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Un mondo capace di unire i popoli. Perché abbiamo bisogno delle Utopie

10 Ottobre 2016 7 min lettura

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Un mondo capace di unire i popoli. Perché abbiamo bisogno delle Utopie

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di Elena Torresani

In un passaggio così delicato della storia dell’Europa e del Regno Unito, Londra prova a guardare lontano.
Per celebrare i 500 anni de L’Utopia, il grande classico di Sir Thomas More, in cui veniva descritta un'isola immaginaria abitata da una società ideale (per alcuni studiosi idealizzazione di un sistema specularmente opposto all’Europa a lui contemporanea, per altri satira sferzante dell’Europa stessa), la prima edizione della Biennale del Design di Londra, tenutasi dal 7 al 27 di Settembre 2016, è stata dedicata all’ideazione di un mondo capace di avvicinare e unire i popoli. Non un semplice miraggio, ma un’ambizione a cui tendere appassionatamente perché senza pensieri grandi non si può che disporre di un orizzonte striminzito.

Londra, ha dichiarato al Financial Times il curatore della mostra Christopher Turner, si è prestata a essere spazio di incontro, condivisione e diffusione di nuove utopie e contemporaneamente soggetto di una nuova utopia: «come scriveva l’urbanista Lewis Mumford la prima utopia è la città e nella realizzazione delle utopie concorrono design e tecnologie che insieme contribuiscono all’evidente felicità dei suoi abitanti».

Proprio le città sono state il luogo privilegiato in cui immaginare la localizzazione delle utopie, incorporazione in uno spazio delle ideologie o semplicemente delle idee e dei sogni di ogni individuo e società. Luoghi, reali e mentali, dove è possibile dare senso a narrazioni che vanno al di là del disordine e dell’instabilità di ogni giorno. «Si tratta in qualche modo di contro-spazi. I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste eterotopie localizzate. L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta», scriveva Michel Foucault in Utopie Etereotopie.

Le utopie creano le premesse per la crisi dell’idea contemporanea di società e, nella loro ricerca di un altrove, di una terra libera, si fanno rottura dell’equilibrio presente e portano all’evidenza lo scontro tra il vecchio e il nuovo, prefigurando un luogo, uno spazio, in cui ci sia perfetto equilibrio tra gli ideali della società.

Dopo il fallimento di ideologie e politiche, nel bel mezzo di una crisi culturale – prima ancora che economica - che attraversa mezzo mondo, 40 nazioni hanno presentato il loro progetto in cui il design si propone come ponte tra filosofia e ingegneria: sei continenti uniti per mostrare idee, generare innovazione e alimentare un dibattito mirato a rendere il mondo un luogo migliore di quello che è.

I team che hanno partecipato sono stati incoraggiati a creare installazioni che interrogassero la storia dell’idea di utopia e si confrontassero con alcune delle questioni fondamentali che oggi l’umanità sta affrontando, come l’inquinamento, le migrazioni, i conflitti per l’acqua e le disuguaglianze.

La Triennale di Milano ha proposto il progetto “White Flag” dedicato alla bandiera bianca, simbolo di soccorso ma anche di rinascita. L’Italia, che gioca un ruolo così importante nel prestare soccorsi nel Mediterraneo, ha chiesto a venti designer di creare altrettante bandiere bianche da piantare su una mappa geografica del mondo e di sostituirle nel corso della manifestazione con oggetti che in qualche modo trasformassero il salvataggio in vita. Il nostro paese come simbolo dell’incontro potente tra chi chiede aiuto e chi soccorre, senza fermarsi alla generosità come puro dovere etico, ma ricordando che da ogni vita salvata germogliano cose, dietro ogni vita salvata ci sono persone, affetti, storie.

"White Flag", Italia – via LondonDesignBiennale.com
"White Flag", Italia – via LondonDesignBiennale.com

Significativa la scelta della Francia, che ha deciso di presentare il progetto cinematografico di Benjamin Loyauté interamente dedicato ai profughi siriani. L’installazione si compone di un film, che racconta le storie di famiglie di rifugiati che condividono le loro memorie nostalgiche legate ai dolci come momento significativo di quando in Siria non c’era la guerra, e un distributore di caramelle all’ingresso della sala che raccoglie fondi per l’istruzione dei bambini nei campi profughi: riflessione e azione, coscienza e intervento. Un esempio di riflessione su se stessi che passa attraverso ciò che si fa per gli altri, una presa di posizione forte nel bel mezzo di un grande ripensamento interno.

