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Vilipendio al Capo dello Stato e reati di opinione

23 Maggio 2013 6 min lettura

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Vilipendio al Capo dello Stato e reati di opinione

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Le modifiche al codice penale in materia di reati di opinionealzano il tasso di democrazia del Paese”. Era il 25 gennaio del 2006 quando il Ministro della Giustizia pronunciava queste parole, riferendosi alla riforma appena approvata con la legge n. 85/2006, e che cancellava “per la prima volta nella storia della Repubblica una serie di reati che ormai nulla avevano a che fare con la libertà di pensiero e di opinione che caratterizza uno stato democratico”.

La riforma proseguiva su un cammino già intrapreso da tempo, e rispondeva all'esigenza di adeguamento delle norme penali in materia di reati di opinione, ritenuti l'effetto di una concezione politico-ideologica da tempo superata ed incompatibile con il nuovo assetto di valori delineato dalla Costituzione. La stessa Commissione Grosso (costituita per la riforma del codice penale) aveva auspicato l'eliminazione, o quantomeno la correzione delle dette figure di reato, poiché sganciate da una tangibile offesa ad interessi protetti.

Oggi il dibattito sui reati di opinione torna alla ribalta a seguito di una proposta di legge che mira ad eliminare il reato di vilipendio al Capo dello Stato. Senza entrare nel merito del caso specifico, per il quale sarà la magistratura a giudicare, ci sembra utile inquadrare la problematica.

Reati di opinione
La categoria dei reati di opinione ricomprende il vilipendio (es. contro la religione), l'apologia, la propaganda (es. quella razzista). I reati di opinione in realtà puniscono non l'opinione in sé (fortunatamente non è ancora possibile condannare per i pensieri formulati) bensì la comunicazione dell'opinione a terzi. Tali reati sono content based, cioè sono puniti per il contenuto del messaggio che è critico e non meramente narrativo od informativo, e non invece per le conseguenze che hanno sul mondo fisico (come ad esempio per la minaccia e l'istigazione). Sono reati che tutelano esclusivamente valori morali, spirituali, ideali o sentimenti intesi come valori collettivi e sovra-individuali, cioè riconducibili alla società intera (o perlomeno alla maggioranza della società), a differenza dei reati che tutelano valori del singolo (diffamazione). Non necessariamente ricomprendono ipotesi di opinioni sprezzanti, offensive, ma possono riguardare anche opinioni del tutto inoffensive. In questa prospettiva è intervenuta parzialmente la riforma del 2006 riformulando alcuni reati con connotazione maggiormente specifica.
Altra peculiarità della categoria è l'indeterminatezza delle singole fattispecie, formulate in maniera generica con termini che spesso sono mere parafrasi del nome del reato (vilipendio=vilipendere cioè dileggiare qualcuno). Sono reati che soffrono di vaghezza congenita e difficoltà di determinazione.

I reati di opinione non sono altro che derivati dei vecchi delitti di lesa maestà, e quindi comportamenti che turbano direttamente o indirettamente il prestigio delle istituzioni e quei valori morali tipo l'idea di nazione, l'obbedienza alle leggi statali, il prestigio dello Stato, ecc... di cui era espressione il vecchio codice Rocco.
Oggi, però, al centro dell'ordinamento non vi è più l'idea di Stato sovrano bensì l'individuo nella sua dignità e con tutti i suoi diritti.

Libertà di manifestazione del pensiero
Considerato che i reati di opinione vietano l'espressione di un certo contenuto di pensiero e lo vietano proprio in quanto viene comunicato quel contenuto di pensiero, tale categoria appare in contrasto con l'art. 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
L'articolo 21 tutela la libertà di manifestazione del pensiero, non escludendo però che lo Stato abbia il potere di regolamentarla. In altri termini il legislatore non ha il potere giuridico di vietare una condotta solo perché questa comunica un certo messaggio o una certa idea, a meno che tale condotta non sia produttiva di effetti nel mondo fisico o giuridico, per cui l'opinione potrebbe essere vietata proprio in relazione agli effetti conseguenti.
Ad esempio, la comunicazione del proprio pensiero ad alta voce nel cortile del condominio alle 3 di notte è vietata in quanto disturba il riposo degli altri (659 c.p.).

L'articolo 21 non tutela, inoltre, le comunicazioni che non corrispondono al “proprio” pensiero o alle proprie convinzioni e valutazioni. In tal modo determinate comunicazioni possono essere incriminate. Se producono degli effetti sul mondo esterno (es. falsificazione di atti).

