Elezioni, brogli, repressione: cosa sta succedendo in Venezuela
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Lunedì e martedì il Venezuela è stato attraversato da manifestazioni organizzate e spontanee contro i risultati diffusi dal Consiglio Elettorale Nazionale (CNE), che ha annunciato la rielezione di Nicolas Maduro, il candidato della sinistra chavista che governa il paese dal 2013. Secondo quanto riportato da quattro ONG venezuelane, almeno 11 persone sono morte durante gli scontri con le forze dell’ordine. I manifestati sostengono che il risultato finale delle elezioni di domenica 28 luglio sia chiaramente truccato. Questa tornata elettorale aveva infatti riacceso le speranze di molti sostenitori dell’opposizione, che a differenza del 2018, si presentava con un candidato unitario e l’obiettivo di porre fine a 25 anni ininterrotti di esecutivi chavisti dopo oltre un decennio di collasso economico del paese.
L’immagine più emblematica delle mobilitazioni è probabilmente l’abbattimento della statua dell’ex presidente Hugo Chavez nella città di Coro, a 450 km dalla capitale Caracas, il cui video è diventato rapidamente virale. Una scena inconcepibile fino ad alcuni anni fa.
La Missione internazionale indipendente di monitoraggio dell’ONU ha documentato proteste in almeno 17 dei 23 Stati che compongono il paese, oltre che nel distretto capitale. “Abbiamo ricevuto informazioni credibili su arresti, persone ferite e morte, così come su violenze scatenate da parte di corpi di sicurezza dello Stato e di civili armati che appoggiano al governo (conosciuti come colectivos)”, ha denunciato l’ONU. Il 30 luglio, inoltre, Freddy Superlano, coordinatore del partito di opposizione Voluntad Popular, è stato sequestrato. Il partito ha poi denunciato pratiche di tortura nei suoi confronti.
L’indignazione dei sostenitori dell’opposizione ha iniziato a montare lunedì notte. Poche decine di minuti dopo l’annuncio del CNE che dava la vittoria a Maduro, la leader dell’opposizione Maria Corinna Machado aveva infatti contestato i risultati, dichiarando di essere in possesso di almeno il 70% delle schede elettorali e di poter dimostrare che la Piattaforma Unitaria Democratica (PUD) aveva invece ottenuto oltre il doppio dei voti del candidato di governo. “Vogliamo dire a tutti i venezuelani che il Venezuela ha un nuovo presidente eletto ed è Edmundo Gonzalez Urrutia,” dichiarava di fronte alla stampa.
Maduro invece sostiene che le manifestazioni siano un tentativo di colpo di Stato. Secondo il procuratore generale del Venezuela Tarek William Saab, sono almeno 1.062 le persone detenute finora. I leader del governo e dell’opposizione si stanno così incolpando mutualmente delle violenze, mentre il presidente del parlamento ha già chiesto il carcere sia per González Urrutia che per Machado. In una lettera al Wall Street Journal, Machado ha fatto sapere di aver scelto di limitare le proprie apparizioni pubbliche, entrando in clandestinità per tutelare la propria incolumità.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il ballo dei voti e le accuse di brogli
Le elezioni di domenica 28 luglio si sono effettivamente svolte senza un processo di verifica internazionale. A maggio, il CNE aveva infatti revocato l’invito a recarsi nel paese al personale dell’Unione Europea. L’unico ente esterno che ha inviato sette osservatori è stato quindi il Centro Carter, l’organizzazione fondata dall’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter con lo scopo di prevenire i conflitti e promuovere libertà e democrazia nel mondo. Pochi giorni dopo le votazioni, il Centro ha decretato che le elezioni non hanno soddisfatto gli standard internazionali di trasparenza e di conseguenza non possono essere considerate democratiche.
In particola, il Centro ha sottolineato come non abbia potuto verificare i risultati dichiarati dal CNE, evidenziando che, fino a oggi, non sono ancora stati presentati i voti disaggregati seggio per seggio.
Il 30 luglio l’opposizione ha pubblicato online i risultati del proprio contro-scrutinio, secondo cui González avrebbe ottenuto la vittoria con oltre 7 milioni di voti, contro i 3 di Maduro. Sul sito non sono comunque disponibili le ricevute originali delle schede elettorali digitalizzate. Il quotidiano statunitense New York Times ha però potuto esaminare una parte dei risultati grazie a una collaborazione con un gruppo di ricercatori vicini all’opposizione, e ha confermato che il risultato ufficiale non è compatibile con i documenti in loro possesso. E anche il segretario di stato americano Antony Blinken ha parlato di “prove schiaccianti” che rendono evidenti come “Edmundo González Urrutia abbia ottenuto la maggioranza dei voti”.
