La mobilitazione dei ricercatori contro la legge di Bilancio: l’Università, finanziata poco e male, si regge sul lavoro precario
12 min letturadi Angelo Romano e Andrea Zitelli
Una mobilitazione nazionale sull’Università pubblica. Con questo evento organizzato per domani 9 gennaio, il gruppo “Ricercatori Determinati” vuole porre l’attenzione sullo stato dei finanziamenti pubblici all’Università italiana, denunciare la situazione lavorativa precaria dei ricercatori italiani e proporre alla politica alcuni interventi.
Da più di una settimana, Lorenzo Fioramonti si è dimesso da ministro dell’Istruzione del governo Conte II perché in disaccordo con le risorse – ritenute non sufficienti – stanziate nelle legge di Bilancio 2020 per l’istruzione in Italia. A settembre, in un’intervista al Corriere della Sera, Fioramonti aveva dichiarato: «Ci vogliono investimenti subito, nella legge di Bilancio: due miliardi per la scuola e uno almeno per l'Università. Lo dico da ora: se non ci saranno, mi dimetto».
Il tema non è mai stato accontentare le mie richieste, ma decidere che Paese vogliamo. Perché è nella scuola e nell'università, eterne cenerentole, che si costruisce #quellochesaremo. Spero che ora si possa aprire una vera riflessione nazionale sul futuro https://t.co/GcLmzKeT27
— Lorenzo Fioramonti (@lofioramonti) December 26, 2019
In un post del 26 dicembre su Facebook, l’allora ministro (che nel frattempo ha lasciato anche il Movimento 5 stelle) ha spiegato le sue ragioni e affermato che “pare che le risorse non si trovino mai quando si tratta della scuola e della ricerca, eppure si recuperano centinaia di milioni di euro in poche ore da destinare ad altre finalità quando c'è la volontà politica”.
In una lettera inviata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche la Conferenza dei Rettori delle università italiane (Crui) ha criticato la legge di Bilancio del governo perché “dimentica l’Università. Non una misura d’investimento. Non un segnale di attenzione”: “Nonostante la stagnazione, perfino i Paesi emergenti puntano su università e ricerca, l’Italia no”. In un’intervista a Repubblica, Gaetano Manfredi, rettore Università di Napoli e presidente della Crui, a Natale, ha avvertito che «l'Italia rischia di marginalizzarsi sempre di più e di "esportare" i più preparati e motivati, che cercano all'estero quelle opportunità non disponibili nel loro Paese. Con un impoverimento non solo economico, ma soprattutto culturale e sociale, i cui esiti danneggiano l'intera società». Manfredi è stato poi nominato a fine anno dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte nuovo ministro di Università e Ricerca.
Claudio Tucci sul Il Sole 24 ore ricorda inoltre “come, in Italia, siano ormai anni che i fondi all’Istruzione sono ai minimi termini”: “Lo ha ricordato, di recente, persino l’Ocse, nel rapporto «Education at a glance 2019»: per finanziare la lunga filiera che va dalla scuola primaria all’Università, infatti, il nostro Paese investe più o meno il 3,6% del suo Pil contro il 5% di media Ocse. Con una forbice che cresce mano mano che il livello d’istruzione sale. Alle elementari, ad esempio, la spesa italiana per studente ammonta a 8.000 dollari; alla secondarie sale a 9.200 dollari (-6% della media Ocse); per arrivare agli 11.600 dell’Università (-26%). In un contesto generale che ha visto l’esborso per la scuola diminuire del 9% tra il 2010 e il 2016 laddove gli studenti sono calati, rispettivamente, dell’8 e dell’1 per cento”.
“Il punto, però, – continua il giornalista – è che per la scuola si continua a spendere male, visto che quasi il 90% del bilancio del Miur serve a retribuire il milione e più di dipendenti. Per l’Università, invece, occorre uno scatto di reni, che, come riconosce lo stesso Fioramonti, pure in questa manovra non c’è stato”.
