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I bianchi dovrebbero smetterla di dire ai neri come protestare

8 Giugno 2020 25 min lettura

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I bianchi dovrebbero smetterla di dire ai neri come protestare

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23 min lettura

Due minuti e 53 secondi. Il poliziotto blocca il collo di George Floyd per oltre 8 minuti mentre Floyd lo implora più e più volte "Non riesco a respirare". E poi continua a pressare il ginocchio sul suo collo, anche per gli ultimi due minuti e 53 secondi quando Floyd non risponde più, non respira più, non implora più. Gli occhi riversi, la schiuma dalla bocca.

Il poliziotto continua a tenere il suo ginocchio sul collo di Floyd mentre la folla intorno grida: lo stai uccidendo, lo hai ucciso.

E lui li guarda compiaciuto, con aria di sfida. Questo mio ginocchio sul collo di questo uomo nero ammanettato, inerme, disarmato con il volto schiacciato sull'asfalto è il mio potere, di uomo bianco, superiore, che il sistema stesso mi permette di esercitare. Di questo uomo nero, arrestato, inerme posso decidere vita o morte e non pagarne le conseguenze.

Il poliziotto continua a tenere il suo ginocchio sul collo di Floyd mentre chiamano l'ambulanza e continuerà a farlo quando l'ambulanza arriva. Toglierà quel ginocchio dal collo di Floyd solo quando un paramedico sceso dall'ambulanza lo prende per un braccio e gli dice di spostarsi.

A quel punto girano il corpo di Floyd, la testa penzolante, non dà segni di vita. L'ambulanza sarà il suo carro funebre.

Tra le ultime parole che pronuncerà Floyd prima di morire soffocato: "Mama... Mama".

I poliziotti faranno un rapporto sulla dinamica dell'arresto in parte falso. A denunciare i fatti un video di una ragazza di 17 anni, che subito dopo ha postato le immagini online. Immagini che daranno il via a una lunga e imponente serie di proteste che da Minneapolis si diffonderanno in tutto il paese e che ancora oggi non si ferma.

Leggi anche >> La morte di George Floyd, le proteste, gli infiltrati, la violenza della polizia. Cosa sappiamo sul caso che sta infiammando gli Usa

La morte di Floyd, avvenuta il 25 maggio a Minneapolis nello Stato di Minnesota, per mano della polizia, è solo l'ultimo caso di cronaca di una incessante serie di soprusi e omicidi, spesso impuniti, da parte delle forze dell'ordine. Una violenza di Stato che divora vite umane e diritti delle comunità nere. Da anni. Da decenni. Da secoli.


Due mesi prima, a Louisville, la polizia ha fatto irruzione nella casa di Breonna Taylor, paramedico, nera di 26 anni. Sul caso c'è una indagine. I poliziotti avrebbero fatto irruzione nell'appartamento cercando il fidanzato, senza bussare, senza avvertire, in piena notte. Il fidanzato di Breonna non sapendo fossero poliziotti e temendo per le loro vite ha chiamato il 911 e ha sparato un colpo dalla sua pistola, per cui ha la licenza. I poliziotti hanno risposto con 20 colpi, uccidendo Breonna.

Il 23 febbraio, a Brunswick, Georgia, Ahmaud Arbery, nero, stava facendo jogging quando due vigilanti bianchi, Gregory (un ex investigatore della polizia in pensione) e Travis McMichae, padre e figlio, lo hanno braccato e ucciso. Nessuno sarà arrestato. Il rapporto della polizia dice che i due pensavano che Arbery fosse responsabile di diverse irruzioni nelle case del quartiere e stavano cercando di fermarlo, avrebbero nella colluttazione sparato per difesa perché aggrediti. Il procuratore che si era occupato del caso aveva sottolineato che Arbery aveva dei precedenti il che spiegava la sua "natura aggressiva". Un video che ha ripreso tutta la scena racconta tutta un'altra storia. E dopo mesi e una nuova indagine i due sono stati arrestati. Da alcune testimonianze sarebbe emerso che Travis McMichae avrebbe pronunciato insulti razzisti accanto al corpo senza vita di Arbery.

Lo stesso giorno dell'uccisione di Floyd, è andato virale il video di una donna, bianca, a Central Park che chiama il 911 dicendo che un uomo nero la stava minacciando. L'uomo in realtà le avevo chiesto di tenere al guinzaglio il suo cane.

Episodi di violenza e razzismo si susseguono senza soluzione di continuità. È la vita quotidiana delle comunità nere in America.

