Tensioni interne, mobilitazioni e stanchezza di guerra: quale futuro per l’Ucraina?
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Da oltre tre mesi, l’attenzione per il conflitto fra Israele e Hamas a Gaza ha fatto scivolare in secondo piano la guerra in Ucraina nell’ordine del giorno dell’agenda internazionale. Più o meno nello stesso arco di tempo, è rimasto irrisolto lo stallo al Congresso statunitense: la serrata opposizione dei repubblicani – che alla vigilia delle presidenziali di fine anno insistono su temi di politica interna, tra cui il rafforzamento del confine fra USA e Messico – ha impedito l’approvazione di un piano economico e militare di sostegno all’Ucraina da oltre 61 miliardi di dollari, programmato dall’amministrazione Biden.
Dopo la formalizzazione di una tranche da 250 milioni di dollari a fine 2023, lo scorso 3 gennaio il portavoce della Casa Bianca John Kirby ha dichiarato “che non ci sono ulteriori fondi a disposizione” per sostenere Kyiv. Sebbene secondo alcuni analisti il maxi-pacchetto di aiuti dei democratici potrebbe essere ugualmente approvato nelle prossime settimane, il tema di un probabile indietreggiamento di Washington dalla causa ucraina (quasi certo, in caso di elezione di Donald Trump) ha generato preoccupazioni sul futuro stesso della resistenza quasi biennale di Kyiv all’invasione. In quello che si appresta a diventare il più grande anno elettorale della Storia, pure il destino dell’Ucraina potrebbe essere deciso alle urne, citando il titolo di una recente analisi di Eugene Chausovsky su Foreign Policy.
Nonostante ciò, i segnali politici per l’ottimismo non sembrerebbero mancare. A metà dicembre, il Consiglio Europeo ha bypassato il veto ungherese e ufficializzato l’agognata apertura delle negoziazioni fra Unione Europea e Ucraina per l’adesione. Parallelamente, i principali alleati europei di Kyiv hanno supplito, per lo meno sul piano comunicativo se non su quello di qualità e quantità degli aiuti, all’immobilismo americano.
A fine novembre, il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, ha annunciato a Kyiv che la Germania invierà un pacchetto militare da 1,3 miliardi di dollari. Durante la recente visita nella capitale ucraina, il primo ministro britannico, Rishi Sunak, e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, hanno formalizzato una cooperazione militare fra Londra e Kyiv, e ulteriori 3,2 miliardi di dollari di aiuti dal Regno Unito. A questo accordo hanno fatto seguito le voci su una possibile collaborazione di questo tipo anche con la Francia.
Sul piano della tenuta interna hanno, tuttavia, pesato ben di più le dimensioni negative della politica internazionale rispetto ai successi diplomatici. Nella società ucraina, dopo l’assuefazione del primo anno è subentrata, più o meno dalla fine di quest’estate, una dimensione di logoramento e stanchezza temperata solo dal crescente odio per gli invasori.
I negoziati per l’adesione con l’UE saranno tortuosi e dagli esiti incerti, mentre il sostegno europeo rimane nel complesso una frazione di quello garantito dalla macchina bellica e industriale statunitense. Ancor di più ha pesato sul morale il bagno di realismo in merito a un possibile crollo interno a Mosca: se a fine giugno, nei giorni della marcia di Prigozhin, i media occidentali si chiedevano se Putin potesse perdere il potere in tempi brevi, l’Economist a fine dello scorso anno si chiedeva se il presidente russo non stesse in realtà vincendo la guerra.
Il pessimismo dilagante ha inevitabilmente contagiato gli ucraini stessi. Sebbene non ci siano da segnalare particolari livelli di tensione e ribellione nei ranghi dell’esercito, nella società la vita civile sembra essersi assestata in una peculiare quanto usurante coesistenza di devastazione quotidiana con la quale si è costretti a convivere, e l’emersione di vecchi e nuovi rancori politico-sociali che hanno contribuito ad avvelenare e spezzare l’idilliaca immagine di unità interna, già in crisi da diversi mesi.
La macchina comunicativa statale, esemplificata dal Marafon, la maratona informativa a reti unificate dei diversi canali ucraini, è considerata da tempo dagli stessi come un riflesso speculare della propaganda russa, ma con mezzi e risorse minori. Informalmente è definita come bayraktarschyna, ironizzando sulla convinzione, nei primi mesi, degli ottimisti filo-establishment di poter vincere la guerra grazie all’uso dei celebri droni di produzione turca (oggi praticamente scomparsi dalla cronaca bellica quotidiana).
L’onnipresente tendenza della democrazia ucraina all’anarchia, messa in luce da diversi intellettuali locali, funge spesso da moltiplicatore delle percezioni nella società: a inizio 2022 ha reso possibile una resistenza insperata, mentre due anni dopo contribuisce a rendere ancor più sconfortante il momento più difficile dall’inizio dell’invasione. Il recente rafforzamento della narrazione russa su un’inevitabile e imminente disfatta dell’Ucraina punta – negli ultimi mesi – non solo a influenzare l’opinione pubblica occidentale, ma quella ucraina stessa per innescarne la resa, là dove i bombardamenti su edifici e infrastrutture civili hanno fallito.
