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Ungheria: storia di una democrazia sempre più illiberale (e della sua possibile fine)

1 Aprile 2025 8 min lettura

Ungheria: storia di una democrazia sempre più illiberale (e della sua possibile fine)

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Il 18 marzo il parlamento ungherese ha approvato una modifica alla legge che regola il diritto di assemblea vietando l’organizzazione e la partecipazione a eventi che violino le norme vigenti in Ungheria sulla protezione dell’infanzia.

In sostanza, è stato vietato il Pride, che tradizionalmente si tiene a Budapest a fine giugno. 

L’approvazione di questo provvedimento, accolto con un’accesa protesta dai banchi dell’opposizione, è solo il culmine di una serie di iniziative e di dichiarazioni che il governo ungherese e in primis il suo massimo esponente Viktor Orbán hanno preso nelle ultime settimane, dando la sensazione che la gestione del paese si trovi ormai su un piano inclinato. 

Qualche giorno prima era stato presentato e approvato l’ultimo emendamento della Legge Fondamentale ungherese, la base dell’ordinamento giuridico, che nel 2012 ha sostituito la Costituzione del 1989, e che nel corso degli anni è stata emendata ben quindici volte a uso e consumo del rafforzamento del potere di Viktor Orbán e di Fidesz, il suo partito.

Questa nuova modifica sancisce tra le altre cose il diritto per i minori alla tutela del proprio sviluppo fisico, psicologico e morale. Un emendamento che si combina alla legge in difesa dei bambini del 2021 (detta anche legge anti LGBTQ) che vieta la diffusione di contenuti che possano rappresentare o promuovere l'omosessualità o il cambio di genere.

Il Pride non si potrà dunque più organizzare pubblicamente. Nel caso in cui questo divieto venisse contravvenuto a essere perseguiti non saranno solo gli organizzatori, ma anche i partecipanti che potranno incorrere in multe fino a 200mila fiorini ungheresi, l’equivalente di circa 500 euro.

L’identificazione dei trasgressori potrà avvenire attraverso l’utilizzo di appositi software, per quella che è una significativa restrizione nel diritto di pacifica assemblea e libertà di espressione. Per manifestare la propria preoccupazione 22 ambasciatori di diversi paesi – l’Italia non era tra questi – hanno sottoscritto una dichiarazione in cui si evidenzia come la legge anti Pride violi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

“Cimici da eliminare”

In questo contesto risulta ancora più sinistro il discorso tenuto da Viktor Orbán il 15 marzo, festa nazionale ungherese in cui si celebra l’inizio dei moti contro l’Impero asburgico nel 1848.

In un discorso di inusitata violenza il primo ministro magiaro ha apostrofato politici, giudici, giornalisti, ONG come “cimici che sono sopravvissute all’inverno e che bisogna eliminare con le pulizie di Pasqua”. Il riferimento è a tutti quei soggetti che secondo Orbán sono finanziati dai “dollari corrotti” dell’impero liberale del solito George Soros in combutta con Bruxelles. 

Nella sua visione l’Europa del 2025 sostituisce l’Impero asburgico nel tentativo di sopprimere le libertà ungheresi, a cui difesa si erge Fidesz che “da 15 anni si batte con successo a pressioni e minacce straniere”. 

Ma a cosa alludeva Orbán parlando di pulizie di Pasqua? Si possono fare delle congetture.
La prima potrebbe essere il riferimento a un altro punto dell’emendamento della Legge Fondamentale recentemente approvata, secondo cui la cittadinanza ungherese può essere sospesa a un cittadino con doppio passaporto che viene ritenuto essere una minaccia per la sicurezza dell’Ungheria. Non è chiaro come avverrebbe questa sospensione e se ci sarebbero delle garanzie giudiziarie.

Si tratterebbe  di un modo di eliminare i cosiddetti “agenti stranieri”, ma sarebbe un’operazione talmente drastica da presentare numerosi problemi legali, e non è detto che Fidesz decida di emanare una legge in tal senso. 

La seconda ipotesi fa riferimento a un disegno di legge attualmente in lavorazione per fare in modo che gli europarlamentari dichiarino il proprio patrimonio. La nuova normativa si estenderebbe anche ai familiari degli eurodeputati e ufficialmente mira a ripristinare la fiducia nell’amministrazione pubblica e aumentare la responsabilità dei rappresentanti.