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Proprio l’insufficienza dei fondi per l’Istruzione in Italia e in particolare per l’Università – che in base ai dati Eurostat del 2017 risulta essere il settore di spesa in cui l’Italia si allontana maggiormente dalla media Ue – è una delle questioni da cui i “Ricercatori Determinati” partono per chiamare alla mobilitazione del 9 gennaio: “(....) I soldi stanziati con questa finanziaria suonano come una presa in giro: 5 milioni di euro per il rifinanziamento del Fondo di Finanziamento Ordinario per le università italiane; 31 milioni per il finanziamento delle borse di studio per gli studenti – soldi in grado di coprire un fabbisogno di circa il 10% della popolazione studentesca; 25 milioni per aprire una nuova agenzia (Agenzia Nazionale della Ricerca), chiamata a indirizzare, con modalità ancora per nulla chiare, le attività di ricerca nel nostro Paese”.
I ricercatori si concentrano poi su un altro aspetto e cioè sulle problematiche e criticità del modello università in Italia, domandandosi: “Ma a cosa servirebbe rifinanziare l’Università? Su quale sistema attualmente esistente si innestano i provvedimenti previsti dalla finanziaria?”. “Ricercatori determinati” denunciano, citando dati dell’ultima indagine ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia), che “nel 2018 erano ben 68.428 le persone assunte a tempo determinato, contro solo le 47.561 a tempo indeterminato, il che vuol dire che l’Università italiana, in questo momento, si regge sul lavoro precario, non garantito in termini contrattuali, previdenziali e assistenziali. Né è possibile in questo momento invertire la tendenza: la totale mancanza di un sistema di reclutamento ordinario produce carriere discontinue, spesso intervallate da lunghi periodi di disoccupazione che sono solo in parte tutelati da ammortizzatori sociali”.
Una situazione di precarietà che, denunciano ancora i ricercatori, contribuisce anche “a generare una fragilità esistenziale, emotiva, psichica, con la difficoltà a progettare la propria vita secondo i propri bisogni, aspirazioni e desideri”.
Inoltre, continua il gruppo di ricercatori, “come la qualità dell’insegnamento risente delle condizioni di lavoro del personale di ricerca non strutturato sul quale si regge l’Università, anche il peggioramento della condizione studentesca ha ricadute pesanti sul reclutamento del personale di ricerca”: “Infatti non solo in assenza di un adeguato finanziamento pubblico, il gettito delle tasse studentesche influisce sulla capacità o meno degli atenei di assumere, specialmente nei settori meno interessanti per il finanziamento privato. Va aggiunto che per di più solo l’11% [ndr in Germania, Francia e in Spagna gli studenti con borsa superano stabilmente il 20% e in alcuni casi il 30%, scrive Il Sole 24 Ore] degli studenti iscritti beneficia di una borsa di studio, rendendo l’Università un posto sempre più inaccessibile anche a causa della spasmodica ricerca di risorse che viene fatta pesare sulle fasce più deboli della popolazione studentesca”.
Secondo il rapporto Eurydice della Commissione Europea la tasse universitarie in Italia risultano essere tra le più alte in Europa, con il risultato così di creare continui ostacoli per studiare all’Università, in particolare per quelli che non dispongono di mezzi economici adeguati, spiega Salvo Intravaia su Repubblica.
La questione dell'Agenzia nazionale per la ricerca
I ricercatori esprimono perplessità anche sulla Agenzia Nazionale della Ricerca, voluta dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che dovrebbe indirizzare le attività di ricerca pubblica e privata del nostro paese, sia per quanto riguarda i fondi (25 milioni di euro) per avviarla, ritenuti insufficienti, sia sulla natura stessa del nascente organismo, le cui modalità di composizione e funzionamento sono definite “ancora per nulla chiare”.
Conte aveva annunciato la nascita dell’Agenzia nazionale della ricerca lo scorso ottobre in occasione della presentazione del Rapporto 2019 sulla ricerca. All’epoca, il Presidente del Consiglio aveva affermato che con la legge di bilancio sarebbe stata creata un’agenzia con «funzione di coordinamento tra i vari poli universitari ed enti pubblici e privati di ricerca». Si sarebbe trattato – erano le parole di Conte – di una specie di cabina di regia per mettere a sistema le tante realtà scientifiche italiane ancora troppo frammentate.