"Non riesco a respirare". Lo ha ripetuto almeno 17 volte prima di morire George Floyd. E lo ha ripetuto prima di morire soffocato, per mano della polizia di New York, Eric Garner, un afro-americano di 43 anni, dopo essere stato arrestato nel 2014 per presunto contrabbando di sigarette. Il 3 dicembre una giuria di Staten Island decise di non incriminare il poliziotto. E così nel 2019 anche il Dipartimento di Giustizia degli USA. Nonostante un video provasse chiaramente la dinamica dei fatti. Ci furono diverse proteste in molte città. Così come si protestò il 25 novembre 2014 nella Contea di St Louis, nel Missouri, perché i giurati avevano deciso di non accusare formalmente il poliziotto bianco che aveva ucciso, a Ferguson, Michael Brown, 18 anni, nero. L'agente di polizia, Darren Wilson, aveva ordinato a Brown e al suo amico Johnson di spostarsi dalla carreggiata al marciapiede. Seguì un alterco e fu sparato un colpo dall'interno dell'auto di Wilson; i due ragazzi provarono a scappare, Wilson uscì dalla macchina e li inseguì a piedi, iniziando a sparare e ferendo a morte Brown. Il poliziotto dichiarò di aver agito per difendersi. Il caso scatenò proteste anche violente. Fu chiamata la Guardia Nazionale, imposto il coprifuoco. Stesse identiche scene di oggi, che portarono allora alla nascita del movimento Black Lives Matter, che però non ha mai raggiunto la massa critica di partecipazione che stiamo vedendo con le proteste di questi giorni.
Per la cronaca il Dipartimento di Giustizia americano portò avanti una indagine sulla polizia di Ferguson e il rapporto denunciava chiaramente la violenza, gli abusi e la discriminazione sistematica della polizia della città soprattutto verso la popolazione nera.

Travyon Martin, Sandra Bland, Philando Castile, Freddy Gray, Alton Sterling, Delrawn Small, Ezell Ford, Michelle Cusseaux, Tanisha Anderson, Tamir Rice, Natasha McKenna, Walter Scott, Bettie Jones, Botham Jean, Atatiana Jefferson, Eric Reason, Dominique Clayton... Dal 1 gennaio 2015, oltre 1200 persone nere sono state uccise in USA a colpi di arma da fuoco dalla polizia, secondo il database del Washington Post che traccia le sparatorie della polizia, che non include le persone morte mentre erano in custodia della polizia o uccise usando altri metodi. Una scia di morti senza fine e quasi sempre senza giustizia. Scrive il Washington Post: "Sebbene metà delle persone colpite e uccise dalla polizia siano bianche, gli americani neri, così come gli ispanici, vengono colpiti a un tasso sproporzionato. Rappresentano meno del 13% della popolazione degli Stati Uniti, ma vengono uccisi dalla polizia con una percentuale doppia rispetto agli americani bianchi".

Questo un elenco, chiaramente non esaustivo, pubblicato da NPR, di persone nere morte per mano della polizia dall'uccisione di Eric Garner nel 2014.

Prima di giudicare le proteste, sì anche nelle sue forme violente, e dare lezioni ai neri su come dovrebbero manifestare la loro indignazione, su come dovrebbero combattere per avere giustizia, noi bianchi, con le nostre vite al sicuro, dovremmo pensarci bene. E forse fare la scelta più rispettosa possibile. Tacere e metterci in ascolto. Leggere "Tra me e il Mondo" dello scrittore Ta-Nehisi Coates, "La prossima volta il fuoco" di James Baldwin, guardare "XIII emendamento", una denuncia senza via di scampo della criminalizzazione sistemica degli afro-americani. Mettere a disposizione il proprio privilegio come scudo per proteggere gli oppressi.

Come sottolineano le parole del regista afro-americano Spike Lee, incontrato durante le proteste a Los Angeles da Luca Celada: «C’è un abitudine a chiedere a noi neri come porre fine al razzismo, ma questa è una domanda a cui dovete rispondere soprattutto voi bianchi. Quello che mi rincuora sono tutti i giovani fratelli e sorelle bianchi che sono scesi in piazza accanto a noi. Quando vedo la lista delle città… Des Moines, Iowa? Salt Lake City !? Ma ci sono neri a Salt Lake?! Non stanno nemmeno giocando gli Utah Jazz! Non ha precedenti vedere così tanti alleati che dicono con noi: “questa merda deve finire e BLACK LIVES MATTER!”».

