Ucraina: cancellare la memoria per cancellare la resistenza
7 min letturaLa guerra russa in Ucraina non sembra poter finire nei prossimi giorni e settimane. La pace e il compromesso, invocate da una parte del mondo intellettuale e opinione pubblica, rimangono chimere lontane che si scontrano con la realtà di un conflitto che non si combatte solo nelle trincee. Quello in atto oggi in Ucraina, infatti, non è solo un conflitto tra due eserciti. E, se vogliamo, nemmeno tra due visioni del mondo e del futuro, la famosa dicotomia tra democrazia e autoritarismo.
Questa guerra, molto più di tutte le altre guerre di aggressione del ventunesimo secolo, dall’Afghanistan all’Iraq, rappresenta in maniera plastica e terribile anche uno scontro tra diverse visioni del passato e del ruolo dell’Ucraina come Stato indipendente. Un fenomeno non nuovo nell’Europa orientale, dove la memoria e soprattutto l’interpretazione delle pagine più controverse del recente passato hanno rappresentato un'“arma” importante nel lento consolidamento del tessuto sociale degli Stati che si sono affrancati dal dominio sovietico. In questo contesto, infatti, la quasi sistematica distruzione dei luoghi di culto e di cultura che ha accompagnato l’invasione non è solo un danno collaterale del conflitto - come lo chiamano gli esperti in materia militare - ma anche un tentativo – seppur simbolico - di indebolire, se non cancellare, la memoria storica e culturale dell’Ucraina indipendente.
“Chi controlla il passato controlla il futuro”
Ed è proprio nella storia, o meglio in una particolare interpretazione di essa, che affondano le loro radici le varie narrazioni utilizzate dal Cremlino per definire, giustificare e normalizzare questa guerra. Dalla “denazificazione” al “genocidio della popolazione russofona”, dalle “nazioni sorelle” all’“operazione militare speciale”.
Appena sette mesi mesi prima dell’inizio dell’invasione, la scorsa estate, il presidente russo aveva pubblicato un lungo articolo che riassumeva la sua visione della storia ucraina. Dal titolo inequivocabile “Sull’unità storica dei russi e ucraini”, l’articolo ripercorre e reinterpreta il passato imperiale e zarista, definendo russi, bielorussi e ucraini parte di una sola grande nazione. Le origini di questa unica nazione risalgono, secondo Putin, alla Rus’ di Kyiv, un’entità proto-statuale slavo-normanna fondata nel IX secolo che abbracciava parte dei territori dell’attuale Ucraina, Russia e Bielorussi.
Tra le città fondate dai vichinghi, Kyiv divenne il più grande centro commerciale e rimase il principale centro di potere fino all’invasione mongola del XIII secolo. Proprio la dominazione mongola segnò il declino delle città-stato slavo-normanne e - mentre nel 1240 Kyiv veniva rasa al suolo dall’Orda d'Oro - gettò le basi per l’ascesa del ducato di Mosca la cui progressiva espansione avrebbe portato alla nascita del moderno Stato russo. Il dominio del Khanato dell’Orda d’Oro, però, si era ben presto scontrato con l’espansione del nascente Granducato lituano che nel giro dei successivi due secoli conquistò gran parte dei territori occidentali della Rus’ di Kyiv arrivando ai confini del ducato di Mosca. Mosca, così, divenne il nuovo centro del ‘mondo russo’, ma Kyiv rimase la culla storica della sua prima dinastia.
Secondo Putin, quindi, il fatto che l’Ucraina sia oggi uno Stato indipendente, separato da Mosca, non sarebbe altro che il risultato di un tragico gioco del destino e di influenze esterne: mongoli prima, lituani dopo, Stati Uniti ed europei oggi. In questa visione della storia e del mondo, non c’è spazio per una cultura e lingua ucraina distinte. L’identità ucraina non è altro che un prodotto della più genuina ed originaria identità russa, solamente corrotto da secoli di influenze esterne. Un’unita temporaneamente riaffermata dalle conquiste zariste, ma bruscamente interrotta di nuovo dal collasso dell’impero Sovietico. La riscoperta e l’affermazione di un’identità ucraina che ha caratterizzato la scena culturale del paese a partire dal 1991 (ma soprattutto dalla rivoluzione di Maidan del 2014) è quindi un’ulteriore minaccia all’unità dei popoli “fratelli”, nonché’ uno strumento (nelle mani delle potenze occidentali) per “trasformare l’Ucraina in una barriera tra l’Europa e la Russia, in un avamposto contro la Russia”.
