Una falla di sicurezza nell’UE: l’Ungheria filocinese
10 min letturaIl 10 dicembre del 2018 l’ex diplomatico e consulente sull’Asia nord-orientale per l’International Crisis Group Michael Kovrig, cittadino canadese, sta camminando per una strada di Pechino, quando viene arrestato dalle autorità cinesi con l’accusa di spionaggio. Poche ore dopo, anche il connazionale Michael Spavor, imprenditore in rapporti più che cordiali con il leader nordcoreano Kim Jong-Un, riceve lo stesso trattamento.
Da allora entrambi i canadesi sono detenuti in un carcere in Cina, praticamente senza contatti con l’esterno. Il loro processo, iniziato lo scorso marzo, si sta tenendo a porte chiuse.
L’arresto dei “due Michael” seguiva di poco più di una settimana quello di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria di Huawei, arrestata dalla polizia di frontiera canadese all’aeroporto di Vancouver ed in seguito estradata negli Usa. Tempistiche che hanno spinto la maggioranza degli osservatori occidentali a interpretare l'inaspettata incarcerazione dei due canadesi come una rappresaglia con cui Pechino ha inteso punire il Canada, colpevole di complicità in un atto intimidatorio ordito dagli Usa, come è stato percepito il fermo di Wanzhou.
In questi due anni e mezzo la diplomazia canadese ha messo in campo tutto il proprio potenziale per ottenere la scarcerazione dei due connazionali, mobilitando alleati Nato e partner internazionali.
L’ultima iniziativa lo scorso febbraio, quando Ottawa ha lanciato una petizione internazionale per proibire l'utilizzo della detenzione arbitraria come strumento di ricatto nelle relazioni internazionali. Il documento non menziona direttamente la Cina, né i nomi di Kovrig e Spavor, ma l’antifona è facile da cogliere.
Solo uno Stato tra i 27 paesi Ue non ha sottoscritto la petizione: l’Ungheria. Questo sebbene Kovrig abbia anche passaporto ungherese. I suoi genitori lasciarono l’Ungheria dopo la fallita rivolta anti-sovietica del 1956.
Tra la Pannonia e l’Est
Non è la prima volta che Budapest infrange l’unità del fronte occidentale su dossier che riguardano, direttamente e non, la Cina.
L’ultima volta a metà maggio, quando l’Ue non è riuscita a produrre una dichiarazione congiunta di condanna della limitazioni anti-democratiche imposte da Pechino a Hong Kong, proprio a causa dell’ennesimo veto dell’Ungheria. Un niet particolarmente audace, considerando che il testo finale della dichiarazione era stato di molto annacquato proprio per accomodare le richieste magiare.
Ancora più significativo quanto avvenuto a marzo. Il 22 marzo il Consiglio europeo aveva imposto delle sanzioni ad alcuni funzionari cinesi ritenuti colpevoli della violazione di diritti umani. Budapest, in questo caso, non aveva posto il veto limitandosi a bollare la scelta dell’organo Ue come “immotivata e dannosa”. Tuttavia, solo tre giorni più tardi il governo ungherese ha accolto con tutti gli onori il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe. Un modo per chiarire a tutti da quale parte Budapest intenda schierarsi, al netto degli oneri di rito imposti dall’appartenenza all’Ue.
Questo genere di mosse non nascono da un tentativo estemporaneo di accattivarsi le simpatie di Pechino per raccattare qualche investimento in più. Sono parte di una strategia organica.
Dal suo ritorno sulle scene nel 2010, il premier magiaro Viktor Orbán ha subito varato una politica di “Apertura all’Est” (Keleti Nyitás, in ungherese). Riassunta in poche righe: secondo gli orbaniani, in un mondo sempre più multipolare e post-americano, è necessario rafforzare le relazioni economiche con le potenze emergenti dell’Eurasia - Cina e Russia, ma Asia centrale e Sud-Est asiatico - agendo da solista e sfruttando il contesto Ue solo quando utile ai proprio interessi. Come riassunto da Orbán a Pechino nel 2009, “l’Ungheria sventola una bandiera occidentale, ma oggi il vento soffia da Est: la rotta va aggiustata di conseguenza”.
