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Sulla pillola abortiva l’Umbria, abolendo il day hospital, torna indietro e non sa spiegare perché. Un regalo alle associazioni contro la libertà di scelta

20 Giugno 2020 10 min lettura

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Sulla pillola abortiva l’Umbria, abolendo il day hospital, torna indietro e non sa spiegare perché. Un regalo alle associazioni contro la libertà di scelta

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Con una delibera della giunta regionale, l’Umbria ha abrogato la possibilità di accedere all’aborto farmacologico – attraverso la pillola Ru486 – in day hospital o al proprio domicilio, sotto osservanza del medico. Secondo le nuove norme, quindi, per l’interruzione di gravidanza con metodo farmacologico sarà necessario un ricovero di tre giorni.

La decisione ha scatenato le proteste di associazioni di ginecologi, donne e movimenti femministi, secondo cui la scelta presa dalla Regione è punitiva nei confronti delle donne che vogliono abortire, e rappresenta un insensato ritorno al passato, oltre a essere in contrasto con l’esigenza di ridurre gli accessi negli ospedali in questa seconda fase della pandemia. È stata creata una petizione online, e domenica è prevista una manifestazione in piazza IV Novembre a Perugia.

La presidente della Regione Umbria Donatella Tesei, del centro-destra, dal canto suo, ha detto di aver agito nell’interesse della tutela della salute delle donne, nonostante abbia ammesso di non avere dati scientifici a supporto. Nel frattempo, movimenti ed esponenti politici contro la libertà di scelta hanno festeggiato la decisione.

La decisione dell’Umbria e la RU486 in Italia

La delibera dell’Umbria contiene delle linee di indirizzo per le attività sanitarie nella fase 3 della risposta alla pandemia di COVID-19. Il provvedimento abroga una legge regionale dell’amministrazione precedente guidata da Catiuscia Marini che prevedeva la possibilità di somministrare la RU486 in regime di day hospital o a domicilio. La decisione, si legge nel testo del provvedimento, si rifà alle indicazioni ministeriali del 2010 “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza” e ai pareri del Consiglio Superiore di Sanità che “ribadiscono la necessità di regime di ‘ricovero ordinario’”.

«Io difendo le donne: per l'aborto farmacologico ci vogliono tre giorni di ricovero. Io mi limito ad applicare le linee guida del Ministero della Sanità», ha dichiarato Tesei, spiegando di applicare la legge 194. «Le donne sono libere di scegliere, ma in sicurezza. Ma credo sia naturale voler difendere la vita. L'aborto farmacologico è una cosa delicata».

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito l’aborto farmacologico una procedura sicura, utilizzabile fino alle prime nove settimane di gestazione. Nonostante questo, la Ru486 non ha mai avuto vita troppo facile nel nostro paese.

Le linee guida cui fa riferimento la presidente dell’Umbria, sono quelle emanate dal Consiglio Superiore di Sanità (e poi recepite dal Ministero della Salute) nel 2010, ossia un anno dopo dell’arrivo della RU486 in Italia. La pillola è stata infatti autorizzata dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) nel 2009, stabilendone la somministrazione solo “entro la settima settimana di gestazione” e “soltanto in ambito ospedaliero”. In Francia era stata introdotta già nel 1988, mentre nel Regno Unito nel 1990.

Il Ministero della Sanità nel suo documento di indirizzo prevede l’utilizzo della RU486 con ricovero ospedaliero ordinario programmato di tre giorni, ma lascia alle Regioni la possibilità di organizzarsi in un altro modo. E qualcuna l’ha fatto. L’Umbria, ad esempio, nel 2018, aveva introdotto la possibilità di abortire con la pillola entro la settima settimana di gravidanza chiedendo agli ospedali di organizzare la prestazione con tre accessi in day hospital. Una simile procedura è stata adottata anche in Lombardia, Emilia Romagna, Lazio e Toscana – dove recentemente una risoluzione ha previsto l’accesso alla pillola anche nei consultori. Nelle altre regioni è previsto il ricovero ospedaliero di tre giorni – questo dove l’aborto con la RU486 è disponibile.

Nella migliore delle ipotesi – cioè nelle regioni che hanno scelto il day hospital - per una donna che vuole interrompere la gravidanza con il metodo farmacologico si prospettano almeno tre accessi in ospedale. Paradossalmente, un’interruzione di gravidanza con metodo chirurgico – e cioè attraverso un intervento con anestesia – inizia e si conclude in poche ore.

Come ha spiegato a Internazionale la dottoressa Giovanna Scassellati, dirigente del reparto Day hospital-day surgery 194 dell’ospedale San Camillo di Roma, infatti, ad esempio nel Lazio la somministrazione della RU486 funziona in questo modo: una volta accertato che è nelle prime settimane di gravidanza, alla donna viene assegnato un letto in reparto e le viene somministrata la prima pillola, mifepristone – un farmaco che determina una riduzione dei fattori che favoriscono la gravidanza. Il ricovero dura circa tre ore, poi la donna torna a casa. Dopo 48 ore torna in ospedale per assumere altre due pillole di un altro farmaco, il misoprostolo. Dopo quattordici giorni dall’aborto, viene fissata una visita di controllo.