Nei fatti l’operazione avrebbe un altro obiettivo, ovvero l’unica vera opposizione a Orbán, il partito Tisza, guidato dal suo leader Péter Magyar, che siede, guarda caso, proprio nel Parlamento Europeo. 

Il paradosso dell’opposizione

La situazione ungherese è paradossale. L’opposizione che si trova nel parlamento ungherese è infatti espressione del risultato delle elezioni del 2022. Un’opposizione frantumata, frastagliata, nei fatti inesistente se non per qualche sussulto e iniziativa portata avanti dal movimento Momentum.

Al contrario, Tisza (in italiano Tibisco) è un partito che ha conosciuto un’esplosione dei consensi a partire da febbraio dell’anno scorso, qualche mese prima delle elezioni europee. Le sue fortune sono strettamente legate a quelle di Péter Magyar, ex membro del cerchio magico di Orbán ed ex marito della ministra della Giustizia, Judit Varga. A seguito della fine del loro rapporto, Magyar ha reso pubbliche delle registrazioni fatte di nascosto in cui la moglie rivelava fatti compromettenti di alcuni esponenti del governo. Lo scandalo che ne è nato ha segnato l’inizio dell’ascesa politica di Magyar come principale avversario di Orbán. Alle europee di giugno 2024 il suo partito aveva già conquistato quasi il 30% dei consensi.

Il messaggio che porta avanti è quello di voler rovesciare un sistema basato sul clientelismo e sulla corruzione. In questo modo è riuscito ben presto a intercettare il favore della gente frustrata dalle continue sconfitte elettorali e dalla mancanza di rappresentanza in parlamento. 

Allo stesso modo Magyar, che certamente non è di sinistra, sembra essere riuscito a sottrarre a Fidesz il favore di una buona fetta di elettori conservatori, in un momento in cui all’interno del Paese le cose non girano più come una volta. Da un paio d’anni l’economia è a crescita zero e l’inflazione è tornata a colpire, al punto da convincere il governo a reintrodurre il tetto al prezzo massimo di alcuni prodotti alimentari di prima necessità.

Le prospettive insomma sono poco rosee e questo si riflette in uno scarso entusiasmo. Il 15 marzo mentre Orbán pronunciava il suo discorso davanti a 10mila persone, almeno il quintuplo si radunava alla manifestazione indetta dal suo rivale.

Anche sondaggi parlano chiaro: oggi Tisza sarebbe il primo partito con il 46% dei consensi, mentre Fidesz è staccato al 37%. 

Una situazione inedita in cui Orban non si è mai trovato e che potrebbe spiegare il suo nervosismo e la sua aggressività nei comizi. Le prossime elezioni parlamentari si terranno infatti l’anno prossimo e per la prima volta negli ultimi quindici anni Fidesz troverà un vero avversario.

Il sistema Orbán che rende difficili alternative a Fidesz

Va comunque sottolineato come al partito di Magyar potrebbe non bastare il raggiungimento della maggioranza relativa. Il sistema di voto ungherese prevede che i 199 deputati dell’Assemblea Nazionale siano eletti attraverso un sistema misto, maggioritario e proporzionale, con una prevalenza dell’importanza del primo sul secondo: 93 parlamentari vengono infatti eletti con il proporzionale su base nazionale, in cui i partiti presentano i propri candidati in listini bloccati. I restanti 106, quindi la maggioranza, vengono eletti tramite sistema maggioritario in collegi uninominali secchi, forgiati ad arte da Fidesz attraverso continui ritocchi alla legge elettorale in modo da far pesare in modo determinante il voto della aree rurali, dove tradizionalmente va più forte, e garantirsi quindi un vantaggio di partenza.

Inoltre, i sondaggi generalmente non tengono conto delle intenzioni di voto degli elettori che vivono al di fuori dei confini nazionali. Nonostante l’Ungheria sia oggi un paese di modeste dimensioni, molti dei suoi cittadini vivono negli Stati limitrofi, in conseguenza delle decisioni del trattato del Trianon, che al termine della Prima guerra mondiale ridimensionarono considerevolmente i confini dell’allora nascente regno d’Ungheria. Queste persone oggi votano grazie alla concessione della cittadinanza decisa proprio da Orbán. Le comunità ungheresi all’estero sono state quindi trattate sempre con un certo riguardo dal governo di Budapest, potendo contare sul loro voto di ritorno al momento delle elezioni.