Secondo quanto previsto dalla legge di bilancio, l’agenzia avrà immediatamente 25 milioni di euro in cassa e 300mila euro per il suo funzionamento. Poi, avrà un finanziamento di 200 milioni di euro dal 2021, e di 300 milioni di euro a partire dal 2022, che saranno poi smistati attraverso bandi e chiamate.
In particolare, il compito della nascente agenzia è quello di promuovere “il coordinamento delle attività di ricerca di università, enti e istituti di ricerca pubblici, incrementando la sinergia e la cooperazione tra di essi e con il sistema economico-produttivo, pubblico e privato, in relazione agli obiettivi strategici della ricerca e dell’innovazione, nonché agli obiettivi di politica economica del Governo funzionali alla produttività e alla competitività del Paese” e di favorire “l’internazionalizzazione delle attività di ricerca, promuovendo, sostenendo e coordinando la partecipazione italiana a progetti e iniziative europee e internazionali”. Nello specifico, riporta Repubblica, l’Agenzia coordinerà il Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (First) nel quale sono confluite le risorse annuali per i progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin) delle università, le risorse del Fondo per le agevolazioni alla ricerca (Far), del Fondo per gli investimenti della ricerca di base (Firb) e del Fondo per le aree sottoutilizzate (Fas).
Il direttore resterà in carica per 4 anni e sarà scelto dal Presidente del Consiglio su una rosa di 25 nominativi precedentemente selezionati da una commissione di valutazione composta da 5 membri scelti dal ministro dell'Istruzione, dal presidente dell'Agenzia di valutazione Anvur, dal vicepresidente del Comitato di esperti per la politica della ricerca (Cepr), dal presidente del Consiglio europeo della ricerca (Erc) e dal presidente della Fondazione europea della Scienza. Il consiglio direttivo sarà formato da 8 persone scelte rispettivamente dai ministri di Università e Ricerca, Sviluppo economico, Salute e Innovazione Tecnologica e Digitalizzazione, dalla Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui), dal Consiglio universitario nazionale (Cun), dalla Consulta dei presidenti degli enti pubblici di ricerca e dall'Accademia dei Lincei.
Al momento del suo annuncio, l’Agenzia Nazionale della Ricerca era stata, al tempo stesso, accolta come una soluzione che finalmente coordinasse i finanziamenti alla ricerca su scala nazionale, e criticata dal mondo della ricerca perché, di fatto, gli scienziati, i professori e i ricercatori erano stati esclusi dalla sua pianificazione e c’era il concreto rischio di creare un nuovo carrozzone di emanazione politica. In una prima versione, infatti, il testo prevedeva che 6 membri su 9 dell’ANR fossero di nomina politica.
Le cose sono leggermente migliorate ma le perplessità restano. L’istituzione di un’agenzia “che promuovesse una reale condivisione di obiettivi strategici ambiziosi, e soprattutto la messa in comune delle risorse che sono necessarie per affrontare le sfide della ricerca attuale, colmerebbe una lacuna importante” – scrive Alessandro Schiesaro su Il Sole 24 Ore – perché oggi “manca un coordinamento fra le attività di ricerca svolte dei vari ministeri, primi fra tutti Miur (Istruzione, università e ricerca) e Salute, ma anche Agricoltura e Difesa, i cui obiettivi strategici sono diversi, come diverse sono le procedure di allocazione dei fondi”.
Ma l’attuale proposta desta perplessità sia per quanto riguarda i compiti e le funzioni del nuovo organismo, sia per la sua struttura. L’Agenzia sarebbe, in parte, una cabina di regia che verifica le linee generali degli sviluppi della ricerca nazionale e suggerisce aggiornamenti al Piano nazionale della ricerca (Pnr); in parte, un soggetto promotore e finanziatore in prima persona di progetti di ricerca; in parte ancora, il valutatore del loro impatto.