Chiedere se chi manifesta stia davvero indirizzando la propria rabbia in maniera appropriata significa in fin dei conti sminuire e non aver ben chiara la portata degli eventi e della posta in gioco. E anche questa tipologia di commenti e discussioni si ripetono ogni volta in queste occasioni. "Le manifestazioni, così visibili e viscerali nella copertura delle notizie, diventano la storia", scrive Dylan Scott su Vox. "I problemi strutturali che sono i motivi delle proteste iniziano a svanire sullo sfondo". La frustrazione e la rabbia per secoli di oppressione razziale possono portare alcune manifestazioni pacifiche a diventare violente (soprattutto contro le "cose", non le persone), e immediatamente questa violenza diventa per i leader politici la questione dominante, il razzismo sistemico che porta all'annientamento di così tante vite nere diventa secondario.

Sul Guardian Arwa Mahdawi firma un articolo dal titolo fortemente provocatorio: "If violence isn't the way to end racism in America, then what is?". Se si ripercorre la storia dell'oppressione dei neri in America, commenta Mahdawi, "la scomoda verità è che a volte la violenza per gli oppressi è l'unica risposta che rimane. Ci piace fingere che non sia così, motivo per cui i movimenti per i diritti civili sono spesso "sanificati" in modo conveniente. Il movimento del suffragio femminile, ad esempio, viene spesso celebrato come "non-violento". Non lo era: ha attraversato una fase molto militante. "Se gli uomini usano esplosivi e bombe per i loro scopi, la chiamano guerra", scrisse la suffragetta britannica Christabel Pankhurst nel 1913, "e il lancio di una bomba che distrugge altre persone viene quindi descritto come un atto glorioso ed eroico. Perché una donna non dovrebbe usare le stesse armi degli uomini?". Le parole di Mahdawi non vanno fraintese, non sta esaltando la violenza e nemmeno la sta invocando. "Sto semplicemente dicendo che dobbiamo interrogarci su ciò che chiamiamo "violenza" e ciò che chiamiamo "policy". Molte delle persone che urlano "la violenza non è la risposta" sui disordini a Minneapolis sono le stesse persone che sostengono con tutto il cuore le guerre infinte americane". E infine la giornalista smaschera l'ipocrisia di un sistema che spende più di 2 trilioni di dollari per la sola guerra in Iraq, sollevando inevitabilmente una domanda: "Se la violenza non è mai la risposta, allora perché l'America spende così tanti soldi sulla violenza?"

Scrive l'ex campione di basket, Kareem Abdul-Jabbar sul Los Angeles Times (qui la traduzione integrale del suo commento):

Cosa vedete quando vedete le persone nere che protestano arrabbiate fuori ad una stazione di polizia con il pugno alzato?
Se siete bianchi probabilmente pensate “Beh, sicuramente non mantengono il distanziamento sociale”. Poi vedete le persone nere che saccheggiano i locali e pensate, “questo fa sicuramente male alla loro causa”.

Poi vedete la stazione di polizia che va a fuoco, scuotete il dito e pensate: “La questione sta andando nella direzione sbagliata”.

Non avete torto, ma non avete nemmeno ragione.

La comunità nera è abituata a quel razzismo connaturato nei sistemi dell’istruzione, della giustizia e del lavoro, e per quanto siamo impegnati in tutte quelle attività che puntano alla sensibilizzazione politica e dell’opinione pubblica – scriviamo analisi articolate e piene di significato su The Atlantic, spieghiamo alla CNN lo stato di devastazione continua che viviamo, supportiamo i candidati che promettono il cambiamento – praticamente non cambia nulla.

Il virus ha amplificato le conseguenze di tutto questo: i nostri tassi di mortalità sono significativamente più alti di quelli dei bianchi, siamo i primi a perdere il lavoro e restiamo a guardare indifesi mentre i repubblicani cercano di non farci votare.
Proprio ora che il ventre molle del razzismo istituzionale emerge chiaramente, sembra che sia aperta la stagione della caccia contro i neri...

Certo, spesso le proteste vengono strumentalizzate da qualcuno che ne trae profitto, come accade quando i tifosi celebrano la vittoria della loro squadra dando fuoco alle auto e distruggendo i negozi. Io non voglio vedere negozi saccheggiati o palazzi bruciare, ma la comunità nera vive da anni in un palazzo in fiamme, venendo soffocata dal fumo mentre le fiamme si fanno sempre più vicine...