Sensibilità collettiva
I reati di opinione, quindi, non aggrediscono il bene giuridico di un singolo individuo (come nell'ingiuria la dignità della persona) quanto piuttosto la lesione tocca un valore collettivo. La sensibilità collettiva in realtà non è altro che la somma delle singole sensibilità, ma l'aggressione ad un bene collettivo è sempre più sfumato.
L'aggressione è più marcata nel caso sia diretta al singolo (“Tizio è un delinquente”) piuttosto che ad una categoria o razza (“gli immigrati sono delinquenti”). L'offesa alla razza o alla categoria si presta ad una lettura che non necessariamente coinvolge l'immigrato Tizio o Caio. Si tratta di una generalizzazione. Chi esprime una tale opinione non può avere conoscenza specifica di tutti gli immigrati, per cui la sua affermazione è palesemente falsa.

Lo stesso discorso si può fare con la bandiera. È evidente che lo sputo sulla bandiera coinvolge il singolo italiano in misura marcatamente inferiore che se lo sputo fosse stato diretto a lui personalmente.
Per cui la categoria dei reati di opinione riguarda l'offesa ad un'idea, un valore sovra-individuale, collettivo, come il prestigio dello Stato o di una istituzione statale.

Valori sovra-individuali
Sorge, quindi, l'esigenza di raccordare la tutela di tali valori collettivi con la tutela della libertà di espressione di cui all'art. 21 Cost. Cioè, il mero fatto di avere un'opinione (e comunicarla a terzi) contrastante con i valori sovra-individuali e collettivi, può giustificare una restrizione della libertà di espressione?
Anche ammettendo che alcuni valori collettivi abbiano una rilevanza costituzionale, si deve valutare se quei valori possono essere danneggiati dall'aggressione realizzata esprimendo una mera opinione che non ha alcuna conseguenza sul piano fisico.

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In realtà, mentre la dignità di un singolo viene lesa da una diffamazione, un valore collettivo, invece, non può essere danneggiato dalla mera espressione di un'opinione contraria a quel valore. Il vilipendio non danneggia il prestigio della Repubblica laddove tale prestigio dipende dalla capacità della Repubblica, e di qualsiasi sua istituzione, di autolegittimarsi agli occhi dei cittadini attraverso la sua azione politica.
In uno stato democratico il rispetto per le istituzioni e la forza della legge dipendono non da un'imposizione forzata, bensì dalla realizzazione delle condizioni per la diffusione dei valori democratici. Tanto maggiore è il rispetto per le istituzioni quanto più è tutelato il cittadino e i suoi diritti!

Paradossalmente uno Stato che, al fine di tutelare il rispetto per le proprie istituzioni, procedesse ad una restrizione della libertà di manifestazione del pensiero, otterrebbe proprio l'effetto opposto: diminuire il rispetto per lo Stato, mostrando non autorevolezza bensì autoritarismo!
La libertà di espressione è, infatti, uno dei valori fondanti di ogni democrazia, ed è tutelata da numerose norme nazionali ed internazionali. La sua restrizione, giustificata con la necessità di reprimere una condotta che non ha alcuna capacità di danneggiare il valore sovra-individuale, non è accettabile in un sistema democratico. Una tale restrizione, infatti, andrebbe addirittura a ledere la dignità dei singoli cittadini nonché la capacità di partecipare alla gestione della cosa pubblica esercitando la sovranità popolare come previsto dalla Costituzione.
Pensarla diversamente vuol dire ritenere che la libertà di espressione è il diritto di dire solo ciò che è “giusto”, laddove la giustezza sarebbe decisa immancabilmente da chi in quel momento detiene il potere, e diverrebbe niente altro che l'inaccettabile repressione dei valori delle minoranze. Tutto ciò che è condiviso dalla società, intesa come maggioranza, sarebbe accettato ed esprimibile, ciò che è contro-valore sarebbe perseguito e punito.
La tutela del dissenso, invece, è essenziale alla tenuta democratica di un ordinamento, indipendentemente dai modi, perché quanto più si è minoranza tanto più è difficile farsi ascoltare. In un'epoca di sovra-informazione e sovraesposizione mediatica certe volte non si può fare a meno di scegliere espressioni dal forte impatto emotivo: talvolta l'unico modo attraverso cui una minoranza può farsi udire.

Molti dei reati di opinione sono già stati espunti dal nostro ordinamento, altri riformulati nel corso degli anni. Alcuni permangono, ma sono stati salvati dalla Corte Costituzionale solo perché ha ritenuto che tali reati non erano a tutela di valori sovra-individuali, ma piuttosto intesi a prevenire il pericolo di “ingiustificate disobbedienze”, o invocando il pretesto della sicurezza dello Stato. Con ciò riconfigurando i detti reati e legittimando l'idea che la protezione di valori sovra-individuali non ha più molto spazio nel nostro ordinamento.

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