Anche dove la regola dei tre giorni di ricovero è stata adottata, la maggior parte delle donne ha scelto volontariamente le dimissioni dopo l’assunzione del primo farmaco, prenotando un nuovo ricovero a due giorni di distanza per prendere il secondo e terminare la procedura. L’uso emerge dal resoconto del Ministero della Salute del 2010-2011, a distanza di due anni dall’introduzione della possibilità di aborto farmacologico in Italia. Secondo il report, tre donne su quattro avevano fatto ricorso alla dimissione “volontaria” dopo la somministrazione della prima pillola. In molte regioni questa percentuale superava l’80%. I dati reali, secondo i ginecologi, adesso sono sopra il 90%.

Dal momento che però la necessità di ricoveri e letti ospedalieri è contenuta nelle linee guida, durante i mesi di lockdown, il servizio di aborto farmacologico è stato sospeso da molti ospedali, sovraffollati e oberati dall’emergenza COVID-19 – oltre ai rischi di contagio di un ricovero. Il che ha comportato una grave compressione dei diritti delle donne.

Per questo motivo la Società italiana di ginecologia e ostetricia (SIGO) aveva espressamente richiesto di favorire l’aborto farmacologico in questo periodo, proprio per tutelare la salute delle donne e non congestionare le strutture sanitarie, rivedendo alcuni aspetti: “Una riorganizzazione adeguata che persegue l’obiettivo di facilitare e de-ospedalizzare l’aborto, prevedendo un maggior coinvolgimento degli ambulatori, può rappresentare una soluzione efficace sia per le donne, tutelandone un diritto sancito dalla legge italiana, sia per decongestionare gli ospedali, tanto più in questo momento di emergenza”. Esattamente la direzione opposta in cui va la delibera della Regione Umbria.

Secondo la dottoressa Anna Pompili, di AMICA (Associazione medici italiani contraccezione e aborto), «l’imposizione del ricovero ordinario ha ovviamente costituito un ostacolo organizzativo importante, per cui in molte regioni italiane le percentuali di IVG farmacologiche rispetto al totale è bassa in modo imbarazzante». Il presupposto del ricovero unito al limite delle sette settimane – contro le nove indicate dall’OMS – ha fatto sì che il ricorso al farmacologico nel nostro paese fosse molto basso – molto più basso di quanto accade in altri paesi.

Eppure, da un sondaggio commissionato a SWG dall’Associazione Luca Coscioni poco prima del lockdown emerge come più di un italiano su tre ritenga necessario facilitare l’accesso alla IVG interruzione volontaria di gravidanza farmacologica permettendo il regime ambulatoriale, il trattamento a casa ed eliminando la raccomandazione del regime di ricovero ordinario.

Dai dati dell’ultima relazione del Ministero della Salute sulla legge 194 (relativa al 2017), emerge come in Italia solo il 17,8% degli aborti sia avvenuto con metodo farmacologico – il resto è stato fatto con l’intervento. Dallo stesso report si evince come oltre nel 96,9% dei casi di interruzione di gravidanza con RU486, peraltro, non ci sia stata “nessuna complicazione immediata”, così come anche al controllo post dimissioni nel 92,9% dei casi. Dati, scrive il ministero, che sono “simili a quanto rilevato in altri paesi e a quelli riportati in letteratura e sembrano confermare la sicurezza di questo metodo”.

La percentuale del ricorso al farmacologico è invece del 97% in Finlandia, del 75% in Svizzera e del 66% in Francia. In questi paesi, come nel resto d’Europa, inoltre, il limite per accedere al farmacologico è nove settimane di gestazione, così come stabilito dall’OMS. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration l’ha recentemente esteso a dieci.

In Francia, peraltro, come ricorda la dottoressa Silvana Agatone, presidente della Libera Associazione Italiana Ginecologi (LAIGA), dal 2005 «è il medico di famiglia che vede la donna e le consegna le pasticche necessarie per l'interruzione volontaria di gravidanza in un'unica volta». Il ricovero era obbligatorio solo oltre la settima settimana, ma il termine è stato allungato alla nona durante la pandemia. Almeno metà della procedura si esegue in casa anche in altri paesi, come Galles, Scozia, Svezia, altrove in day hospital. Nel Regno Unito, durante l’emergenza sanitaria, il governo ha approvato misure per introdurre l’aborto in telemedicina, estendendo temporaneamente il limite per l’assunzione delle pillole a dieci settimane.

Le linee guida del 2010 sono vecchie, e proprio in seguito alla scelta della Regione Umbria, il ministro della Salute Roberto Speranza ha chiesto un nuovo parere al Consiglio Superiore di Sanità. «Sono trascorsi dieci anni da quando, su richiesta del Consiglio Superiore di Sanità, una apposita Commissione emanò le Linee guida ministeriali per l'utilizzo della RU486. In questo periodo nessun evento avverso ha evidenziato la necessità di ricoveri ospedalieri per l'utilizzo della cosiddetta pillola abortiva», ha dichiarato la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa, che ha aggiunto che «stupisce la decisione della Regione Umbria di indicare in tre giorni di ricovero le condizioni per il ricorso alla IVG farmacologica».