Il sistema Orbán garantisce una sorta di win win. Se una vittoria dell’opposizione è difficile – anche se in questo momento tutt’altro che impossibile – in caso di vittoria il nuovo esecutivo si troverebbe di fronte a un paese difficilmente governabile, dove ogni organo di controllo è saldamente nelle mani di Fidesz, dopo quindici anni di dominio incontrastato. La maggioranza dei due terzi del Parlamento necessaria per apportare le modifiche alla Costituzione è di fatto praticamente impossibile per qualunque soggetto politico diverso da quello che oggi è al governo.

La costruzione della democrazia illiberale e la sua possibile fine

L’Ungheria in questi ultimi 15 anni ha percorso una sorta di marcia spedita verso la costruzione del modello di democrazia illiberale teorizzato da Orbán in un celebre discorso pronunciato nel 2014:

“In altre parole, la nazione ungherese non è un semplice insieme di individui, ma una comunità che deve essere organizzata, rafforzata e persino costruita. In questo senso, il nuovo stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno Stato illiberale, non uno Stato liberale. Non nega i valori fondamentali del liberalismo, come la libertà, e potrei menzionarne altri, ma non fa di questa ideologia l'elemento centrale dell'organizzazione statale, ma contiene un approccio diverso, specifico e nazionale”.

A favorire la nascita della concezione dello Stato-partito a guida Fidesz fu la schiacciante vittoria elettorale conseguita nel 2010. Una vittoria arrivata otto anni dopo la conclusione della prima esperienza di Orbán alla guida del governo, che era stata caratterizzata da politiche di stampo neoliberista, atlantista e almeno in parte europeista. Tutto il contrario di quella che è stata la sua seconda vita politica.

La debacle del Partito socialista ungherese (MSZP) spalancò a Fidesz le porte verso la maggioranza dei due terzi del parlamento, che gli permisero di mettere subito mano alle modifiche costituzionali e alla legge elettorale necessarie per assicurarsi la vittoria anche nelle elezioni successive.

Le fondamenta dell’Ungheria di oggi sono state gettate allora. Una politica economica volta a favorire la creazione di pochi conglomerati allineati con il potere, la presa della tv pubblica e delle istituzioni culturali, e la fine di un sistema informativo plurale finito nelle mani di pochi oligarchi, sono stati il passo immediatamente successivo.

Nel 2015 la crisi migratoria sulla rotta balcanica ha fatto assurgere Orbán a paladino del sovranismo europeo, in difesa dei “valori cristiani dell’occidente”. È stato quello il momento in cui il primo ministro ungherese è diventato punto di riferimento per molti politici del continente e ponte ideale di quell’asse internazionale che ancora oggi collega Mosca a Washington.

Di contro il suo braccio di ferro con Bruxelles ha portato a un crescente isolazionismo nel consesso comunitario. Dalla questione dello Stato di diritto alla guerra in Ucraina, passando per l’opposizione alle politiche sulla trasformazione energetica, Orbán da anni conduce una guerra di logoramento su tutti i fronti possibili. Uno degli ultimi in ordine temporale riguarda la legge sulla protezione della sovranità, approvata lo scorso anno. La legge prevede l’istituzione di un organo di controllo, il cosiddetto Ufficio per la tutela sovranità (SPO) per indagare su persone e organizzazioni sospettate di minare la “sovranità nazionale”. L’SPO, che si può avvalere dell’aiuto dei servizi segreti, può raccogliere informazioni su individui o gruppi che ricevono finanziamenti dall’estero e che si ritiene influenzino l’ordinamento democratico negli interessi di un altro Stato.

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Per questa legge, la Commissione europea ha citato in giudizio l’Ungheria, a causa delle forti criticità che riguardano la violazione delle libertà personali, della libertà di espressione e di informazione. Aspetti che vengono messi sempre più in crisi dalle nuove disposizioni e dalle dichiarazioni programmatiche del governo.

A un anno dalle elezioni e in questo contesto politico così cambiato viene da chiedersi fino quanto possano stringersi ancora le maglie della democrazia illiberale, fin quando sarà lecito definirla ancora una democrazia, e soprattutto cosa accadrà se tra un anno Viktor Orbán dovesse infine tornare a conoscere il sapore amaro della sconfitta.

Immagine in anteprima: frame video DW via YouTube

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