Non è la prima volta che il processo elettorale in Venezuela è soggetto a forte critiche. Nel paese il voto è elettronico e altamente automatizzato. “Il miglior sistema elettorale del mondo,” secondo il chavismo. Ma, Smartmatic, l’impresa che forniva il servizio tecnico, aveva già denunciato manipolazioni nel processo elettorale per l’elezione dei deputati dell’Assemblea costituente del 2017.
Finora, pochi paesi hanno riconosciuto ufficialmente la vittoria di Maduro. Fra questi, spiccano regimi non propriamente democratici come Cuba, il Nicaragua, la Cina, la Russia o l’Iran.
A pesare sulle future decisioni del governo potrebbero però essere le posizioni espresse dagli altri leader latinoamericani. Mentre la condanna dell’ultralibertista Milei, presidente dell’Argentina, è apparsa scontata, altri governi di sinistra hanno espresso posizioni critiche nei confronti dell’operato di Maduro. Il Brasile, ad esempio, può svolgere un ruolo fondamentale in questa crisi, dato che non si è mai contrapposto al governo venezuelano. Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, infatti, ebbe una relazione molto stretta con Hugo Chávez, e ha inoltre più volte criticato le sanzioni internazionali imposte contro Caracas. Ma proprio Lula ha avuto una telefonata di mezz’ora con il presidente americano Joe Biden, al termine della quale entrambi hanno esortato il Venezuela a pubblicare gli atti ufficiali delle elezioni. Richiesta reiterata anche Gustavo Petro, presidente della Colombia, che ha sottolineato come “uno scrutinio trasparente con conteggio dei voti, atti e con la supervisione di tutte le forze politiche e di professionisti internazionali” possa permettere alle elezioni di terminare in pace.
È presto però per dire quanto questo cambio di attitudine sia radicale. Mercoledì, una risoluzione proposta nella assemblea d’urgenza dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) per chiedere al CNE di pubblicare gli atti ufficiali e al governo di fermare la repressione non è riuscita ad ottenere l’approvazione proprio a causa dell’astensione diplomatica di un gruppo di Paesi, con Brasile, Messico e Colombia in prima fila.
Finora, l’unico passo di Maduro è stato quello di chiedere al Tribunale Supremo di Giustizia - notoriamente legato al suo esecutivo - di realizzare una verifica delle passate elezioni presidenziali. Il Tribunale ha così convocato tutti dieci i candidati presidenziali a un incontro venerdì 2 agosto. González Urrutia e Maduro potrebbero così trovarsi faccia a faccia per la prima volta dopo la tornata elettorale.
Perché queste elezioni erano così importanti in Venezuela
La reazione di molti oppositori di Maduro è dovuta al fatto che queste elezioni sembravano davvero essere l’occasione per porre fine a 25 anni ininterrotti di governo chavista .
La “Rivoluzione Boliviaria” ha infatti assunto il potere nel 1998, quando l’ex comandante dell’esercito Hugo Chavez venne eletto alla presidenza, dove sarebbe rimasto per i successivi 14 anni.
Figura altamente polarizzatrice, Chavez è stato uno dei protagonisti dell’ondata dei governi di sinistra che hanno ottenuto il potere in Sud America durante negli anni 2000, e come nessun altro ne ha estremizzato le contraddizioni. Grazie ai proventi del petrolio, i suoi esecutivi hanno sviluppato enormi programmi sociali, nazionalizzato compagnie private e creato una miriade di imprese statali. Ma è stato anche duramente criticato per aver accentrato il potere, sottomettendo l’apparato giudiziale e creando una vera e propria struttura di controllo parallela a quella statale. Malato di cancro, a fine 2012 annunciò in diretta televisiva che il suo successore sarebbe stato Nicolas Maduro.
Eletto in aprile 2013, Maduro ha governato nel mezzo di una crisi economica senza precedenti. Con il crollo del prezzo del petrolio a seguito della crisi finanziaria del 2012, il paese è infatti entrato in un ciclo di iper-inflazione e aumento insormontabile del debito pubblico, che hanno scatenato un drammatico aumento della povertà. In un’inchiesta sulle condizioni di vita della popolazione, l’Università Cattolica Andres Bello ha infatti stimato che nel 2021 il 94% viveva al di sotto della soglia di povertà.
Questo terremoto economico ha costretto circa 7,7 milioni di venezuelani ad abbandonare il paese. Secondo l’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati, quella venezuelana è la terza crisi globale dopo Siria e Afghanistan.
