Giovani ucraini e russi insieme per superare l’odio: l’esperienza di Rondine Cittadella della pace
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A pochi chilometri da Arezzo, sulla riva destra del fiume Arno, immerso nella riserva naturale di Ponte Buriano, c’è un borgo medievale diverso dagli altri. Si chiama Rondine Cittadella della pace e la sua particolarità è che qui convivono insieme ragazzi provenienti da paesi in conflitto o usciti dalla guerra: israeliani e palestinesi, ceceni e russi, bosniaci e serbi, armeni e azerbaigiani. Quest’anno sono in arrivo anche russi e ucraini.
Il progetto è cominciato ventiquattro anni fa dalla volontà di Franco Vaccari, psicologo e docente, che aveva come obiettivo la riduzione dei conflitti armati nel mondo attraverso la formazione di giovani leader e la diffusione del dialogo e della cultura della pace. Per farlo ha fondato la World house, uno studentato internazionale dove oggi convivono e studiano trenta giovani di venticinque nazionalità diverse, provenienti da paesi che sono o sono stati in guerra tra loro. Insieme intraprendono un percorso di due anni in cui imparano a superare l’odio che separa i loro popoli e a costruire relazioni di pace: al termine del biennio, gli studenti ideano un proprio progetto di sviluppo, da implementare nel paese di origine.
In questo momento ci sono 59 guerre in corso sul pianeta, secondo i dati della ong Acled - Armed conflict location & event data project. “Non possiamo permetterci di pensare che la questione non ci riguardi”, spiega il presidente di Rondine, Franco Vaccari. “Dopo l’invasione della Russia in Ucraina, ad esempio, accade che i russi siano visti come dei nemici a prescindere dalle loro posizioni. Ci vorranno almeno cinquant’anni per abbattere questa immagine e tornare alla fiducia nell’altro. Del resto, dopo la fine della guerra fredda c’è sempre stata una diffidenza dell’Occidente nei confronti della Russia, e viceversa: questo conflitto è stata una profezia che si autoavvera. Ecco allora che Rondine va a prendere quei giovani che si collocano in quella zona grigia di persone che vorrebbero la pace, ma non sanno come perseguirla o hanno paura di farlo: non cerchiamo di coinvolgere i nazionalisti convinti, perché sarebbe tempo perso, né i ‘pacifisti di professione’, che hanno già gli strumenti per costruire il proprio percorso”.
La storia di Rondine
Rondine ha le sue origini nel 1988, quando Franco Vaccari, insieme al gruppo che poi avrebbe fondato la comunità, inviano una lettera a Raissa Gorbačëva, la first lady sovietica, per aprire un canale di comunicazione con l’Unione Sovietica e l’Oriente. L’obiettivo era quello di superare la logica della contrapposizione della Guerra fredda. Inaspettatamente, lei risponde invitandoli a Mosca: il viaggio segna l’inizio delle relazioni con l’Urss, un primo passo di diplomazia popolare dal basso.
Nel 1993 Rondine invita in Italia Dmitrij Sergeevic Lichacev, intellettuale della nuova Russia, tornato in libertà dopo anni di gulag. Nel 1998, al termine del primo conflitto in Cecenia, il rettore dell’Università di Groznyj chiede a Franco Vaccari di ospitare a Rondine alcuni giovani ceceni, perché possano completare gli studi interrotti a causa della guerra: Vaccari accetta, a condizione che vogliano convivere con giovani russi. Nasce così la World house, che ancora oggi è sostenuta principalmente da soggetti privati che ne condividono i valori e la missione. Dieci anni dopo viene creato anche il Rondine International Peace Lab, un’organizzazione composta dagli oltre 200 ex allievi che sono stati formati nello studentato internazionale: alcuni di loro sono diventati politici, ambasciatori, imprenditori, leader di comunità.
Nel 2015 Rondine riceve la prima candidatura al premio Nobel per la pace, con la motivazione di essere “riuscita da sempre a parlare con le istituzioni, le governance e i leader mondiali, portando la voce dei popoli all’attenzione di chi può realmente cambiare la storia”. Da allora, ogni anno, Rondine viene candidata da personalità delle istituzioni e del mondo accademico. Nel 2021, l’organizzazione acquisisce lo status consultivo speciale presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite.
