Il video della morte di Ramy Elgaml e il disonore di Stato
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Quando dalla cronaca una notizia porta alla ribalta possibili abusi delle forze dell’ordine, c’è una domanda che diventa fondamentale: “Che cosa è successo?”. Quando poi la cronaca di questi episodi si tinge di nero, la risposta non può mai essere semplice o indolore: i cadaveri non lo sono mai. Né può mai essere solo personale o solo collettiva.
Nel primo caso è impossibile proprio perché chiama in causa l’operato delle forze dell’ordine, e quindi dei doverosi processi di trasparenza. Nel secondo caso perché c’è l’elemento umano di chi ha subito una perdita, anche se non sempre se ne tiene conto nella copertura mediatica e nel dibattito pubblico. Ma la risposta a questa domanda, in teoria, è una garanzia per tutte le parti coinvolte.
La morte di Ramy Elgaml, avvenuta lo scorso 24 novembre dopo un inseguimento con un’auto dei carabinieri, chiede che si risponda proprio a quella domanda, e la ricerca della risposta si è da poco caricata di nuovi elementi. Martedì il Tg3 e il Tg di La7 hanno infatti mandato in onda un video ripreso dall’auto dei carabinieri che rivela dettagli inediti.
Al Tg3 il video ripreso dall'auto dei carabinieri dell'inseguimento di Ramy morto a Milano durante la fuga il 24 novembre. Le immagini dell'impatto. Le frasi choc dei militari pic.twitter.com/y7de8EOTlV
— Tg3 (@Tg3web) January 7, 2025
Oltre alle frasi di uno dei carabinieri (“chiudilo, chiudilo che cade! No, merda, non è caduto”), viene vista e commentata la perdita del casco di uno dei due. E, soprattutto, viene fugato ogni dubbio su come sia caduto lo scooter su cui erano a bordo Ramy Elgaml e Fares Bouzidi. Era questo uno dei grandi interrogativi.
Leggiamo sui giornali parole come “depistaggio”, “favoreggiamento”: altri due carabinieri sono indagati per falso e frode processuale e, per l’appunto, per depistaggio. Nel verbale i militari escludevano il contatto con lo scooter, che era semplicemente “scivolato”, mentre l'auto aveva cercato in tutti i modi di evitare collisioni. Un testimone ha riferito di essere stato costretto da due carabinieri a cancellare un video dal telefonino. Per il vicebrigadiere che quella sera era alla guida la procura starebbe valutando “l’omicidio volontario con dolo eventuale” (resta accusato di omicidio stradale e resistenza a pubblico ufficiale Fares Bouzidi). Leggiamo, oppure ascoltiamo, che ci sono “pochi dubbi” sulle dinamiche del “tamponamento evidente”.
Eppure, accanto a queste parole, ce ne stanno altre, che sono state ripetute nei mesi scorsi e che ancora si continueranno a dire. Politici e commentatori pronti a schierarsi a priori “con le forze dell’ordine”, giornalisti che si affrettano a chiarire come il video di martedì “cambi poco” e come alla fine il problema sia nostro, che dal “salotto di casa” pretendiamo il mondo “più giusto e pulito, la polizia con i guanti bianchi in stile ispettore Barnaby”.
Questo genere di discorsi dà alla domanda “che cosa è successo?” una risposta molto secca: “non sono affari tuoi”. Possono cambiare le circostanze e la gravità dei fatti in esame, ma rimane immutata l’idea che porre quella domanda e cercare risposte attraverso gli strumenti dello Stato di diritto sia un affronto.
Una risposta legata a doppio filo a un certo senso comune, che vuole il morto come qualcuno che se l’è cercata. Se vai in due sullo scooter e non hai il casco, che ti aspetti? Oppure se anche avevi il casco, ma invece di fermarti all'alt scappi a gran velocità per le vie cittadine, non sei tu responsabile per quello che accadde? E se sei un poco di buono, o ti accompagni a dei poco di buono, che pretendi? La colonna infame di questo senso comune va indietro nel tempo e negli anni, e ci ricorda che Stefano Cucchi era un “drogato”, così come Federico Aldrovandi. Mentre per i morti di Stato razzializzati, alla fine, basta una spruzzata di xenofobia e razzismo, a ricordare che sono di una pasta diversa. Un male che non è certo solo italiano. Anche per George Floyd, infatti, nonostante i video c’è chi ha sostenuto che fosse morto per problemi di droga, o per motivi di salute.
Insomma, vale tutto, purché si riesca ad affermare uno Stato del non-diritto: la colpevolezza è una condizione che non richiede prove perché connaturata, e la morte del colpevole così giudicato è un destino che si è compiuto. Perché le forze dell’ordine dovrebbero essere responsabili dell’altrui destino? E se proprio difendere l’indifendibile non è possibile, si può sempre parlare di “poche mele marce”.