Per mantenere il controllo di un paese allo sbando, i governi di Maduro si sono distinti per il piglio autoritario ancor di più di quelli del suo predecessore. Tanto che i suoi esecutivi sono oggetto di un’inchiesta della Corte Penale Internazionale per crimini di lesa umanità. Nel 2020, inoltre, il dipartimento di giustizia statunitense indagò diversi membri del governo per narcotraffico, accusandoli di essere parte del cosiddetto “Cartello dei due soli”.
Dal 2015, il Venezuela è così soggetto a una serie di sanzioni internazionali intermittenti. Inizialmente dirette a esponenti in vista, dal 2017 gli Stati Uniti hanno deciso di colpire direttamente l’economia nazionale, impedendo ogni transazione fra persone e imprese statunitensi e il governo venezuelano. Ma il colpo più duro è arrivato un paio di anni dopo, con la sospensione di ogni acquisto di petrolio dalla compagna statale venezuelana PDVSA.
Maduro ha sempre sostenuto che la colpa della crisi fosse da attribuire alla “guerra economica” dichiaratagli da Washington, e non alla cattiva gestione del suo governo e alla corruzione dilagante.
Cosa vuole l’opposizione
Molti venezuelani vedevano quindi queste elezioni come un’occasione per voltare pagine. A differenza delle elezioni del 2018, tutti i partiti dell’opposizione avevano infatti deciso di partecipare alla contesa, eleggendo un candidato unitario. Maria Corinna Machado era uscita trionfatrice alle primarie dello scorso novembre.
56enne ingegnere industriale, Machado è una politica di lungo corso. Considerata una rappresentante dell’ala radicale dell’opposizione, si è sempre definita una liberale, convinta della necessità della riduzione dello stato e del ruolo del libero mercato nella creazione di ricchezza e di lavoro. In passato si era detta favorevole a una soluzione di forza per abbattere il governo di Maduro, ma nel corso dell’ultimo anno ha moderato il suo messaggio. Doveva essere lei a correre per la presidenza, ma a gennaio il CNE ha confermato la sua sospensione dalla possibilità di assumere qualunque incarico pubblico. Una proibizione che si porta avanti dal 2015 per essersi espressa a favore delle sanzioni economiche degli Stati Uniti contro il suo paese. A sostituirla doveva essere la storica Corina Yoris. Inabilitata anche lei dopo alcune settimane.
Ad aprile, la Piattaforma Unitaria ha così scelto Edmundo Gonzalez Urrutia come candidato, Ex diplomatico di 74 anni in pensione, González Urrutia durante la campagna elettorale ha enfatizzato soprattutto il desiderio di riconciliazione nazionale e non ha offerto troppe indicazioni sulle politiche economiche che intende implementare, se non che avrebbe proposto un piano di riforme per attrarre gli investimenti stranieri. Ma è evidente che a galvanizzare gli animi sia stata soprattutto la campagna di Machado, che ha percorso il paese in lungo e in largo.
Martedì, Machado e Gonzalez Urrutia hanno convocato migliaia di persone in piazza per chiedere la consegna dei verbali dello scrutinio, al centro dell’attuale contenzioso.
I verbali vengono redatti tra la chiusura delle votazioni e la trasmissione dei risultati al CNE attraverso delle macchine elettroniche. I testimoni dei partiti politici dovrebbero avere diritto a una copia di questi documenti. Ma l’opposizione ha denunciato molte irregolarità durante la giornata elettorale. L’ONG Osservatorio Venezuelano Elettorale ha infatti riportato ritardi o interruzioni legati a errori meccanici nella trasmissione.
Finora, l’opposizione si sta dunque concentrando nel mettere pressione sul governo affinché pubblichi gli atti ufficiali, secondo quanto hanno dichiarato due fonti anonime all’agenzia Reuters. Allo stesso tempo, c’è anche una diffusa speranza che le pressioni estere e le proteste di strada possano costringere il regime a negoziare.
Ma storicamente entrambe le strategie si sono rilevate fallimentari. Maduro ha infatti già affrontato ondate di proteste nel 2014, 2017 e 2019, senza vacillare. Sull’evoluzione futura della situazione giocherà inoltre un ruolo fondamentale l’esercito venezuelano, che è però considerato fedele all’esecutivo, anche grazie alle molte concessioni fatte negli anni ai generali. Il ministro della difesa ha già sposato la narrazione secondo cui le proteste starebbero di fatto appoggiando un colpo di Stato.
Nel frattempo, Maduro ha apertamente detto di non voler seguire altre forme che non siano quelle costituzionali per “fare la rivoluzione”, “ma se l’imperialismo e i fascisti ci obbligano, non mi tremerò il polso nel chiamare alla mobilitazione popolare.” Ma per ora Machado non si arrende, e ha convocato i venezuelani a una nuova manifestazione di protesta per sabato 3 agosto.
Immagine in anteprima: frame video DW via YouTube