"The Astounding Eyes of Syria", Francia – Foto: Dylan Perrenoud/Benjamin Loyauté Studio – via The Guardian
"The Astounding Eyes of Syria", Francia – Foto: Dylan Perrenoud/Benjamin Loyauté Studio – via The Guardian

La Norvegia lavora sull’accessibilità delle città per coloro che hanno mobilità ridotta, Cuba – dove ci sono solo 135 wi-fi spot - studia delle oasi digitali che ridisegnino lo spazio urbano e permettano a sempre più cittadini di accedere all’informazione.
Israele presenta una pedana che, vibrando a ritmo di musica, permette agli audiolesi di ballare, ma anche l’AIDrop, 3 Kg di beni di primo soccorso inscatolati in un cartone rotante che può essere paracadutato in modo sicuro in aree di bisogno.

Human.Touch, Israele – via Dezeen.com
"Human.Touch", Israele – via Dezeen.com

Ogni progetto parla di inclusione e solidarietà. Taiwan e il Libano propongono il cibo come elemento unificatore, la tavola come luogo di pace, mentre il Pakistan e il Sudafrica individuano il gioco e gli occhi dei bambini come la strada migliore per veicolare gioia e costruire amicizie. Il Pakistan lo fa con seggiolini rotanti in legno e tele dipinte di hennè, il Sudafrica con le meravigliose poltrone sospese di Porky Hefer a forma di pericolosissimi e divertentissimi animali predatori.

"Otium and Acedia", Sud Africa – Foto: Anna Gordon - via Financial Times
"Otium and Acedia", Sud Africa – Foto: Anna Gordon - via Financial Times

La Cina, il Messico e la Spagna parlano invece di Smart City e mostrano la realizzabilità e le grandi performance di città eco-sostenibili e connesse. In due stanze allestite per far provare ai visitatori l’ebbrezza dell’immersione nella realtà virtuale, la città di Santander ha presentato un progetto che si prevede realizzato per il 2100 grazie al quale tecnologie parzialmente già a nostra disposizione riusciranno a dar vita ad una città piacevolmente vivibile, sostenibile dal punto di vista energetico e ambientale.

In una grande stanza buia, il Messico proietta invece “Border City”, il progetto di Fernando Romero dedicato alla città di confine del futuro, abitata da cittadini con doppia nazionalità. Un prototipo urbano ambizioso, immaginato tra Messico e Stati Uniti. Uno dei tanti confini infuocati del mondo, striscia di terra in cui le civiltà si scontrano da decenni, che può diventare terra di fusione e opportunità. L’idea di confine si evolve in libertà di spostamento, trasformandosi grazie alla specializzazione degli spazi e all’ottimizzazione degli spostamenti, allo sfruttamento intelligente delle risorse e all’applicazione di modelli commerciali già avviati con successo in altre regioni di confine.

"Border City", l'Messico - via Dezeen.com
"Border City", Messico - via Dezeen.com

Dopo lo shock degli attentati terroristici e il terremoto del Brexit, Il Belgio prova a solleticare il sentimento europeo dei visitatori chiedendo di contribuire al progetto “EUtopia” con un disegno che rappresenti la loro Europa ideale, tra sogni infranti e voglia di riscatto.

L’Arabia Saudita e gli Emirati, due terre inondate di deserti, puntano l’attenzione sull’acqua, sulla scarsità delle risorse e sul cattivo utilizzo che se ne fa, mentre Austria e Tunisia riflettono sulla necessità di un agire comune. Il bosco luminoso del Mischer'traxler Studio da una parte, e il mare di pali e fili di Chacha Atallah e Haythem Zakaria dall’altra, mostrano come le utopie siano fragili e gli equilibri delicati in mancanza di un obiettivo comune.

"The Wish Machine", l'Turchia – Foto: Ed Reeve - via Guardian
"The Wish Machine", Turchia – Foto: Ed Reeve - via Guardian

Il “butterfly effect” ritorna. Come nel film Babel, un evento apparentemente lontano da noi può travolgere in un batter d’occhio tutto ciò che ci riguarda e, se è vero che i progetti presentati rispecchiano talvolta in modo evidente l’identità di ogni singola nazione, è altrettanto vero che è piuttosto semplice trovare sentimenti affini, valori fondanti comuni, aspirazioni che si assomigliano in ogni parte del globo.

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Lo ha raccontato bene la Turchia, con la sua macchina dei desideri, in cui un sistema di posta pneumatica convoglia le speranze di tutti quelli che vogliono affidarle un sogno. O l’Indonesia, che con un’installazione estremamente suggestiva ha ricordato la conferenza del 1955 in cui 29 paesi asiatici e africani firmarono un impegno per la pace in nome del loro milione e mezzo di abitanti.

Un coro di voci diverse ma complementari si sono alzate accorate dal cuore di Londra per restituire visione a chi l’ha persa, tracciando una strada percorribile e disegnando un orizzonte che dobbiamo concederci il lusso di non perdere mai di vista.

[Immagine in anteprima via Bobos.it]

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