supporto per le donne con disabilità che subiscono violenza o discriminazioni, gestito da Aias Bologna onlus e Mondo donna. La sede non ha barriere architettoniche e le operatrici usano strumenti come la lingua dei segni o la comunicazione aumentativa alternativa per rivolgersi anche a donne sorde, con problemi intellettivi o con autismo.

La forza del progetto è la compresenza di un’operatrice esperta di violenza e una esperta di disabilità, che hanno fatto formazione reciproca per comprendere la complessità delle discriminazioni multiple. “Siamo arrivate a elaborare linee guida specifiche”, spiega Corinne Giangregorio, operatrice di Mondo Donna. “Alcuni episodi raccontati dalle donne con disabilità tendono ancora a essere categorizzati nella macroarea della violenza abilista, mentre in realtà dipendono dal genere. Ad esempio, è venuta da noi una donna con una disabilità sensoriale che in casa era obbligata a sbrigare tutte le faccende: le dicevano che non aveva senso che uscisse perché, nella sua condizione, non avrebbe trovato un lavoro o un compagno. Se si fosse trattato di un ragazzo con la stessa disabilità, gli sarebbe stata detta la stessa cosa?”.

La maternità, un diritto negato

Anche la maternità è un diritto negato: molte donne con disabilità vengono scoraggiate a diventare madri e, quando restano incinta, subiscono pressioni per non tenere il bambino. Ad alcune di loro viene fatta la sterilizzazione chirurgica, per evitare gravidanze indesiderate. L’indagine L’accessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia alle donne con disabilità, condotta dal Gruppo donne Uildm (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), mostra che i servizi di ginecologia e ostetricia sono poco accessibili, e alcune apparecchiature di diagnosi e di screening non sono concepite per chi è in carrozzina. A partire dalla mammografia: ad eccedervi è solo il 58% delle donne disabili, contro un 75% del resto delle donne, il che comporta una maggiore difficoltà nella prevenzione dei tumori femminili. Inoltre, su un campione di 61 strutture pubbliche, il 64% non è servito da mezzi pubblici accessibili, il 43% non dispone di un bagno per disabili e il 38% non offre uno spogliatoio sufficientemente ampio da permettere il movimento di una persona in carrozzina e di un eventuale accompagnatore.

Per questo, nel 2008 all’ospedale Sant’Anna di Torino è nato l’ambulatorio ostetrico-ginecologico DD (Donne con Disabilità), a cui si accede con scivoli e ascensori: il lettino ginecologico è regolabile in altezza e c’è un sollevatore per far salire sul lettino le donne in carrozzina. “Non dobbiamo chiudere gli occhi nei confronti della disabilità, ma in alcuni casi queste donne sono davvero pronte a diventare madri”, afferma la ginecologa Paola Castagna, che gestisce l’ambulatorio. “Naturalmente è fondamentale analizzare i rischi, fare tutti gli esami necessari e preparare la coppia anche da un punto di vista psicologico. Ma è necessario superare l’idea che per le donne con disabilità la gravidanza sia impossibile”. Dall’apertura dell’ambulatorio ci sono stati oltre mille accessi, con 65 donne che hanno portato avanti una gravidanza.

Un quadro legislativo frammentato

Il percorso per il riconoscimento dei diritti delle donne con disabilità è ancora in evoluzione. Nel 2006, l’Onu adotta la Convezione sui diritti delle persone con disabilità, chiedendo ai Paesi firmatari misure per assicurare il godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali: l’articolo 6 è dedicato specificamente alle donne con disabilità. Nel 2009 l’Italia ratifica la Convenzione. Due anni dopo, il Forum Europeo sulla Disabilità redige il Manifesto sui diritti delle donne disabili, con l’obiettivo di attuare la Convezione in un’ottica di genere. Nel 2016, il comitato Onu emana le osservazioni conclusive sull’Italia: nel nostro paese non avviene una piena e sistematica inclusione delle donne con disabilità, e c’è ancora bisogno di integrare la prospettiva di genere nelle politiche sulla disabilità e viceversa. Così, nel 2019 la Camera dei deputati approva all’unanimità quattro mozioni sul tema della violenza sulle donne disabili.