“Insomma – prosegue Schiesaro – troppo e troppo poco insieme. Troppo, perché alcune di queste funzioni sono già svolte da altri organismi. Ma anche poco: “perché creare un nuovo ente solo per «suggerire modifiche» al Pnr, o per sovrapporsi senza sostituirsi a nessuno degli attuali soggetti finanziatori?”.
Inoltre, “non è ancora chiaro se i 300 milioni di euro stanziati a partire dal 2022, siano aggiuntivi o sostitutivi rispetto ai fondi attualmente destinati ai vari ministeri”. E non si capisce quali saranno le relazioni tra l’Agenzia e le Università e gli Enti di ricerca, con il rischio che il nuovo organismo diventi “un livello ulteriore di complicazione e di negoziazione senza affermarsi come organismo autorevole e indipendente”.
Attualmente, la ricerca è finanziata tramite il Fondo di finanziamento ordinario (FFO) che che riguarda le spese per la ricerca scientifica, il funzionamento e le attività istituzionali delle università, le spese per i professori, i ricercatori e il personale non docente e per l’ordinaria manutenzione delle strutture universitarie. Si compone di una quota base, da ripartirsi tra le università in misura proporzionale, e una quota premiale. Di tale quota almeno tre quinti sono ripartiti tra le università sulla base dei risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR), un quinto sulla base della valutazione delle politiche di reclutamento universitario fatte dall'Anvur.
Lo scorso 9 dicembre oltre 5mila professori e ricercatori di 77 università italiane hanno lanciato un appello contro l’attuale progetto di agenzia nazionale della ricerca che non finanzierebbe la ricerca di base e destinerebbe le risorse in modo selettivo. “Dopo tanti anni di assenza totale di fondi per la Ricerca uno stanziamento selettivo non ci sembra né opportuno né idoneo”, si legge nella lettera. “Ad aree particolari è certamente lecito destinare risorse, ma devono essere aggiuntive, assegnate solo dopo aver già assicurato tutte le risorse necessarie alla ricerca di base, la vera essenza della ricerca, che ha come obiettivo primario lo sviluppo della cultura e dei saperi, senza necessità di finalizzazione immediata o materiale. Ciò senza voler togliere nulla alla ricerca applicata, che ha un arco temporale e finalità sue proprie diversi”.
L’Anvur e la valutazione della ricerca universitaria
Infine i ricercatori sollevano la questione dell’Anvur, ovvero dell’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca.
“Le modalità di valutazione della produzione scientifica da parte dell’Anvur – si legge nella lettera – rendono particolarmente difficili le condizioni dell’esercizio del lavoro della ricerca”. Da queste valutazioni dipendono, infatti, “gli avanzamenti di carriera in senso più strettamente scientifico, e il criterio vigente è una valutazione tendenzialmente algoritmica dei prodotti scientifici, delle singole persone e dei dipartimenti”.
Si tratta di un sistema di valutazione in linea con quelli internazionali con la differenza che “l’Italia investe complessivamente meno dell’1% del PIL sulla ricerca, rispetto alla media dell’1,5% dei paesi considerati dal rapporto Ocse Education at Glance del 2019". Questo meccanismo, inserito nel contesto italiano, provoca una sorta di corsa alla pubblicazione “con effetti disastrosi tanto sulla qualità dei contenuti quanto sul benessere personale”.
Le critiche nei confronti dell’Anvur non sono nuove. Istituita nel 2006, ma divenuta operativa dal 2011, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca e dell’Università ha iniziato a gestire il sistema di valutazione della ricerca con la cosiddetta legge Gelmini del 2010. L’Anvur fu infatti incaricato dal ministero di valutare la ricerca in base a un criterio bibliometrico che incrocia il numero di citazioni su riviste scientifiche internazionali con il prestigio delle stesse.