Uno dei fattori che ha depauperato maggiormente il capitale politico di Zelensky (il cui gradimento rimane, seppur in calo, al 62%) e del suo establishment è stato l’annuncio, a fine dicembre, della necessità di arruolare “circa 500.000 soldati” nelle fila dell’esercito ucraino nel prossimo futuro. Ciò ha segnato un netto contrasto con quello che era stato definito dai giornalisti ucraini uno “stupido ottimismo” per una vittoria ucraina descritta per oltre un anno e mezzo dai media filo-governativi come ineluttabile, rafforzata sul piano comunicativo dall’enfasi sull’incapacità operativa dei soldati russi.
Il divario fra questi due approcci era evidente pure ai vertici del partito di governo Servo del Popolo, i cui rappresentanti parlamentari hanno ricevuto l’ordine di non rilasciare dichiarazioni sull’impopolare progetto di legge trapelato a fine dicembre. La legge punta a irrigidire drasticamente le procedure in termini di mobilitazione, aprendo la possibilità di reclutare invalidi non gravi, oltre a procedere alla confisca di beni e al blocco dei conti personali delle persone in età di leva non presentatisi presso un ufficio militare nell’arco di due mesi dall’approvazione del disegno di legge.
Se quello della diserzione poteva ancora essere considerato, fino alla scorsa estate, come un fenomeno tutto sommato minoritario in Ucraina, la brutalità dei metodi di arruolamento in alcune regioni (su tutte Odessa) e le nuove leggi draconiane sulla mobilitazione (la cui approvazione è tuttora sospesa alla Verchovna Rada) hanno acuito definitivamente la frattura tra chi combatte al fronte e chi vuole, per un motivo o per un altro, restare a casa (se non scappare all’estero).
Sempre attento a sondare il sentimento generale degli ucraini, Zelensky ha delegato la comunicazione della nuova realtà al comandante delle forze armate ucraine, Valerij Zaluzhny, spostando la responsabilità dai vertici politici a quelli militari. Le dichiarazioni di Zaluzhny durante una conferenza stampa indetta per l’occasione a fine dicembre, la più mediatica dall’inizio della guerra, sono sembrate entrare in polemica virtuale con quelle del presidente. “Non ho parlato di 500mila soldati, o 400mila, ma di un bisogno generale”, ha dichiarato il generale ucraino. Anche chi non credeva a un conflitto personalistico e politico fra i due uomini più importanti d’Ucraina, è oggi costretto ad ammettere che quest’ultimo sia diventato quantomeno una profezia autoavverante.
Un altro fattore di contrasto fra Zelensky e Zaluzhny è la volontà del primo di annunciare (e, soprattutto, implementare) una vasta campagna di mobilitazione solo dopo aver proceduto a una de-mobilitazione dei soldati sul campo di battaglia da 23 mesi consecutivi: una prospettiva secondo molti indigesta a Zaluzhny, che vorrebbe rimandare questo momento al 2025, così da non privarsi dei suoi elementi più esperti.
La frattura non può essere però analizzata solo come una semplice divergenza fra i due. È nella società stessa a essersi aperto un divario di empatia e comprensione fra chi, sopravvissuto ai combattimenti ma esausto, vorrebbe un ricambio, e chi vorrebbe evitare a tutti i costi l’arruolamento, per vie più o meno legali, rivendicando piuttosto un sostegno al “fronte informativo, culturale o economico” della resistenza, ad esempio donando quotidianamente denaro all’esercito.
Come hanno fatto notare pure alcuni soldati ucraini, anche questa situazione è una conseguenza dell’ottimismo e dell’informazione edulcorata sulla tragedia quotidiana in atto al fronte. Se è così facile vincere contro i russi, ci si domanda, perché il singolo individuo dovrebbe aiutare a tutti i costi? Un particolare fondamentale, e spesso sottovalutato, è che l’ondata (impressionante) di iscrizioni volontarie si è stemperata già nel 2022, e chi in passato non si è arruolato nella maggior parte dei casi ha già scelto, per sé, di non voler rischiare la vita per la difesa del proprio paese.
Le controproposte sulla mobilitazione trapelate nei media, tra cui il modello della lotteria usato dagli americani in Vietnam e quella dell’esenzione dall’obbligo militare per i contribuenti che pagano oltre 6.000 grivne al mese di tasse (circa 150 euro). Quest’ultima proposta è stata facilmente tacciata di classismo; in generale, il dibattito attorno alla mobilitazione ha solamente acuito l’indignazione e la frustrazione in tutte le parti sociali, segnalando per di più una generale confusione tra la classe politica ucraina.
