I videogiochi e il loro impatto: i nuovi sviluppi della ricerca oltre gli allarmismi
10 min letturadi Tiziana Metitieri e Viola Nicolucci
Le devianze comportamentali e gli atti autolesivi nei più giovani sono ancora sistematicamente attribuiti da molti media alle nuove tecnologie siano essi smartphone, social o videogiochi. Eppure, a convalidare questo nesso, non si rintracciano né prove fattuali nei singoli episodi coperti da una cronaca spesso sensazionalistica né solide evidenze scientifiche.
Cosa diremmo se oggi sentissimo proclamare che “l’aumento della violenza giovanile va di pari passo con l’aumento della distribuzione dei fumetti?”. Non esiteremmo a urlare al ridicolo, dal momento che i fumetti fanno ormai parte della nostra cultura, sono una diffusa modalità di acquisizione di conoscenze, una forma d’arte e di comunicazione e su di essi e sui loro personaggi sono state costruite industrie editoriali e cinematografiche.
Tuttavia, neppure per i fumetti la vita è stata facile al loro esordio, proprio come accade per i videogiochi e altri prodotti digitali. Tra gli anni 1940 e 1950 ci furono vere e proprie crociate contro i fumetti da parte di educatori, religiosi, intellettuali, clinici e ricercatori contro i rischi di violenza, perversione e dipendenza di passaggio verso altre droghe.
“Tutti i bambini tossicodipendenti e tutti i bambini coinvolti nel traffico di stupefacenti, con i quali abbiamo avuto contatti, erano lettori incalliti di fumetti"
Le due frasi virgolettate furono scritte dallo psichiatra Friedric Wertham, che fu tra i più agguerriti anti-fumetti ed era ossessionato dalle perversioni di Superman, Batman e Wonder Woman. Con il simposio sulla psicopatologia dei fumetti nel 1948 di cui fu promotore e il libro "La seduzione dell’innocente" del 1954, condizionò il dibattito pubblico e contribuì a promuovere legislazioni restrittive sulla vendita dei fumetti e dichiarazioni allarmistiche da parte di organizzazioni di genitori, insegnanti e di tutela dei minorenni.
Appare paradossale che oggi si reclamino le stesse restrizioni per i telefonini, facendo proprio il confronto con i fumetti ritenuti meno dannosi.
Ci si può chiedere su quali dati basò le proprie tesi Wertham che era un clinico, uno psichiatra che seguiva centinaia di persone di ogni età presso la sua clinica, assieme ai suoi collaboratori.
Un’analisi dei suoi documenti, condotta dalla storica dei fumetti Carol Tilley nel 2012, ha rivelato in modo dettagliato che il libro di Wertham si basa su distorsioni, falsificazioni e alterazioni di informazioni cliniche e di dati che non erano passate inosservate ad alcuni dei suoi colleghi e colleghe dell’epoca. Wertham eluse le perplessità e le richieste di chiarimenti, trincerandosi nella riservatezza dei documenti clinici.
Per Tilley, Wertham cercò di spostare “la responsabilità per i disturbi comportamentali e altre patologie dei giovani dal più ampio contesto sociale, culturale e fisico della vita di questi bambini al passatempo ricreativo della lettura di fumetti”.
Quello che il caso Wertham ci insegna è, dunque, che dietro gli allarmi ingiustificati per l’impatto sulle menti giovanili dei nuovi prodotti di ogni epoca si celano, assieme alle false prove frettolosamente confezionate, i tentativi di spostare l’attenzione dalla società all’individuo per interpretare i fenomeni psicologici e sociali complessi propri di un’epoca.
Quali che siano le motivazioni, dal prestigio personale ai conflitti di interesse, le cattive pratiche per la dimostrazione degli effetti negativi delle nuove tecnologie continuano a perpetrarsi.
Le cattive pratiche nella ricerca sui videogiochi
Alcuni settori di ricerca, come quelli interessati al rapporto tra videogiochi e violenza, sono risultati particolarmente vulnerabili alla manipolazione di dati e informazioni. Sono ormai noti i gruppi che si sono maggiormente accaniti nell’associare i videogiochi a comportamenti violenti o autolesivi.