Pertanto, forse la maggiore preoccupazione della comunità nera in questo momento non è se chi protesta sta a uno o due metri di distanza dall’altro, o se alcune anime disperate rubano delle magliette o persino mettono a fuoco una stazione della polizia. Piuttosto è se i loro figli, mariti, fratelli e padri saranno uccisi da poliziotti o aspiranti tali semplicemente perché si trovano in strada a camminare, a correre o a guidare. O se essere nero vuol dire rifugiarsi a casa per il resto della loro vita perché il virus del razzismo che infetta la nazione è più letale del virus...

Dunque, ciò che vedete quando volgete lo sguardo verso i manifestanti neri, dipende da dove vi trovate: se siete in quel palazzo in fiamme o piuttosto lo guardate dallo schermo della tv con una vaschetta di pop-corn mentre attendete l’inizio del prossimo episodio di NCIS.

Le proteste di questi giorni, che stanno attraversando tutta l'America dalle grandi alle piccole città, non si fermano davanti al coprifuoco, davanti alla sempre più feroce violenza della polizia che continua ad usare contro cittadini inermi spray urticanti, gas lacrimogeni, manganelli, proiettili di gomma. Confermando la necessità delle proteste stesse. Migliaia di cittadini si riversano per le strade da oltre 10 giorni ormai per esprimere la rabbia che nasce dalla disperazione. Sfidando la brutalità delle forze dell'ordine e la pandemia da COVID-19, che va ricordato ha colpito in modo sproporzionato proprio le minoranze e le comunità nere. E anche questo in qualche modo è la conseguenza indiretta di disuguaglianza e razzismo.

Secondo le ultime stime, i neri rappresentano almeno il 29% dei casi noti di COVID-19 nel Minnesota, nonostante rappresentino il 6% della popolazione dello Stato. Gli afro-americani rappresentano il 35% dei casi di coronavirus a Minneapolis, sebbene rappresentino meno del 20% della popolazione della città.

Non solo sono loro ad ammalarsi e a morire di più, ma sono anche quelli che stanno subendo più di tutti le conseguenze economiche dell'epidemia, perdendo il lavoro. E molti altri sono tra quei lavoratori essenziali a basso reddito che rischiano la loro vita ogni giorno andando a lavorare in negozi di alimentari, case di cura, fabbriche, mattatoi... Lavoratori che non possono permettersi lo smart working.

Il sociologo Rashawn Ray ha affermato che una differenza cruciale tra le due piaghe che stanno vivendo nello stesso momento, il virus e la violenza della polizia, è che il coronavirus, come le malattie del passato, un giorno sparirà, grazie a un vaccino o a una terapia medica. "Il razzismo e la violenza continueranno ad essere una parte significativa delle nostre vite negli Stati Uniti".

Le persone che stanno occupando le strade chiedono un cambiamento radicale della società, disegnata per opprimere i neri e le minoranze. "Questo paese -  scrive il New York Times - ha fallito nel garantire una delle più importanti protezioni costituzionali: il diritto alla vita. Quello che i manifestanti vogliono è un paese dove i cattivi poliziotti sono licenziati, non protetti. Un paese dove la polizia protegge il diritto dei suoi cittadini di scendere in piazza per chiedere giustizia, e non si è aggrediti gratuitamente e investiti da un SUV". Un paese dove le truppe federali non vengono usate per disperdere con la forza una manifestazione pacifica, per far fare una photo-opportunity al Presidente degli Stati Uniti d'America. Una scena scioccante non degna di una democrazia, dove le forze dell'ordine, brandendo gas lacrimogeni, proiettili di gomma e scudi antisommossa metallici, hanno spazzato via senza pietà cittadini inermi. Oggi si indaga anche sulla morte di Sean Monterrosa, 22 anni, avvenuta a San Francisco. Il giovane si era inginocchiato all'arrivo della polizia, un agente gli ha scaricato addosso 5 colpi di pistola, perché, dice, pensava avesse un martello in tasca.

In questo thread su Twitter sono raccolte quasi 400 testimonianze video delle violenze della polizia sui manifestanti.