Ma questo, del resto, è il paese dove è in agenda la cancellazione del reato di tortura, perché “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”: lo scriveva Meloni nel 2018, in un tweet poi cancellato e che a distanza di anni è diventato il presagio di ciò avremmo vissuto. In nome della sicurezza, che vive di percezione e non di dati, si offrono nuove garanzie e nuove impunità per reprimere, fino a criminalizzare la resistenza passiva.
Perciò a quel “fatti i fatti tuoi”, si accompagna sempre un altro messaggio, ben più sinistro: “ringrazia che non è toccato a te”. E un ammiccamento alle forze dell’ordine, come a dire: “continuate pure, tranquilli”. Pezzi di istituzioni che si proteggono a vicenda, in un patto sociale tra pochi all’insegna dell’impunità e dell’omertà.
Del resto, proprio sul reato di tortura, nel 2015 Luigi Manconi scriveva un articolo che illumina ancora a distanza di anni la parte più opaca del rapporto che i cittadini, politici e giornalisti compresi, hanno con le forze dell’ordine: la paura. Manconi si chiedeva come mai in Italia fosse così difficile approvare una norma di civiltà che ci vedeva in ritardo di ventisette anni rispetto alla Convenzione ONU sulla tortura che avevamo ratificato. Scriveva Manconi:
Perché l’Italia, dopo ventisette anni dalla ratifica della convenzione dell’Onu, non ha ancora introdotto nell’ordinamento il reato di tortura? La prima risposta è semplicissima. Perché la società italiana nel suo complesso – classe politica compresa – ha paura della polizia. Sì, è proprio così. Non teme le forze di polizia in quanto strumento di repressione della illegalità e del crimine e in quanto titolari esclusivi del monopolio legittimo della forza. Se così fosse, ad averne timore sarebbero solo coloro che vivono nella illegalità e nel crimine (tutto sommato una piccola percentuale di cittadini).
Il fatto grave, che spiega tante cose e anche la mancata introduzione del reato di tortura, è che resiste nel paese, e nei suoi gruppi dirigenti, una forma diffusa di preoccupazione non per ciò che le polizie, in nome e in forza della legge, possono compiere, ma per ciò che possono compiere contro la legge.
Se volessimo provare, nonostante tutto a perseguire un maggior grado di civiltà, si dovrebbe dire che questa “difesa” delle forze dell’ordine nuoce prima di tutto a loro. C’è un dato significativo al riguardo, che su Valigia Blu avevamo già citato a margine di altre accuse di abusi: il peso statistico che tra le forze dell’ordine hanno suicidi e stress psico-fisico. Dal 2019 al 2023 c’è stato un suicidio ogni sei giorni. Il numero di poliziotti che si è tolto la vita è più del triplo rispetto a quelli morti mentre svolgevano il loro lavoro. Sono dati che dovrebbero far parlare delle condizioni di lavoro, di come un modello di autorità difeso a prescindere danneggi anche chi è chiamato a metterlo in pratica, con strumenti e modalità sempre più feroci. Invece il massimo dell’empatia cui probabilmente può aspirare un agente delle forze dell’ordine è sentire l’ennesimo giornalista che ripete la tiritera di Pasolini e dei poliziotti di Valle Giulia. Faccio davvero fatica a credere che di fronte a dati del genere la risposta sia nel pensare “ah, se solo potessi torturare, speronare o sparare di più sarei meno stressato”.
E che dire poi di quegli agenti che hanno collaborato a rispondere alla domanda fatidica “che cosa è successo”? Chi sono i servitori dello Stato, chi onora la divisa in casi del genere? Per la morte di Stefano Cucchi la testimonianza del carabiniere Riccardo Casamassima permise la riapertura del caso. Va considerato un membro delle forze dell’ordine da difendere “senza se o senza ma” oppure questo onore spetta ad altri suoi colleghi? Domanda tutt’alto che provocatoria, visto che all’epoca denunciò anche di essere stato trasferito e demansionato, e di aver subito minacce.
Ma proprio per tutto quanto è stato detto finora bisogna continuare a porre la domanda “che cosa è successo?”: la risposta collettiva passerà inevitabilmente per procure e tribunali, una strada lunga, in salita e piena di ostacoli. Lo sa bene la famiglia della vittima, che per bocca del padre di Ramy, Yehia Elgaml, continua a dichiarare la propria fiducia nella giustizia italiana. “Ieri sera è stata la prima notte che ho dormito bene, tranquillo”, ha detto a proposito della pubblicazione del video, pur con la rabbia suscitata dalle immagini: "ho visto mio figlio morire una seconda volta".
(Immagine anteprima: frame via YouTube)