Se sui risultati effettivamente ottenuti dell’apertura a Est sul piano economico esistono visioni divergenti (per alcuni analisti è stata un successo, per altri un flop), il suo effetto sul piano politico è riscontrabile da chiunque: oggi, di tutto il blocco comunitario, l’Ungheria è lo Stato che più si può definire “filocinese”. Budapest si differenzia da tutti gli altri 26 partner Ue perché non si limita a fare affari e a operare dietro le quinte per favorire i cinesi, come fa per esempio Berlino, ma professa pubblicamente la propria sinofilia senza nessun apparente timore di meritarsi le reprimenda di Nato e Ue. Tra gli Stati europei, soltanto in Serbia, un paese che come l’Ungheria sta attraversando un processo di autocratizzazione, il soft power cinese sembra più pervasivo di quanto sia nel paese centro-europeo.
L’Ungheria con caratteristiche cinesi
I molteplici esempi che confermano l’affiatamento dell’inedita coppia Budapest-Pechino toccano uno spettro di ambiti molto eterogeneo, dall’ideologia alla cooperazione militare, passando per infrastrutture e tecnologia.
Già nel celebre discorso del 26 luglio 2014 con cui Orbán sdoganava l’idea della “democrazia illiberale”, la Cina veniva menzionata, assieme a Singapore, India, Turchia e Russia come un modello politico da emulare. In visita a Pechino tre anni più tardi, Orbán era tornato a elogiare la via cinese, sostenendo che fosse ormai da considerare “offensivo” il fatto che “pochi paesi sviluppati continuassero a dare lezioni al resto del mondo su diritti umani, democrazia, progresso ed economia di mercato”.
In quella occasione il premier ungherese aveva inoltre dichiarato di aver siglato accordi importanti, “il più spettacolare” dei quali avrebbe riguardato un’infrastruttura in seguito assurta a emblema delle nuove vie della seta, il megalomanico piano cinese per integrare l’intera Eurasia sul piano commerciale: la ferrovia Belgrado-Budapest.
Il potenziamento di questa linea era stato ventilato per la prima nel 2013 dai tre primi ministri di Cina, Ungheria e Serbia. Secondo quanto riportato da Railway Technology, nel 2019 l’appalto (1,75 miliardi di euro) per la costruzione del tratto ungherese (150 km) è stato vinto da un consorzio sino-ungherese, composto per metà dalla magiara RM International e per metà dalle cinesi China Tiejiuju Engineering & Construction e China Railway Electrification Engineering Group, le ferrovie cinesi. Il governo ungherese si è impegnato a finanziare i lavori per l’85% tramite un prestito della banca cinese Exim e per il restante 15% attingendo a risorse pubbliche già disponibili. Una dinamica di finanziamento opaca simile a quella che ha portato il Montenegro a divenire un esempio paradigmatico di vittima della trappola del debito cinese, come denunciato dall’attuale governo montenegrino lo scorso aprile. Nell’intenzione di Pechino, il potenziamento della linea Belgrado-Budapest, che prevede la modernizzazione dell’infrastruttura esistente e la costruzione di una nuova linea per l’alta velocità parallela, dovrebbe velocizzare il passaggio dei treni merci che correranno sulla tratta Atene-Skopje-Belgrado-Budapest. Le merci sbarcate al porto del Pireo, ormai un hub cinese, raggiungeranno più rapidamente i mercati dell’Europa centro-occidentale.
Un altro campo su cui gli ungheresi paiono pronti a sfidare gli alleati riguarda Huawei, divenuta negli ultimi due anni uno dei terreni di scontro più accesi tra Usa e Cina, come suggerito dall’arresto di Meng Wanzhou. L’azienda hi-tech, che a Budapest già ha il proprio centro logistico più grande tra quelli situati fuori dalla Cina, progetta di costruire nella capitale ungherese anche un centro di ricerca e sviluppo. Inoltre, secondo uno studio della Oxford Economics citato da Bne, circa il 14% di tutti materiali che Huawei acquista in Europa proviene da fornitori ungheresi (un volume d'affari di quasi 1,2 miliardi di euro), e tra dipendenti e indotto sono più di 15 mila i cittadini ungheresi impiegati grazie alla compagnia cinese. Cifre che contribuiscono a spiegare perché l’Ungheria sia stata l’unico Stato Ue a non aver ancora aderito in nessun modo alla campagna indetta da Washington per estromettere Huawei dallo sviluppo del 5G.