I giornalisti vengono attaccati brutalmente, picchiati, arrestati in numeri mai visti prima negli Usa, come ha documentato il Guardian: oltre 148 arresti e attacchi fra il 26 maggio e il 2 giugno: "Linda Tirado, fotoreporter, è stata colpita con un proiettile "non letale" mentre copriva le proteste a Minneapolis sabato scorso, perdendo definitivamente la vista nell'occhio sinistro. Michael Adams, corrispondente di Vice News, si è steso a terra quando gli è stato ordinato dalla polizia, con un pass per la stampa sopra la sua testa. Mentre continuavano a spruzzargli pepe in faccia. Kaitlin Rust stava trasmettendo su WAVE3 News in Kentucky quando un agente prende la mira prima di colpirla con "palle di pepe" (ndr, una sorta di gas lacrimogeni). «Stanno sparando contro di me», ha gridato dal vivo in onda. La polizia si è poi scusata".

"È scioccante per tutti noi una simile dimensione della violenza", ha affermato Robert Mahoney, vicedirettore del Comitato per la protezione dei giornalisti. "Abbiamo registrato più di 300 violazioni della libertà di stampa nella scorsa settimana, di cui la maggior parte sono attacchi, aggressioni fisiche ... e io odio usare la parola "senza precedenti", ma è certamente qualcosa che nessuno ha visto probabilmente dagli anni '60, durante il movimento per i diritti civili e la repressione violenta delle proteste in cui anche i giornalisti vennero coinvolti".

Tra i primi casi di arresto, a cui abbiamo assistito addirittura in diretta TV, quello del giornalista nero della CNN, Omar Jimenez, sul campo insieme a lui anche un collega bianco sempre della CNN, facendo le stesse cose. La polizia si dirige sul reporter nero e lo arresta, poco dopo una scena completamente diversa: la polizia va verso il giornalista bianco e dice: Si dovrebbe spostare". Ma lui non si muove. E la polizia: "Per favore si può spostare un po' di più?"

A tutto questo si aggiungono i tweet e le dichiarazioni incendiarie del presidente Trump. Usando frasi che incitano alla violenza e ricordano il linguaggio usato dalle forze dell'ordine segregazioniste negli anni '60 ("When looting starts, the shooting starts"), definendo chi manifesta "THUGS" (criminali) o terroristi, insinuando che le proteste non sono spontanee ma è gente pagata, che sono organizzate da antifascisti e da estremisti di sinistra.


Non proprio lo stesso trattamento che ha riservato ai manifestanti bianchi che armati fino ai denti hanno fatto irruzione in varie sedi istituzionali per protestare contro le misure del lockdown. In quel caso si tratta di "brave persone" che vanno ascoltate.

 

Trattamento diverso anche da parte della polizia che non si è permessa di torcere un capello ai manifestanti bianchi armati. Non oso nemmeno immaginare cosa sarebbe successo se a fare irruzione armati nelle sedi istituzionali fossero stati manifestanti neri.

La stragrande maggioranza di queste proteste è pacifica (dopo i primi giorni, i saccheggi sono quasi completamente spariti), scrive il New York Times,  ma non tutte. Dove non lo sono, gli agenti di polizia sono spesso il bersaglio di quella violenza. Gli agenti possono sentire di non avere altre scelte, ma il modo in cui rispondono è fondamentale. Perché a volte sono gli stessi poliziotti a peggiorare le cose istigando scontri fisici, aggredendo anziani e usando spray urticante contro bambini. E ovunque sia scoppiata la violenza - commessa da forze dell'ordine, agitatori esterni o rivoltosi e saccheggiatori - ha fornito una scusa per spostare il dibattito lontano dalle ragioni profonde della disperazione all'origine delle proteste.

In questo contesto, dunque, i leader politici che temono la violenza delle proteste dimostrano la fondamentale asimmetria, scrive Dylan Scott sempre su Vox, che i manifestanti stanno cercando di contrastare. Lo Stato ha il monopolio sulla violenza legittimata, e spesso è diretta verso i giovani neri. Quando Floyd, Taylor, Garner, Brown, Rice... muoiono, gli agenti responsabili non pagano nessuna conseguenza perché protetti dalla legge. Se chi ha ucciso Floyd andrà in prigione sarà appunto l'eccezione che conferma la regola. Robin Kelley, professore di storia all'Università della California, ne è certo: senza le proteste di questi anni, difficilmente i 4 poliziotti coinvolti nella morte di Floyd sarebbero stati licenziati così velocemente.

Le rivolte sono "socialmente distruttive e autolesioniste", diceva Martin Luther King Jr. nel 1967, in un suo discorso durante un'ondata di disordini. Ma nello stesso passaggio sottolineava: "È necessario che io sia altrettanto vigoroso nel condannare le condizioni che inducono le persone a sentire che devono impegnarsi in attività tumultuose come lo è per me condannare le rivolte... In ultima analisi, una rivolta è il linguaggio degli inascoltati e fino a quando l'America rinvia la giustizia, continueremo ad avere questi episodi di violenza e rivolte ancora e ancora".