Dunya, dalla Bosnia a Rondine per incontrare coetanei serbi
“Io sono nata in una famiglia per metà musulmana e per metà cattolica”, racconta Dunya, 24 anni, bosniaca originaria di Travnik, un paese a un’ora da Sarajevo. “Negli anni Novanta, durante la guerra, queste due parti erano in guerra. Io sono cresciuta in maniera aperta, non vedo la religione o l’etnia quando incontro qualcuno, vado oltre: la cosa più importante è l’umanità dell’altra persona. Nonostante questo, ho dovuto frequentare le scuole segregate: i musulmani e i cattolici studiavano in istituti diversi, e ho visto molti compagni che non volevano avere a che fare con ‘gli altri’. Era molto frustrante per me: ecco perché ho deciso di partecipare al programma di Rondine. Voglio fare qualcosa di concreto, e acquisire gli strumenti per realizzare progetti che mi appassionino. Il mio obiettivo è fare davvero la differenza nel mio paese”.
Dunya è venuta a conoscenza di Rondine quando era al liceo, attraverso un annuncio su un sito web. Dopo essersi laureata in scienze politiche all’università di Zagabria, ha fatto domanda per entrare alla World house: nel settembre 2021 ha iniziato il programma, e ora si prepara a cominciare il suo secondo anno. “Non è facile parlare di guerra, di nemico, di conflitto con persone che vengono dall’altra parte: sono temi molto sensibili, scomodi”, racconta. “Prima di iniziare avevo molta ansia di incontrare i ragazzi e le ragazze serbe: sapevo che, se avessero avuto opinioni offensive nei confronti dei bosniaci, non avrei potuto essere gentile. Il conflitto è stato tutto combattuto in Bosnia: queste persone non capiscono cosa significa avere la guerra dentro casa, e dover poi affrontarne i traumi e gli strascichi”.
Dentro di sé, Dunya ritrova ancora alcuni stereotipi difficili da scardinare, ma le sue certezze si stanno iniziando a incrinare. “Considero ancora molti serbi come nazionalisti, troppo orgogliosi di se stessi e della propria origine”, ammette. “Ma in questo anno ho notato che questo può cambiare, attraverso l’incontro e la relazione tra esseri umani. Quando ci si allontana dalle certezze ideologiche, e ci mette davanti all’altro, avviene un processo di trasformazione. È una cosa molto potente: l’umanità viene prima delle nazioni”. Quando tornerà in Bosnia, Dunya vorrebbe fondare una ONG che supporti le famiglie colpite dalla guerra e i giovani che vogliono incontrare l’altra parte in conflitto, senza pregiudizi. “Voglio che sia uno spazio aperto, di incontro e di dialogo. Nel mio paese, purtroppo, non esistono luoghi di questo tipo”.
Nell’anno trascorso insieme, tra Dunya e i suoi compagni serbi ci sono stati anche momenti di tensione e di difficoltà: “Ci sono stati confronti che mi hanno lasciata arrabbiata e delusa, poi ho riflettuto e ora sto capendo che devo dar loro tempo. Si tratta di persone molto aperte e ben disposte, solo che non hanno mai avuto a che fare con noi bosniaci: devono ancora fare un percorso per scoprire l’altro. Già adesso vedo i cambiamenti: una di loro all’inizio era molto orgogliosa del suo paese, poi nei mesi abbiamo sviluppato una relazione meravigliosa, mi dà molta empatia e siamo diventate amiche”.
Conflitto, relazione, nemico: il metodo Rondine
La discussione sul massacro di Srebrenica è stata per Dunya e i suoi compagni un momento di svolta, quello che viene chiamato “shock relazionale”. Un passaggio simile a quelli che hanno vissuto tanti altri studenti, come gli israeliani e palestinesi che periodicamente, dopo mesi di pacifica convivenza a Rondine, ricevono la notizia di nuovi scontri tra Gaza e Israele. “D’improvviso questi ragazzi si guardano negli occhi e si chiedono cosa ci stanno a fare qui”, spiega Franco Vaccari. “Non tutti superano questo snodo: alcuni cedono e decidono di andare via e tornare a casa. Altri invece riescono a comprendere il dolore dell’altro e superare questo momento di crisi, ma non è facile: Rondine è molto affascinante dall’esterno, ma molto difficile dall’interno”.
Lo shock relazionale è uno dei cardini del percorso elaborato nel “metodo Rondine”, che è stato riconosciuto anche dalle Nazioni Unite e che si basa su tre concetti fondamentali: quello di conflitto, quello di nemico, quello di relazione. Tutto parte da una concezione positiva del conflitto, che non è un semplice sinonimo di guerra e di violenza, ma un elemento che fa parte della vita di ciascuno. Certo, esistono i conflitti tra paesi, ma non sono gli unici: ci sono anche i conflitti sociali, i conflitti interpersonali tra singoli, e i conflitti intrapersonali all’interno di una stessa persona. “Tutti noi affrontiamo nel quotidiano tanti conflitti, a tanti livelli”, afferma Vaccari. “Il punto è come vengono affrontati: se gestiti e orientati, i conflitti hanno una forza trasformativa enorme e possono diventare un’opportunità di crescita. Altrimenti rischiano di degenerare. Il conflitto produce energia, ma l’energia può essere pulita, generativa, oppure avere la forza di una bomba nucleare”.
