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Dagli Usa all’Europa il diritto all’aborto è sotto attacco

9 Novembre 2020 7 min lettura

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Dagli Usa all’Europa il diritto all’aborto è sotto attacco

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In Polonia le enormi proteste guidate dai movimenti femministi vanno avanti ormai da tre settimane dopo la sentenza del tribunale Costituzionale che ha deciso il divieto di ricorrere all’aborto anche nel caso in cui ci siano gravi malformazioni del feto. La pronuncia – arrivata dopo un appello presentato l’anno scorso da 119 parlamentari soprattutto del partito nazionalista ultraconservatore al governo, PiS - equivarrebbe a un sostanziale divieto totale dell’interruzione volontaria di gravidanza nel paese, fino a questo momento consentita da una legge del 1993 solo in tre casi: pericolo di vita per la madre, stupro e gravissima malformazione del feto. Quest’ultimo, secondo le organizzazioni per i diritti riproduttivi, rappresenta il 98% dei pochi aborti legali effettuati ogni anno in Polonia.

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La pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta ufficiale sarebbe dovuta avvenire lunedì 2 novembre, ma è stata ritardata dal governo, proprio in relazione alle proteste che si stanno susseguendo nel paese. Proteste che né PiS né i partiti della coalizione si aspettavano - o perlomeno non in questa scala – e per questo sono intenzionati a prendere tempo. Per la prima volta, inoltre, il governo si trova a fare i conti con un calo del consenso. Le manifestazioni, infatti, oltre a opporsi alle limitazioni al diritto di abortire, si sono via via allargate e sono dirette più in generale contro il partito e le gerarchie ecclesiastiche alleate. Il portavoce del governo Piotr Müller ha detto che al momento c’è bisogno di tranquillità e di discutere della sentenza: serve «che gli umori pubblici si rasserenino e che ci sia una discussione tra esperti».

Come spiega il sito Notes from Poland, l’aver rimandato la pubblicazione ha a che fare anche con le divisioni all’interno della coalizione di governo su come procedere a questo punto. Alcune fazioni vorrebbero mantenere la linea dura, mentre altre sarebbero favorevoli a una sorta di compromesso proposto dal presidente polacco Andrzej Duda, di un partito alleato del PiS.

Dopo aver in un primo momento espresso soddisfazione per il verdetto della corte costituzionale, Duda ha infatti cambiato passo e venerdì scorso ha presentato al parlamento una proposta di modifica alla legge, che renderebbe l’aborto legale nei casi in cui la diagnosi prenatale dica che il feto morirà dopo il parto. Per gli altri casi di malformazioni, anche gravi, invece, l’interruzione di gravidanza non sarebbe consentita. È una possibilità però che non incontra né il favore di buona parte dei deputati del PiS, né della Chiesa cattolica (che ha una grossa influenza sul paese e sul partito) che la giudicano troppo permissiva. L’arcivescovo Stanisław Gądecki, a capo dell’episcopato cattolico della Polonia, ha dichiarato ad esempio che la proposta di Duda rappresenterebbe una forma di eutanasia, e che nessun politico cattolico dovrebbe sostenerla.

I partiti di opposizione – fortemente contrari alla decisione della corte costituzionale – hanno criticato la gestione della situazione, accusando il governo di prendere tempo sperando che nel frattempo le manifestazioni cessino. Secondo Włodzimierz Czarzasty, vicepresidente del parlamento e membro del partito Lewica di centro sinistra, «contano che le proteste si esauriscano... Non sanno cosa fare con queste proteste, sono proteste forti».

Quanto alla proposta di Duda, secondo il partito di centro Civic Coalition (KO), si tratta di un espediente del leader del PiS Jarosław Kaczyński per dare l’impressione che il governo stia facendo qualcosa, quando in realtà non cambierebbe nulla. Una parlamentare di KO, Kamila Gasiuk-Pihowicz, ha dichiarato al giornale Gazeta.pl la sua opposizione non solo alla proposta del presidente, ma anche alla legge sull’aborto esistente, dicendo che è «tempo di liberalizzare i regolamenti».

Al disegno di Duda è contrario anche il movimento dello Sciopero delle donne (Strajk Kobiet) che sta guidando le manifestazioni di questi giorni. Nel frattempo, sebbene la sentenza e le nuove norme non siano ancora efficaci, gli ospedali polacchi hanno iniziato ad annullare gli appuntamenti delle donne che dovevano abortire per gravi malformazioni fetali.

Un lungo articolo di Emma Reynolds sul sito della CNN riporta le restrizioni e i problemi all’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza in Europa al di là del caso Polonia. Nell'Europa centrale e orientale ci sono stati “molti tentativi di ridurre la possibilità legale delle donne di accedere all’aborto o di introdurre nuove barriere”. In Slovacchia, ad esempio, il mese scorso il parlamento ha votato contro una proposta di legge – non la prima tra il 2019 e il 2020 riguardante limitazioni ai diritti riproduttivi - che prevedeva che le donne avrebbero dovuto aspettare 96 ore prima di ottenere un aborto e fornire le ragioni per cui intendevano farlo. La legge inoltre vietava alle cliniche di pubblicizzare i servizi di interruzione di gravidanza. Negli ultimi dieci anni, paesi come Armenia, Russia e Georgia hanno introdotto una serie di condizioni preliminari che le donne devono soddisfare prima di poter accedere all’aborto.