Nello specifico venivano criticati i criteri di valutazione adottati (numero di pubblicazioni e periodi di tempo in cui pubblicare presi in considerazione; l’utilizzo dell’H-index, l’algoritmo che valuta la concentrazione e la distribuzione delle citazioni; i titoli richiesti, ecc.) che finivano per privilegiare i grandi gruppi e generare pratiche discutibili di autocitazione tra colleghi, come mostrato da un saggio pubblicato sulla rivista scientifica Plos One da Alberto Baccini (ordinario di Statistica all’Università di Siena), Giuseppe De Nicolao (ordinario al dipartimento di Dipartimento di Ingegneria industriale e dell'informazione dell’Università di Pavia) ed Eugenio Petrovich (assegnista di ricerca al dipartimento di Economia Politica dell’Università di Siena).
Secondo la ricerca dei tre studiosi, “l’incrocio fra il taglio dei fondi e l’uso di indicatori bibliometrici spinge sempre più accademici a pubblicare a raffica e menzionare se stessi o colleghi”. In altre parole, per raggiungere un quantitativo minimo di citazioni e soddisfare i criteri del sistema di valutazione in modo tale da ottenere abilitazioni o mantenere un profilo competitivo, i ricercatori cercano di pubblicare il più possibile, anche a scapito della qualità, ricorrendo anche alle auto-citazioni (quando un autore riprende se stesso) o creando i cosiddetti “club citazionali” (vale a dire lo scambio di menzioni fra colleghi che si conoscono o hanno lavorato insieme).
L’inghippo, spiegano gli autori dell’articolo, sta proprio nella natura stessa degli indicatori bibliometrici: “nati per fornire un appiglio «quantificabile» alla produzione scientifica, possono finire per creare distorsioni, (...) la rincorsa disperata a sommare pubblicazioni o «citarsi addosso» per raggiungere le soglie imposte dai criteri bibliometrici adottati in forma ufficiale”.
Un altro articolo, scritto da Pietro D’Antuono e Michele Ciaravella, in fase di peer review sempre su Plos One, ha messo in discussione le conclusioni cui giungono De Nicolao, Baccini e Petrovic, sostenendo che “le auto-citazioni non sono rilevanti”. Tuttavia, gli autori spiegano che "il fenomeno del doping auto-citazionale è avvenuto in Italia dall’introduzione di Anvur (ma in realtà a livello di ricerca top siamo abbastanza stabili da questo punto di vista)". Per questo più che parlare di soppressione del sistema di valutazione, D’Antuono e Ciaravella suggeriscono "delle revisioni dei parametri bibliometrici che hanno spinto gran parte della comunità scientifica a lavorare di più (che sicuramente non sempre significa a lavorare meglio, ma è il resto del mondo a giudicare questo tramite, appunto, le citazioni)".
A fine novembre, il Miur ha pubblicato le nuove linee guida per la valutazione della ricerca. Alla vigilia del Decreto Ministeriale, Fabio Beltran, Fisico della Materia alla Normale di Pisa e membro del Consiglio Direttivo dell’Anvur, sottolineava la necessità di migliorare il sistema di valutazione individuando criteri che tengano conto delle specificità disciplinari; che sappiano valutare “la qualità della ricerca dell’ateneo, partendo non dalla somma del lavoro dei singoli ma dalla capacità di visione e scelta degli atenei”; che riescano a qualificare “il valore scientifico dei singoli risultati, la bontà delle scelte degli atenei su reclutamento e utilizzo delle risorse ministeriali”.
Alla luce di tutte le criticità sollevate, il gruppo “Ricercatori Determinati” chiede "una riforma immediata del reclutamento e del pre-ruolo, eliminando le forme di precariato e para-subordinazione", un ripensamento dell'attuale sistema di valutazione "a partire dalla soppressione dell’Anvur", un incremento di almeno 200 milioni di euro del Fondo Integrativo Statale per il diritto allo studio, "senza che ciò abbia ricadute sulle altre componenti del mondo universitario e in particolare sul reclutamento del personale di ricerca”.
Foto in anteprima via Ansa