Per far sì che il conflitto si trasformi in un’opportunità, e non si radichi nella costruzione di un nemico da odiare, il metodo Rondine punta su un approccio relazionale. “La relazione è il centro, ma questa necessita di tempo e spazio donati reciprocamente”, continua Vaccari. “Senza questi due elementi, non si instaura un legame profondo con l’altro. Per sciogliere il fantasma del nemico serve pazienza, non basta un giorno: il percorso non è lineare, è fatto di tanti avanzamenti e arretramenti. Ma è l’unica via per arrivare a un cambiamento reale”.
Rondine nelle scuole, la scuola dentro Rondine
Oltre alla World house, negli anni Rondine ha dato vita ad altri progetti educativi. In primis c’è il quarto anno liceale d’eccellenza, un’opportunità formativa rivolta a trenta studenti selezionati da tutta Italia che vogliono frequentare la classe quarta nella Cittadella della pace. Per gli universitari c’è poi un master in collaborazione con l’Università di Siena che forma esperti capaci di intervenire in situazioni di conflitto a rischio di degenerazione, riportando dialogo e apertura. Infine da settembre è attivata in tredici scuole superiori italiane la sezione Rondine, con un triennio pensato per rimettere al centro la relazione tra docente e studente, e sostenere i ragazzi e le ragazze nello sviluppo delle proprie risorse interiori.
“I giovani spesso vengono raccontati come annoiati o scansafatiche, mentre la verità è che hanno tanta voglia di conoscere, di attivarsi, e hanno già opinioni su come vorrebbero cambiare il mondo”, racconta Noam Pupko, coordinatore del progetto del quarto anno liceale. “Noi li aiutiamo a crescere dal punto di vista personale e professionale, e diamo loro strumenti e competenze per diventare portatori di cambiamento”.
Anche Noam, israeliano, originario di una famiglia di sopravvissuti alla Shoah, nel 2011 ha frequentato il biennio alla World house. “All’inizio avevo una posizione più ingenua sul conflitto israelo-palestinese”, racconta. “Conoscevo bene la storia, gli avvenimenti, ma mi ero informato solo sui giornali e sui libri. Non avevo mai incontrato arabi palestinesi che abitano nei territori occupati, in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza. Sentivo la necessità di sentire le le testimonianze dirette, per capire loro come vivono questa situazione”.
Insieme ai suoi compagni palestinesi, Noam ha trascorso anche la giornata del 14 maggio, il giorno dell’indipendenza di Israele: “Per noi era un momento di festa, di gioia, di sano patriottismo, per loro invece era l’inizio della nakba, del disastro, della tragedia”, ricorda. “Vivere questo momento insieme a Rondine mi ha aiutato a rivedere il mio modo di considerare quella giornata. In quei mesi, poi, abbiamo vissuto insieme una delle tante guerre di Gaza: eravamo lontani dai nostri amici e parenti, eravamo tutti preoccupati, tristi arrabbiati. Certo, appartenevamo a due parti in conflitto tra loro, ma condividevamo lo stesso stato d’animo: i sentimenti e le emozioni ci hanno legato”.
Oggi Noam lavora con ragazzi e ragazze italiane, che non vivono in un contesto di guerra, ma che ugualmente nella propria vita stanno imparando a gestire diversi tipi di conflitto. “Innanzitutto ci sono i conflitti legati alla scuola, che purtroppo è spesso vissuta come fonte di ansia, banco di prova dove mettere in scena una performance”, continua Noam. “Invece i giovani oggi cercano una scuola diversa, che metta al centro la persona, le relazioni all’interno del gruppo classe, la solidarietà. Poi ci sono i conflitti tra regioni e zone diverse d’Italia, a volte rivali per motivi storici o ideologici, che ormai non hanno più alcun fondamento. E infine ci sono i conflitti che questa generazione vive nella lotta per la tutela dell’ambiente e dei diritti civili: i ragazzi vogliono e possono essere parte attiva del cambiamento, se solo diamo loro la possibilità”.
Immagine in anteprima via rondine.org