I critici più oltranzisti di Zelensky imputano al presidente ucraino di aver tenuto per quasi due anni il paese in una bolla, senza preparare seriamente un piano d’azione per i momenti di difficoltà. Sono le stesse recriminazioni fatte al presidente ucraino in relazione all’inverno 2021-2022, reo di aver negato la realtà nei mesi precedenti all’invasione e non essersi preparato a essa, cedendo così terreno ai russi nei primi giorni del febbraio 2022. Le recriminazioni sono ricorrenti soprattutto fra i porokhoboty, letteralmente i “bot di Poroshenko”, come sono definiti gli account più o meno fake sui social che scaricano le colpe degli insuccessi ucraini a Zelensky e al suo partito, invocando un ritorno dell’ex presidente definito come condottiero.
In ogni caso, seppur non solo e abbandonato come era apparso nel ritratto di Simon Shuster su Time lo scorso novembre, per la prima volta dal febbraio 2022 Zelensky sembra aver esaurito il credito di riconoscenza ottenuto per aver tenuto alto il morale del suo popolo nei mesi più duri. Ora è costretto a fare calcoli politici, anche rispetto agli avversari alle sue spalle.
Uno su tutti è Oleksij Arestovych, che da consigliere del principe è diventato, secondo alcuni giornalisti soprattutto ucraini, un megafono delle narrazioni del Cremlino, e di certo un aperto rivale del suo ex capo. Lo stratega comunicativo, che si era affermato nei primi mesi dell’invasione come “lo psicologo degli ucraini”, garantendo una “vittoria nell’arco di due o tre settimane” per diverse settimane di seguito, oggi ha assunto una posizione nuova nell’assetto politico ucraino.
Arestovych, infatti, si presenta davanti ai media internazionali come colui che può riprendere un dialogo con Putin e garantire i diritti dei russofoni e persino il preservamento della democrazia ucraina, strizzando l’occhio a quell’elettorato dell’Ucraina orientale raffreddatosi rispetto al patriottismo iniziale, ad alcune derive dell’ultra-nazionalismo culturale e alla demonizzazione incondizionata di tutto ciò che è russo.
Come ricorda Oleksiy Bondarenko, si tratta di un elettorato che alla vigilia dell’invasione pesava circa il 20% del totale, ma che andrà inevitabilmente ricalibrato non solo in termini di preferenze post-belliche, ma pure considerando quanto di esso rimarrà effettivamente sotto il controllo giurisdizionale ucraino nelle prossime elezioni, il cui alone è onnipresente nonostante ci siano degli evidenti ostacoli per una loro indizione nel prossimo futuro.
Se Arestovych punta su un populismo strategico nei confronti degli indecisi e di coloro che si percepiscono come ‘esclusi’ dal nuovo corso culturale antirusso dettato (non solo) dalla guerra, il già citato Petro Poroshenko si è definitivamente assestato nella mobilitazione dell’area più nazionalista, rafforzando così il suo bacino elettorale in Ucraina occidentale costruito durante le presidenziali del 2019. Poroshenko può vantare forti legami all’interno dell’esercito e delle amministrazioni locali – su tutti il sindaco di Kyiv, Vitaliy Klitshcko, più volte entrato in rotta con il presidente – e ha fatto intendere negli ultimi mesi di voler operare con maggiore e spregiudicata indipendenza.
Alla vigilia del Consiglio Europeo dello scorso dicembre, su cui pendeva la spada di Damocle dell’ostracismo ungherese filo-Cremlino, Poroshenko è stato bloccato dai servizi segreti ucraini prima di varcare il confine ucraino-magiaro per un incontro di alto livello con Viktor Orban. Secondo l’Agenzia ucraina di prevenzione alla corruzione (NAPC), l’ex presidente avrebbe ricevuto quasi un milione di dollari dal governo ungherese nelle settimane precedenti all’incontro. Ciò ha rafforzato, da una parte, le antiche accuse verso Poroshenko di essere un politico fintamente nemico del Cremlino, dall’altra, ha messo in dubbio l’indipendenza degli organi giudiziari dal governo.
La seconda considerazione è tuttavia semplificatoria: lo scorso 11 gennaio, la stessa agenzia ha aperto un’indagine sul primo ministro dell’esecutivo Denys Shmyhal, acuendo, al contrario, le accuse di corruzione verso il cerchio politico vicino a Zelensky.
Nel frattempo, i combattimenti continuano senza sosta per ogni metro di terreno attorno a Bakhmut, Avdiivka, Robotyne. Proprio l’esercito è considerato da giornalisti e analisti come un ulteriore fattore politico che potrà in futuro mettere in crisi l’attuale governo ucraino, così come l’assetto istituzionale del paese in generale, in parallelo alla crescente militarizzazione della società. Composto nella sua maggioranza da uomini di mezza età della classe medio-bassa non urbana, tuttavia, l'esercito continua a lottare mentre intorno il silenzio politico, interno e internazionale, si fa sempre più preoccupante.
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