Nel 2012 Jodi Whitaker pubblicò con Brad Bushman uno studio in cui si sosteneva che i videogiochi “violenti” insegnassero a usare le armi. Una coppia di ricercatori nel campo dei videogiochi e delle metodologie di ricerca, Malte Elson e Patrick Markey, notò irregolarità nelle analisi statistiche dei risultati e le segnalò. Lo studio venne ritirato e a Whitaker fu revocato il dottorato.
L’università di Brad J. Bushman, la Ohio State University, mise allora sotto inchiesta Elson e Markey, accusandoli di essersi impossessati dei dati della ricerca in modo improprio. I due ricercatori vennero poi riconosciuti non colpevoli, ma le ritorsioni subite per aver segnalato scorrettezze in ambito accademico li lasciarono con un profondo senso di amarezza.
Bushman, docente di Comunicazione, ha alle spalle una storia di studi su videogiochi e violenza. Nel marzo 2020, assieme al suo gruppo, ha preregistrato uno studio sugli stereotipi, in cui l’ipotesi è che giocare a videogiochi violenti nei panni di un avatar con tratti arabi/musulmani - che gli stereotipi associano a terroristi - possa sollecitare più aggressività nel gioco rispetto alla stessa esperienza nei panni di un personaggio bianco.
Alla comunità scientifica non è sfuggito però che l’autore abbia pubblicato a posteriori un’appendice in cui dichiara che la pandemia da COVID-19 non consente di proseguire la ricerca di persona. Per questo motivo, i ricercatori analizzeranno i dati preliminari su soli 174 dei 384 soggetti preventivati. Qualora i risultati supportassero le ipotesi della ricerca allora questa sarà pubblicata. Se invece le ipotesi non fossero supportate dai dati, la ricerca verrà interrotta definitivamente.
Si tratterebbe di una scelta non trasparente: cioè, nel caso i risultati non dimostrassero che nei videogiochi violenti avere un avatar arabo renda più aggressivi rispetto a un avatar bianco, quei dati non arriverebbero mai alla comunità scientifica e, attraverso i media, al pubblico. Quando risultati scientifici, che non soddisfano le ipotesi dei ricercatori, non vengono pubblicati per scelta dei medesimi o delle riviste scientifiche, ne soffre la rappresentazione della realtà, che diventa parziale.
Bushman ha una lunga lista di articoli problematici, come si può rintracciare in una ricerca su Retraction Watch, alcuni dei quali sono già stati ritirati dalle riviste in cui erano stati pubblicati per evidenti errori metodologici.
Nel 2020, Mohammed Mamun e colleghi, guidati da Mark Griffiths – un professore di psicologia particolarmente prolifico negli studi sulle dipendenze - hanno pubblicato un articolo in cui presentano tre casi di suicidio avvenuti in Pakistan. Le vittime erano tutte videogiocatori tra i 16 e i 20 anni. Gli autori associano questi suicidi al videogioco PUBG (Player Unknown’s Battlegrounds), survival game che si gioca in modalità multiplayer online.
Peter Etchells e altri studiosi di nuovi media hanno rilevato la gravità di una tale pubblicazione e inviato all’editore della rivista una lettera dal titolo: “I ricercatori dovrebbero evitare di attribuire le cause di suicidio ai videogiochi come unico fattore”.
Nella lettera vengono sollevate una serie di preoccupazioni relative all’articolo di Mamun, Griffiths e colleghi. In particolare, i dati presentati non sono stati raccolti direttamente dagli autori ma sono stati semplicemente ripresi dalle notizie dei telegiornali, senza alcuna prova dei nessi casuali presentati. Inoltre, sono presenti violazioni etiche nella descrizione del suicidio, ad esempio sono forniti dettagli specifici. L’articolo manca anche di rigore scientifico: casi di cronaca vengono presentati come fossero casi clinici, confondendo i lettori. Con questi presupposti, quale può essere il valore aggiunto dello studio di Mamun e colleghi al nesso tra videogiochi e suicidio?