La retorica della "tutela della donna"

In realtà, la scelta della giunta di Tesei non deve stupire molto. Per capire perché, però, bisogna fare un salto indietro di qualche mese all’autunno del 2019, poco prima della chiusura della campagna elettorale per le elezioni regionali in Umbria.

Tesei il 17 ottobre calcava il palco del “Family Day” dell’Umbria, insieme ai leader della destra e agli esponenti delle associazioni contro la libertà di scelta nel nostro paese – quella stessa galassia coinvolta nel Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona di marzo 2019. La candidata è stata anche firmataria del “Manifesto Valoriale per la Famiglia” promosso dalle stesse associazioni ultra-cattoliche e anti-scelta. Tra i punti del documento, una sezione dedicata alla “tutela della vita”, intesa “dal concepimento fino alla morte naturale”.

Non a caso sono state le medesime associazioni e realtà a festeggiare la decisione della giunta Tesei, congratulandosi con la presidente per aver posto un freno “all’aborto fai da te”: “Si tratta di un passo avanti nella tutela della salute della donna, perché da ora in avanti la donna alla quale viene somministrato l’aborto per via farmacologica verrà sottoposta per eseguire l’intervento a regime di ricovero ospedaliero, e non più lasciata da sola a vivere il drammatico momento dell'espulsione del feto in solitudine, nel bagno di casa”.

Un plauso è arrivato anche dal senatore Simone Pillon, commissario per la Lega in Umbria e parte dell’universo delle realtà ultra-cattoliche e anti-scelta, che ha visto con favore il ritorno al regime ospedaliero che evita “che la donna sia di fatto lasciata completamente sola anche davanti a eventuali rischi”. Il senatore non ha mai fatto mistero della sua contrarietà all’aborto. Poco dopo la sua elezione aveva detto a La Stampa che bisogna «convincere la donna a tenere il suo bambino», se vuole abortire «le offriamo somme ingentissime per non farlo». E se vuole ancora? «Glielo impediamo».

In un’intervista a Repubblica la presidente Tesei ha spiegato che la sua decisione non ha motivazioni politiche, è «esclusivamente sanitaria e garantista nei confronti delle donne (…) La salute viene prima di tutto». Nella delibera, però, non ci sono evidenze a supporto della sua scelta. E Tesei non ha saputo fornirne nemmeno quando, incalzata da Michela Murgia su Radio Capital, le è stato chiesto se fosse in possesso di dati riguardanti complicanze o decessi di donne che avevano assunto la RU486 in day hospital.

Alcuni riferimenti di tipo scientifico erano invece contenuti in una precedente delibera della giunta dell’Umbria, risalente a maggio e relativa alle attività sanitarie nella 'fase 2'. Come riporta Terni Today, a pagina 63 il documento dice che “durante l’emergenza sanitaria tutte le società scientifiche concordano nel promuovere maggiormente la modalità farmacologica dell’IVG RU486”, poiché “oltre ad essere una pratica raccomandata per l’assenza del rischio intraoperatorio ed il miglior esito in termini di salute della donna, rappresenta una soluzione adeguata per decongestionare gli accessi in ospedale e ridurre le occasioni di contagio anche per tutti gli operatori coinvolti”.

È ormai una prassi consolidata che politici e realtà dichiaratamente contro l’aborto si trincerino dietro la retorica della “tutela della donna” o non ben precisate evidenze scientifiche. Dismesso – quasi del tutto - l’immaginario del feto ricoperto di sangue, il piano retorico si è spostato su quello positivo dei diritti umani, della tutela della salute, del contrasto alla violenza. I messaggi però sono sempre gli stessi, e la tecnica è svuotare i diritti partendo dal livello locale, muovendosi nelle maglie di legislazioni e regolamenti spesso troppo deboli perché frutto di compromessi.

Per quanto riguarda in modo particolare l’aborto, l’artificio maggiormente usato è quello della “piena applicazione della legge 194” - o in questo caso delle linee guida del Ministero sulla RU486.

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Quando nell’ottobre del 2018 a Verona e in altre città italiane sono state approvate mozioni fotocopia volte a sostenere associazioni cattoliche che promuovono iniziative contro l’aborto, sono state presentate come in supporto delle donne. La giornalista del Post Giulia Siviero aveva parlato di un “trucco” insito in queste mozioni, scrivendo che i provvedimenti si basavano “su una strategia e su un’ambiguità che i proponenti, molti politici e anche alcuni giornali stanno cercando di alimentare: il trucco consiste nel dire di voler applicare la 194 nella sua totalità sostenendo però delle associazioni che sono legate a movimenti che vogliono abrogare la 194”.

Il “trucco” dietro delibere come quella dell’Umbria – che fino a prova contraria non si basa su nessun dato di tipo scientifico, ma anzi va contro quelli in direzione di una deospedalizzazione – è quello dichiararsi a tutela della salute, mentre si cancellano passi avanti e si rende semplicemente l’interruzione di gravidanza un percorso più complicato per le donne che scelgono di farvi ricorso.

Foto in anteprima via Ansa

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