Sono passati oltre 50 anni e la giustizia viene ancora rinviata. La disuguaglianza razziale - si legge sempre sul NYT - rimane dilagante in termini di ricchezza, abitazioni, occupazione, istruzione e applicazione della legge. Questa non è una novità, ma è responsabilità di tutti coloro che sono al potere riconoscerla e risolverla. Il razzismo è istituzionalizzato, come ammise la Commissione Kerner del presidente Lyndon Johnson dopo aver studiato le disuguaglianze alla radice delle rivolte degli anni '60: "Le istituzioni bianche le hanno create, le istituzioni bianche le mantengono e la società bianca le condona".

"Coloro che criticano le risposte violente all'ingiustizia - scrive Kelly Carter Jackson su The Atlantic - dovrebbero chiedersi: come dovrebbero gli oppressi rispondere ai loro oppressori? In che modo la nazione dovrebbe rispondere al dissenso politico? In che modo gli oppressi acquistano potere? Nel corso della storia, i neri hanno usato violenza, non-violenza, marce e boicottaggi. Solo una cosa è chiara: non esiste alcuna forma di protesta nera che la supremazia bianca accetterà. Tuttavia, i neri comprendono l'utilità della rivolta: la violenza impone una risposta. La violenza interrompe lo status quo e la possibilità di tornare alle cose così come erano prima. Molto spesso i momenti spartiacque che hanno fatto la storia sono segnati dalla violenza: è il motore che spinge la società dai funerali alla furia e dai momenti ai movimenti. Nel dicembre 1866, il famoso abolizionista Frederick Douglass scrisse un saggio per The Atlantic in cui rifletteva sui benefici della ribellione: “C'è motivo di essere grati anche per la ribellione. È un'insegnante impressionante, sebbene severa e terribile... La cosa peggiore della ribellione è ciò che provoca la ribellione". Molte persone chiedono se la violenza sia un mezzo valido per produrre un cambiamento sociale. La risposta dura e storica è sì. I disordini hanno un modo di mettere in evidenza non solo i difetti del sistema, ma anche la forza di chi ha il potere. La rivoluzione americana è stata vinta con la violenza. La rivoluzione francese è stata vinta con la violenza. La rivoluzione haitiana fu vinta con la violenza. La guerra civile (ndr in USA) fu vinta con la violenza. Una rivoluzione nei termini di oggi significherebbe che queste ribellioni a livello nazionale porterebbero i neri a poter accedere ed esercitare la pienezza della loro libertà e umanità".

La questione dei looting (saccheggi) non è semplice. "Quello che dovremmo chiederci - avverte il sociologo Darnell Hunt, decano di scienze sociali all'Università della California a Los Angeles, che ha svolto ricerche approfondite sulle rivolte del 1992 a Los Angeles in seguito all'assoluzione degli agenti di polizia, bianchi, che picchiarono selvaggiamente Rodney King, nero, durante un arresto (anche in quel caso la scena fu ripresa da una persona dal suo balcone e inviata a una tv locale) - è: perché ci sono così tante persone nella nostra società che non hanno niente da perdere?". Le proteste, la distruzione di proprietà, l'indifferenza per l'autorità sono solo sintomi della nostra situazione attuale. Quello che vediamo nelle narrazioni mediatiche - spiega Hunt - è l'elemento immediato, la breaking news della storia. Quindi chiaramente quando la violenza esplode, diventa la notizia principale. I looting diventano il focus. L'attenzione diventa sempre più ossessiva su quello che fanno i manifestanti, visti come monoliti. Ogni volta che ci sono proteste, le persone che partecipano lo fanno per i più svariati motivi e con diversi approcci.  C'è chi partecipa con convinzione in modo pacifico e crede nell'efficacia delle azioni non violente, chi crede invece sia necessario per ottenere attenzione e fare pressione sul sistema rovesciare auto della polizia e vandalizzare le stazioni di polizia. E ci sono anche altre persone che non aderiscono a nessuno di questi due approcci, e partecipano senza un particolare motivo. Solitamente, sono persone che si sentono marginalizzate economicamente e, come ricorda appunto Hunt, non hanno molto da perdere. Chi ha qualcosa da perdere non partecipa ai saccheggi.