Allo stesso modo, le notizie su temi delicati come il suicidio, quando vengono pubblicate dalla stampa generalista senza tenere in considerazione linee guida ed etica, possono avere conseguenze sul pubblico. Se poi quelle stesse notizie trattate con inappropriata superficialità diventano l’oggetto di pubblicazioni scientifiche il circolo vizioso del panico morale si autoalimenta.
I nuovi sviluppi della ricerca sui videogiochi
Se mettiamo da parte il rumore degli allarmismi, la ricerca su come i videogiochi possano avere un impatto sulla salute è ancora agli inizi. Si tratta di un tema complesso che deve tener conto di molteplici fattori individuali, contestuali e tecnici, nonché di tempi lunghi di verifica e analisi. L’aspetto più intrigante e promettente è l’interazione tra ricercatori e sviluppatori, in modo da adattare le specificità di un videogioco a determinati tipi di pubblico e a obiettivi definiti.
Bisogna essere altrettanto cauti con le promesse che videogiochi generici migliorino l’attenzione, la memoria e i disturbi di lettura. Anche queste promesse, come gli allarmi, si basano su studi poco affidabili nel metodo. Senz’altro i videogiochi rappresentano un mezzo di comunicazione che aiuta genitori e insegnanti preparati a mantenere relazioni con figli, alunni e studenti anche in situazioni di crisi e che può diventare per psicoterapeuti specialisti un ulteriore strumento di identificazione delle cause sottostanti un disagio che si può manifestare con il ritiro sulla propria console e la trascuratezza di altre attività quotidiane.
Per comprendere meglio gli effetti dei videogiochi sui giocatori, Johannes e colleghi hanno recentemente pubblicato un corposo studio che ha analizzato i dati sul comportamento di gioco di un campione di videogiocatori giovani adulti. La novità di questo studio è che non si basa soltanto sui giudizi soggettivi, come quasi tutta la ricerca nel settore, ma ha ottenuto i dati di telemetria dei videogiocatori, in forma anonima, direttamente da due case di produzione, Electronic Arts e Nintendo of America.
I giochi utilizzati nella ricerca sono stati rispettivamente Plants vs Zombies: Battle for Neighborville (gioco sparatutto in terza persona) e Animal Crossing: New Horizons (gioco di simulazione). Questo studio ha trovato una piccola correlazione tra attività di gioco e benessere. I media hanno immediatamente tradotto i risultati della ricerca in “i videogiochi fanno bene”, ma c’è molto altro.
Secondo questo studio:
• Un tempo di gioco più lungo è associato a maggior benessere psicologico.
• Il tempo speso di fronte ai videogiochi non è associato a disagio psicologico.
• La collaborazione tra l’industria e la ricerca indipendente è possibile nel rispetto degli standard accademici e dell’etica. Questa è una svolta epocale, che consentirà di accedere a dati reali e potrà fare chiarezza su molti dubbi.
• Ci sono evidenze sul legame tra gaming e salute mentale utili ai decisori politici.
Sono miliardi i videogiocatori in tutto il mondo e sia che i videogiochi abbiano effetti positivi o negativi sul benessere, questo potrebbe avere un impatto globale.
L’uso eccessivo di video games è stato considerato uno dei criteri principali della definizione della dipendenza da videogiochi, che non ha una caratterizzazione clinica. A fronte di questi ultimi e importanti dati, regolare l’attività di gaming in base al tempo potrebbe non portare i benefici attesi. Sempre più dati ci informano che i video games possono avere benefici sulla salute mentale della popolazione e ridurre quest’attività equivarrebbe a limitare un’opportunità di benessere. Johannes, Vuorre e Przybylski mantengono una rigorosa cautela nelle conclusioni e intendono comunque approfondire questi risultati indagando quali effetti hanno sulla salute generi di videogiochi e modelli di business differenti.
Tuttavia, un percorso promettente che tiene fuori entusiasmi e allarmi è stato tracciato.
Sono poi i videogiochi sviluppati con obiettivi clinici, diagnostici e terapeutici, a rappresentare la nuova frontiera delle applicazioni alla salute e delle grandi collaborazioni tra industria, università e sistema sanitario. Due esempi noti degli ultimi anni sono Endeavor RX, il primo videogioco per il trattamento del Disturbo da deficit di attenzione-iperattività (DDAI o ADHD dall’inglese Attention Deficit-Hyperactivity Disorder), approvato dall’ente governativo statunitense Food and Drug Admninistration (FDA), che accredita i prodotti alimentari e farmaceutici, e Sea Hero Quest, un videogioco che raccogliendo i dati sulle capacità di navigazione generati durante le varie attività permette di identificare i segni di esordio di malattie degenerative come le demenze.