In altri Stati, secondo quanto riporta un documento del Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa del 2017, si sono verificati tentativi di limitare l’interruzione volontaria di gravidanza che nonostante non abbiano avuto successo, forniscono “un’immagine potente della portata e della natura dell’attacco all’avanzamento dei diritti delle donne e alla parità di genere in certe parti dell’Europa”.

«Molti Stati in Europa promuovono il ruolo delle donne come procreatrici, mogli e madri», ha detto alla CNN Hillary Margolis, ricercatrice della divisione Diritti delle donne di Human Rights Watch, aggiungendo che i modi in cui gli attacchi a questi diritti vengono messi in atto sono diversi, «non si tratta sempre di vietare apertamente l’aborto». Margolis fa l’esempio della Germania, dove l’aborto è relativamente accessibile, ma la diffusione di notizie o la pubblicità dei servizi di interruzione di gravidanza è vietata (anche se i medici possono dichiarare di fare questo servizio sui propri siti web, senza dare ulteriori specifiche). La norma, spiega, viene sfruttata molto dai gruppi antiabortisti. Ad esempio, nel 2019 hanno segnalato due ginecologhe, poi multate per aver pubblicizzato sul loro sito il fatto che nella loro clinica di Berlino facevano aborti “farmacologici, senza anestesia” in “un ambiente protetto”. Altri casi di paesi in cui l’aborto è garantito legalmente ma spesso di difficile accesso citati da Margolis sono l’Italia e la Croazia, dove viene fatto un massiccio uso della possibilità dell’obiezione di coscienza.

Negli stessi giorni in cui la corte costituzionale di Varsavia emetteva il suo verdetto, alla fine di ottobre, circa trenta paesi hanno firmato la Geneva Consensus Declaration. Il documento – non vincolante - ha come obiettivo “l’espressione dell’essenziale priorità di proteggere il diritto alla vita” nonché combattere quello a ottenere un aborto legale. Tra i paesi firmatari ci sono Polonia, l’Ungheria, la Bielorussia, il Brasile e gli Stati Uniti.

Negli USA non esiste una legge unica che stabilisca un limite specifico entro il quale sia legale abortire. Ogni Stato ha le sue regole – più permissive o meno a seconda del colore politico – ma una sentenza della Corte Suprema del 1973, Roe v. Wade, ha stabilito la legalità dell’aborto a livello federale, almeno finché il feto non sia in grado di vivere fuori dall’utero.

La questione dell’aborto negli Stati Uniti è molto dibattuta e controversa, e il diritto è stato oggetto negli ultimi decenni di attacchi da parte di organizzazioni anti-abortiste e proposte legislative restrittive da parte dei singoli stati. Secondo l’organizzazione non profit Guttmacher Institute, dal 2011 ci sono state 468 restrizioni al diritto all’interruzione volontaria di gravidanza a livello statale, e ci sarebbero almeno ventuno Stati che vieterebbero l’aborto se ne avessero la possibilità. Per Elizabeth Nash, responsabile per le politiche statali dell’organizzazione, negli ultimi anni però si è assistito sempre di più «a un attacco frontale al diritto di aborto», in particolar modo durante la presidenza Trump.

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Oltre a essere stato il primo presidente a partecipare al raduno antiabortista “Marcia per la vita”, nel corso del suo mandato Trump si è speso per far sì che il diritto ad accedere all’aborto legale fosse minacciato a livello globale. Uno dei primi ordini esecutivi firmati dal presidente riguardava il blocco dei finanziamenti del governo federale alle organizzazioni non governative internazionali che praticano o informano sull’interruzione di gravidanza all’estero (un provvedimento chiamato “Mexico City Policy”, originariamente introdotto da Ronald Reagan e poi più volte abolito e ripristinato). Con questa regola, le organizzazioni non possono più ricevere fondi dall’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale, uno dei più grandi finanziatori delle realtà che lavorano nei paesi in via di sviluppo.

Da ultimo, Trump ha recentemente nominato Amy Coney Barrett alla Corte Suprema degli Stati Uniti, una giudice con una chiara visione antiabortista che secondo gli esperti potrebbe essere una minaccia per Roe v. Wade (la composizione della Corte, grazie anche a precedenti nomine sempre del presidente repubblicano è orientata contro la liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza). «È un momento di straordinaria e profonda preoccupazione riguardo il diritto all’aborto negli Stati Uniti», ha detto Julie Rikelman, senior director of US litigation del Center for Reproductive Rights. «A ogni livello della Corte Federale ora abbiamo giudici che non sostengono il diritto all’aborto», e dunque il diritto è in pericolo a livello federale «come non lo è stato per decenni».

Foto anteprima di Lorie Shaull - sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic.

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