È evidente che queste proteste sono multietniche, multiculturali, in molti modi. Sono innescate da un caso specifico di brutalità della polizia, ma c'è molto di più di questo sotto, al punto da spingere le persone a rischiare la propria vita in piena pandemia. Queste persone sono state spinte al limite.

Ma questo aspetto non riceve copertura mediatica o almeno non nel modo in cui meriterebbe di essere affrontato, i media quasi sempre cadono nel frame "law and order", finendo per raccontare queste proteste come una questione di ordine pubblico, al primo caso di incendio o saccheggio. Poi si passa alla questione dei valori della proprietà, al punto che ci sono testate che paragonano le vite umane agli edifici e trasformano lo slogan "Black lives matter" in "Buildings matter, too". Senza rendersi conto di una simile enormità, se non quando vengono criticate sui social media dai loro lettori. Il direttore travolto dalla critiche si è dimesso.


E così ci allontaniamo dalla discussione sulle cause che sottostanno a tutto questo. Siamo bloccati sui sintomi, e perdiamo di vista le cause, dice Hunt.

Il ruolo dei media è fondamentale nel decidere il destino di una protesta. Come ci ricorda su Nieman Lab Danielle Kilgo, che ha studiato la copertura mediatica delle proteste contro il razzismo, l'opinione pubblica sulle manifestazioni e i movimenti sociali che ci sono dietro si forma in gran parte su quel che vede e legge. E questo conferisce un potere immenso ai media quando coprono le manifestazioni. Si possono enfatizzare gli scontri e le violenze, alimentare la visione di quei politici che etichettano i manifestanti come criminali. Oppure non perdere mai di vista che quelle proteste sono state scatenate dall'ennesima uccisione brutale di un uomo nero inerme, enfatizzando la scandalosa impunità di cui godono i poliziotti violenti. Il ruolo svolto dai giornalisti è indispensabile per i movimenti per essere legittimati e fare progressi, mettendo in crisi finalmente lo status quo.

L'America non ha un problema sistemico con le proteste violente o i saccheggi. Le proteste, anche nelle sue forme violente, prima o poi finiranno. La violenza di Stato contro i neri americani no. E affonda le sue radici nella storia stessa del paese, come ricorda Kiesh N. Balin, autrice del libro multi-premiato "Set the World on Fire: Black Nationalist Women and the Global Struggle for Freedom", sul Washington Post. La schiavitù, i "Black Codes" all'indomani della Guerra Civile, che hanno limitato i diritti e la mobilità dei neri, incentivando di fatto le forze di polizia allora nascenti e i vigilanti bianchi a compiere atti violenti in nome del rispetto dell'ordine pubblico. Agli inizi del XX secolo i linciaggi, gli omicidi extra-giudiziali, sono stati usati per controllare le loro vite e i loro movimenti. La violenza dei bianchi è stata spesso sostenuta dalle forze della polizia anziché essere combattuta.

Come denunciato all'epoca dalla giornalista investigativa Ida B. Wells-Barnett, attivista contro i linciaggi, in "The Red Record", i linciaggi dei neri americani non erano solo programmati in anticipo, ma avevano il pieno sostegno della polizia locale, che spesso partecipava a questi attacchi organizzati. Di conseguenza, migliaia di neri in tutto il paese furono linciati impunemente. Il razzismo sistematico della polizia è la violenza innegabile con cui attaccarono gli attivisti durante la campagna di Birmingham nel 1963 e le marce da Selma a Montgomery del 1965. E così gli scontri di Minneapolis fra i residenti neri e la polizia locale negli anni '60. Gli episodi continui che vedono la polizia minacciare la vita dei neri anziché proteggerla, portò il leader dei diritti civili Martin Luther King a pronunciare il famoso discorso "I have a dream" nel 1963 a Washington: "Quando saremo soddisfatti? Non potremo mai essere soddisfatti finché il Negro è vittima degli indicibili orrori della brutalità della polizia".

"Le radici della polizia americana sono legate al razzismo strutturale. I neri hanno molte più probabilità di essere arrestati e uccisi a morte dalla polizia rispetto ai bianchi - e gli agenti di polizia raramente sono accusati di aver ucciso neri disarmati", scrive Balin, ricordando alcuni dei casi più noti nella sola città di New York fra gli anni '80 e '90: Michael Stewart (1983), Eleanor Bumpurs (1984), Michael Griffith (1986), Edmund Perry (1985), Yvonne Smallwood (1987), Abner Louima (1997) e Amadou Diallo (1999).