La FDA ha autorizzato la vendita di Endeavor RX a giugno 2020 per migliorare le capacità attentive nei bambini e nelle bambine con diagnosi di DDAI aventi un’età compresa tra 8 e 12 anni. Il videogioco è inteso come ulteriore strumento da integrare al programma terapeutico che già prevede interventi comportamentali, educativi e in alcuni casi farmacologici. Endeavor RX è il nome commerciale di AKL-T01, il cui utilizzo a casa per 25 minuti al giorno, 5 giorni a settimana per 4 settimane, nel campione selezionato di bambini (180 di cui il 69% maschi) con DDAI si è dimostrato efficace nel migliorare l’attenzione e il contrasto delle interferenze rispetto a un videogioco di parole non mirato alle capacità attentive e che era stato assegnato al campione di controllo (168 bambini di cui il 73% maschi).
I benefici alla fine del trattamento sono stati riportati dai genitori in questionari strutturati e sono stati anche osservati a un test computerizzato delle funzioni attentive. Al momento, il videogioco è disponibile negli Stati Uniti solo per Apple, ha un costo di 450 dollari per 3 mesi di trattamento e per richiederlo è necessario farlo attraverso lo specialista clinico di riferimento per poi essere inseriti in una lista d’attesa. Siamo ancora lontani da un’applicazione più estesa che permetta anche di identificare se il videogioco sia più efficace in sottogruppi di bambini con DDAI aventi specifiche caratteristiche cliniche, per quanto tempo si protraggano i suoi effetti e se i benefici siano generalizzati e quindi abbiano un impatto anche su altre attività quotidiane. Questi ulteriori dati permetteranno di rendere il videogioco (o altri che auspicabilmente saranno sviluppati) accessibile a tutti e quindi dispensato dai centri di riferimento per i DDAI del sistema sanitario nazionale con prescrizioni, ticket e esenzioni.
Sea Hero Quest ha ormai coinvolto più di 4 milioni di persone in tutto il mondo, è stato sviluppato anche in realtà virtuale e deriva da una collaborazione del 2016, finanziata da Deutsche Telekom, tra l’azienda inglese Glitchers, le università UCL e East Anglia e l’associazione Alzheimer’s Research UK. I due neuroscienziati Michael Hornberger e Hugo Spiers hanno coordinato il lavoro di diversi altri collaboratori per il disegno del videogioco, basandosi sulle conoscenze più recenti dei processi di navigazione spaziale, quindi su come noi ci muoviamo in un determinato ambiente. Ogni nostro spostamento richiede capacità percettive e attentive, il riferimento a più rappresentazioni dello spazio e quindi il movimento vero e proprio. Disponibile in più lingue fino al 2019 per Apple e Android, Sea Hero Quest ha permesso di raccogliere in poco tempo una complessità di dati che con i metodi tradizionali avrebbe richiesto diversi secoli. I ricercatori hanno iniziato ad analizzare quei dati e i primi risultati dimostrano l’affidabilità di diversi parametri del videogioco nel rilevare, nelle persone a rischio con un’età media di 64 anni, i segni di declino cognitivo che saranno evidenti diversi mesi dopo agli esami neuropsicologici.
Ci sono molte strade da esplorare, investendo energie e risorse sulle applicazioni delle nuove tecnologie che hanno già cambiato le nostre vite e possono diventare anche uno tra i vari strumenti per migliorare la salute e specifiche condizioni cliniche. L’importante è che si continui a fare ricerca anche dopo che il rumore dell’allarmismo sarà estinto come invece è già accaduto in passato per i fumetti, la televisione e così via.
Rendere accessibili a tutte le persone i videogiochi e i dispositivi resta una priorità se non si vuole continuare a escludere sistematicamente una consistente quota di popolazione dalle possibili opportunità.