“Da quel momento in poi, non ci sono stati grandi sviluppi”, afferma Sara Carnovali, PhD in diritto costituzionale e collaboratrice parlamentare presso la Camera dei deputati, che ha scritto il libro Il corpo delle donne con disabilità. “Il Piano nazionale sulla violenza contro le donne 2021-2023, redatto dal ministero delle Pari Opportunità, solo sporadicamente cita le donne con disabilità e non individua misure puntuali per far fronte ai loro bisogni. Non c’è alcun riferimento alla necessità di inserire l’accessibilità come requisito minimo di centri antiviolenza e delle case rifugio”.

Non tutti i territori sono uguali: sanità, centri antiviolenza e case rifugio sono gestiti dalle regioni, e il risultato è che non tutte le donne possono usufruire degli stessi servizi. “Si tratta di una discriminazione istituzionale”, spiega Carnovali, “perché non si rispetta l’eguaglianza sostanziale tra gli individui e quindi non si creano le condizioni che garantiscono a tutti l’esercizio effettivo dei propri diritti”. Il 19 aprile 2020, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite ha pubblicato una guida orientativa invitando gli Stati membri ad adottare misure adeguate per affrontare i rischi che le persone con disabilità hanno dovuto fronteggiare con l’emergenza sanitaria: uno dei sette focus riguardava proprio la violenza.

“Nonostante tutto, vi è ancora una ritrosia di parte di chi si occupa di violenza di genere a far entrare le rivendicazioni delle donne con disabilità nelle lotte femministe, anche se oggi la situazione sta migliorando”, afferma Carnovali. Nel passato, le rivendicazioni dei movimenti femministi raramente hanno tenuto conto della condizione delle donne disabili: mentre le femministe lottavano per emanciparsi dall’essere viste soltanto come oggetto di desiderio, le donne disabili chiedevano il diritto di godere di una sfera sessuale. Mentre le femministe combattevano per il diritto all’aborto e alla contraccezione, le donne con disabilità rivendicavano l’essere riconosciute come madri, capaci di accudire i figli tanto quanto le altre. “La disabilità è quasi sempre esclusa dall’agenda delle politiche di genere, così come il genere è escluso dalle politiche sulla disabilità”, conclude Carnovali.

Il diritto di essere attraente

E poi c’è chi oggi lotta per rivendicare il diritto di essere attraente. “Ero sul lago di Garda, un 25 aprile: viaggiavo da sola e intorno a me c’erano tante persone. A un certo punto si è avvicinato un uomo che, dopo aver scambiato due chiacchiere, mi ha strattonato con violenza e ha provato a baciarmi. L’ho respinto e mi sono allontanata, ma lui mi ha seguito. Alla fine per fortuna si è stancato e se n’è andato”. Valeria Alpi, 48 anni, con una disabilità fisica, è una giornalista e si occupa di cultura inclusiva, sessualità e violenza di genere. Lavora per il Centro Documentazione Handicap ed è caporedattrice di BandieraGialla, un giornale online di informazione sociale.

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“Certo non è stato un episodio piacevole, ma ho imparato che le molestie possono accadere anche alle donne con disabilità, nonostante non rientriamo nell’immaginario di femminilità e sensualità”, commenta Alpi. “Da bambine cresciamo con il ritornello del ‘chi vuoi che ti prenda, nessuno ti vorrà sposare, non potrai avere figli’: questa già di per sé è una violenza”. Quello che serve allora è un cambiamento culturale, che faccia sì che la donna con disabilità non venga più considerata come un essere asessuato: deve avere accesso all’educazione sessuale, ai servizi ginecologici e ostetrici, e deve poter aumentare la consapevolezza del proprio corpo. Proprio come tutte le altre.

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(Immagine copertina via Pixabay)

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