Allo stesso modo, l’Ungheria è stata anche il primo - e ad oggi unico - paese Ue ad aver approvato l’utilizzo del vaccino cinese Sinovac, oltre a quello del russo Sputnik V. Durante il decennio orbaniano Budapest si è infatti avvicinata molto anche a Mosca, ma quando si è trattato di indicare chi tra i due partner orientali sia al primo posto non c’è stato dubbio. Lo scorso primo marzo Viktor Orbán si è vaccinato proprio con il Sinovac, a favore di telecamera - mossa peraltro replicata anche dal collega serbo Aleksandar Vučić il mese seguente.
E, secondo i media cinesi, al vertice di fine marzo il ministro Fenghe avrebbe addirittura alluso alla possibilità di declinare la cooperazione sino-ungherese anche sul piano militare, una scelta che collocherebbe Budapest in una posizione inedita nel consesso Nato, perdipiù in una fase geopolitica plasmata dall’inasprimento dello scontro tra Usa e Cina. Anche in questo campo, l’Ungheria sembra viaggiare alla stessa velocità della Serbia. Lo scorso novembre Vučić ha assistito all’esercitazione Cooperation 2020, dove sono stati impiegati i droni di fabbricazione cinese CH-92A.
In questa sequela di mosse filocinesi, una, forse oscurata dalla diplomazia dei vaccini e dalla faida su Huawei, ha ricevuto relativamente poca attenzione in Italia: a metà gennaio, il governo ungherese ha annunciato l’intenzione di inaugurare a Budapest un campus dell’università cinese Fudan. Quando sorgerà, nel 2024, sarà il primo campus di un ateneo cinese su suolo europeo.
Poiché la decisione è stata presa poco più di due anni dopo la cacciata della Central European University, una delle università più prestigiose e liberali del Vecchio continente, decisa nel quadro del generale attacco al mondo dell’accademia condotto dagli orbaniani, la valenza simbolica di questo avvicendamento è notevole.
Il cavallo di Troia della Cina in Europa
Proprio lo sbarco della Fudan in terra magiara è stata uno degli oggetti su cui si è concentrata la recente inchiesta pubblicata dal portale investigativo Direkt36, una delle ultime voci indipendenti rimaste in Ungheria, che ha affrontato una sfaccettatura rimasta finora nell’ombra della liaison sino-magiara: lo spionaggio.
Questa dettagliata indagine, corroborata da più di sessanta interviste con esperti ed ex funzionari ungheresi, ha avuto il merito di scandagliare con cura i tanti processi che stanno portando l’Ungheria a diventare il “cavallo di Troia della Cina in Europa”, ovvero una testa di ponte da cui l’intelligence cinese potrebbe infiltrarsi e operare nel resto del blocco.
La Fudan, innanzitutto, non è soltanto un ateneo di livello mondiale, ma è anche una sorta di scuola di formazione del Partito comunista cinese (Pcc). Un recente leak ha rivelato che più di un quarto dei membri del corpo docenti e degli studenti hanno la tessera del Pcc. Nel 2019 dalla carta dei valori i riferimenti alla libertà di pensiero e all’indipendenza della ricerca accademica sono stati sostituiti da impegni a seguire la linea del partito. L’Istituto di Studi Internazionali della Fudan, inoltre, collabora da tempo con il servizio di intelligence all’estero cinese e nel 2011 la stessa università ha inaugurato una propria scuola di spionaggio.
Ma la prossima apertura della Fudan è soltanto il nodo più vistoso di una rete già molto capillare. Una rete dove una funzione speciale è giocata dalla “citizen intelligence” (renmin qingbao, in cinese), l’attività di spionaggio dal basso compiuta da ordinari cittadini. L’articolo 7 della Legge nazionale sull’intelligence, promulgata dalla Cina nel 2017, recita infatti: “Tutte le associazioni e gli individui sono tenuti e sostenere, assistere e cooperare con gli sforzi dell’intelligence nazionale nei modi previsti dalla legge (..)”. Un ex funzionario della AH, l’Ufficio di protezione della Costituzione, il contro-spionaggio ungherese, ha spiegato che l’intelligence cinese coopta studenti e imprenditori nella raccolta di informazioni a prima vista secondarie. Ordinati e sistematizzati, i report compilati da queste persone permettono alle autorità cinesi di monitorare dove e come si parla della Cina all’estero. I cittadini cinesi vengono coinvolti nelle attività spionistiche anche effettuando compiti più semplici, come traduzioni e trascrizioni di conversazioni registrate da spie professioniste.