Tutto questo è la dimostrazione che nonostante le conquiste del movimento per i diritti civili, i neri sono ancora trattati come cittadini di seconda classe negli Stati Uniti, i neri americani muoiono per mano della polizia a un tasso che è quasi equivalente al numero dei linciaggi documentati un secolo fa. Come documenta un rapporto del 2019, la violenza della polizia è una delle principali cause di morte per i giovani maschi neri in America.

La discriminazione razziale è pervasiva anche nella giustizia penale americana e si manifesta in tutte le fasi: dall'arresto al processo, dalla condanna alla carcerazione. E quanto questo sistema sia di parte contro i cittadini neri emerge da una serie di studi svolti da varie istituzioni e analizzati da Radley Balko in questo articolo pubblicato nel 2018 dal Washington Post. A questo si aggiunge l'ingiustizia dei poliziotti che raramente vengono puniti per i loro abusi, soprusi e la loro violenza. Alcune ricerche che hanno analizzato gli omicidi commessi dalle forze dell'ordine hanno trovato che dal 2006 al 2011 41 agenti sono stati arrestati per omicidio o omicidio per negligenza, mentre nello stesso periodo oltre 2.700 omicidi ritenuti "giustificabili" sono stati commessi da agenti di polizia. Le forze dell'ordine dunque sono quasi sempre giustificate nell'uso eccessivo della forza, è il sistema stesso ad impedire di accertare la responsabilità degli agenti quando uccidono i cittadini (vedi qualified immunity).

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Oggi si torna a parlare di riforma della polizia, alcune città e Stati lo hanno già annunciato, si discute del definanziamento e del divieto di tecniche usate durante gli arresti, come quelle del soffocamento. Bisognerà vedere se questa volta si riuscirà a vincere la resistenza dei sindacati di polizia che da anni si oppongono a qualsiasi cambiamento e che in questi giorni continuano ad esprimere solidarietà agli agenti licenziati e denunciati per violenze e abusi. C'è anche una richiesta alla Corte Suprema di rivedere la qualified immunity, che protegge la polizia dalle azioni legali contro la forza eccessiva e i funzionari governativi per presunte violazioni dei diritti civili. Questa dottrina protegge dalle azioni legali, a meno che i querelanti non siano in grado di dimostrare che gli accusati hanno violato le leggi "chiaramente stabilite" o i diritti costituzionali di cui avrebbero dovuto ragionevolmente essere a conoscenza. Quel "chiaramente stabilito" spesso implica che affinché le loro azioni legali possano procedere, i querelanti devono identificare una violazione quasi identica che è stata riconosciuta dalla Corte Suprema o dai tribunali d'appello nella stessa giurisdizione. Un sistema perverso, come denuncia Clark Neily del Libertarian Cato Institute, perché per fare un esempio pratico: "Se la famiglia del signor Floyd vuole fare causa all'agente che gli ha tolto la vita, dovrà trovare un caso esistente [della Corte d'Appello degli Stati Uniti per l'VIII circoscrizione] in cui si afferma che un agente di polizia non può inginocchiarsi sul collo di un sospetto che non oppone resistenza, ignorando le sue richieste di aiuto, fino a quando non muore".

Oggi l’espressione riforma della polizia va molto di moda, e gli atti di coloro che sono stati formalmente incaricati della nostra salvaguardia hanno attirato l’attenzione sia del Presidente sia della gente comune. Avrai già sentito parlare di “diversità”, di “addestramento all’empatia” e “body camera”: sono tutte cose utili e interessanti, tuttavia sottovalutano l’entità del compito e permettono ai cittadini di fingere che esista davvero una differenza tra i loro atteggiamenti e quelli di coloro che hanno l’incarico di proteggerli. La verità è che la polizia rispecchia l’America, in tutti i suoi desideri e le sue paure, e qualunque cosa decidessimo di fare riguardo alla politica in materia di giustizia criminale di questo Paese, non si potrebbe mai dire che è stata imposta da una minoranza repressiva. Gli abusi derivati da queste politiche, la situazione carceraria fuori controllo, la detenzione indiscriminata dei neri, la tortura dei sospettati sono il risultato di una volontà democratica. Perciò mettere in discussione la polizia equivale a mettere in discussione il popolo americano che l’ha spedita nei ghetti, armata di quelle stesse paure che hanno spinto quelli che si credono bianchi a fuggire dalle città per rifugiarsi nel Sogno. [ Ta-Nehisi Coates - Tra me e il mondo]

Foto anteprima via Abe Kaye 

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