Direkt36 sottolinea che, se naturalmente non tutti i cittadini cinesi che viaggiano in Europa sono spie, è però evidente come l’intelligence cinese riesca ad essere molto persuasiva verso i propri connazionali. I funzionari cinesi giocano sul sentimento patriottico, offrono piccole somme, oppure semplicemente minacciano ritorsioni su parenti e amici rimasti in Cina.
Nel decennio di governo Orbán il numero di studenti cinesi in Ungheria è aumentato notevolmente. Non tanto come conseguenza dell’apertura a Est, quanto perché i tagli imposti dall’esecutivo al settore accademico hanno obbligato molti atenei ad attivarsi per attrarre studenti stranieri in grado di permettersi il pagamento dell’intera retta, tra cui molti cinesi. Secondo i dati dell’Istat ungherese, nel 2013 erano solo 446 gli studenti cinesi nel paese. Sei anni dopo erano diventati 2776. La Cina è oggi il secondo paese di provenienza dopo la Germania tra gli studenti stranieri che vivono in Ungheria.
In aggiunta, l’iniziativa Hungarian Residency Bond Program, lanciata da Budapest nel 2012 per attrarre stranieri facoltosi nel paese e interrotta cinque anni più tardi, ha permesso a circa 20 mila persone di accaparrarsi i cosiddetti “visti d’oro”. Circa l’80% dei beneficiari sono stati cittadini cinesi. Come anche in altri Stati Ue che sono ricorsi a questa prassi controversa, anche in Ungheria l’erogazione di visti d’oro a un ritmo così elevato ha messo in crisi il controspionaggio. Ritrovandosi oberati di troppe richieste di verifica dei profili degli aspiranti beneficiari, da effettuare entro massimo trenta giorni, i funzionari hanno dovuto necessariamente sacrificare la puntigliosità. Molte persone hanno così ottenuto il documento, che garantisce il diritto di residenza in Ungheria e la possibilità di circolare liberamente per l’area Schengen, senza che lo Stato ungherese abbia potuto prima verificare che non fossero spie.
L’inchiesta di Direk36 ha osservato, infine, anche un altro fenomeno che potrebbe essere connesso allo spionaggio cinese. Negli ultimi anni, il mercato immobiliare di Budapest è stato colonizzato da acquirenti cinesi e, in misura minore, russi. Nel 2019, per esempio, circa 3 mila proprietà sono state acquistate da stranieri: più di metà di loro erano cinesi. Sebbene per il momento non esistano prove, il fatto che queste abitazioni nel centro della capitale (quartieri V, VI e VII) vengano spesso comprate a prezzi fuori mercato potrebbe suggerire che si tratti di un’azione coordinata da parte dell’intelligence cinese.
Alla fine del 2020, si sono, come da prassi, riuniti a porte chiuse i rappresentanti civili e militari del controspionaggio ungherese. In questa sede si è preso nota dell’incremento della attività di spionaggio della Cina in Ungheria e nell’Ue, ma non sono stati proposti provvedimenti specifici.
Lo scorso aprile, invece, sono state diffuse le clausole che regoleranno la costruzione del campus della Fudan in Ungheria. Esattamente come nel caso della ferrovia Belgrado-Budapest, l’Ungheria finanzierà il progetto tramite un prestito di circa 1.25 milioni di euro con la banca cinese Exim. Verranno utilizzate materie prime cinesi e impiegata manodopera cinese.
E sarà cinese anche l’azienda costruttrice: la China State Construction Engineering Corporation, già accusata di aver condotto attività di spionaggio in Etiopia e per questo inserita nella black list del Dipartimento di Stato americano lo scorso 28 agosto.
Foto anteprima via Xinhuanet