Una guerra di (ri)conquista
Il lungo discorso di Putin alla vigilia del riconoscimento dell’indipendenza e sovranità delle due “repubbliche” di Donetsk e Lugansk, e a tre giorni dall’invasione, è un altro chiaro esempio dell’utilizzo della narrazione storica non solo per giustificare l’invasione, ma soprattutto per negare una forma compiuta di statualità all’Ucraina. In linea con il suo precedente articolo, infatti, gran parte del discorso ruota intorno alla descrizione delle ingiustizie storiche alla base della creazione dello Stato ucraino. A finire sul banco degli imputati questa volta sono però soprattutto i leader sovietici e Lenin stesso. La loro colpa sarebbe stata proprio quella di aver di fatto creato lo Stato ucraino tramite la concessione di strutture politico-amministrative distinte, confini e un certo grado di autonomia all’interno delle strutture sovietiche. Una costruzione, secondo Putin, del tutto artificiale e avvenuta alle spese dei territori russi, includendo il suo cuore spirituale e identitario, Kyiv e la Crimea. Lo Stato ucraino, in altre parole, non sarebbe altro che “il risultato della politica dei bolscevichi” e potrebbe essere chiamato “L’Ucraina di Vladimir Lenin”. L’affermazione di un’identità e statualità ucraina, in quanto prodotto diretto di ingiustizie storiche e della benevolenza russa che non ne ha rivendicato i territori nemmeno dopo il collasso dell’Unione Sovietica, è quindi anti-storica e per estensione anti-russa.
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Come sottolinea Marlène Laruelle, direttrice del Institute for European, Russian and Eurasian Studies (IERES) alla George Washington University, i recenti excursus storici del presidente russo rappresentano il culmine della lenta trasformazione ideologica del Cremlino, da una posizione basata sulla convivenza di elementi pragmatici e vaghi costrutti identitari ad un’ideologia apertamente revanscista ed imperialista. A confermarlo, tra le righe, è stato ancora più di recente lo stesso Putin, paragonandosi a Pietro il Grande. Cosi come lo zar nella guerra ventennale contro l’impero svedese aveva riconquistato quello che era russo, l’attuale leadership avrebbe ora un simile destino, “riconquistare e rafforzare quello che è russo”, l’Ucraina per l’appunto.
“L’Ucraina non è Russia”
Questa narrazione di Putin è contrastata dalla storiografia contemporanea. È vero, la retorica delle “nazioni sorelle” contiene indubbiamente degli elementi di verità. Una contiguità linguistica e culturale tra i moderni slavi orientali è innegabile, ma se esiste una comune radice delle varie statualità ucraina, russa e bielorussa essa è troppo lontana per essere direttamente riconducibile alle nazioni odierne. Gli Stati sorti sui territori della Rus’ di Kyiv, infatti, sono il risultato di incontri forzati, separazioni, influenze esterne, migrazioni, guerre ed espansioni coloniali che hanno nel tempo consolidato differenze linguistiche e politiche. In altre parole, “L’Ucraina non è Russia” come titolava il suo libro il secondo presidente ucraino, Leonid Kuchma.
Nei secoli di storia, infatti, nonostante la russificazione durante il dominio zarista prima e quello sovietico poi, i popoli che hanno abitato le terre dell’odierna Ucraina hanno sviluppato un’identità distinta basata sugli elementi peculiari e in molti casi tragici della propria storia. Uno di questi, ad esempio, è il proto-Stato creato nel XVI secolo dai cosacchi nella regione centro-meridionale dell’attuale Ucraina. Guidati da Bohdan Khmelnytsky i cosacchi sono oggi considerati come i progenitori del primo Stato ucraino indipendente quando, dopo una guerra durata 7 anni, erano riusciti a conquistare l’indipendenza dal dominio della Confederazione polacco-lituana (1654). Un’indipendenza durata a fasi alterne per più di un secolo, fino alle conquiste territoriali dell’imperatrice russa Caterina la Grande che nella seconda metà del XVIII secolo aveva smantellato ogni istituzione indipendente dei cosacchi. Le idee di indipendenza e di una distinta identità culturale, storica e linguistica non erano però scomparse con lo stato cosacco e hanno continuato a riaffiorare anche all’interno dell’impero zarista grazie a scrittori, filosofi e intellettuali come Taras Shevchenko, Hryhorii Skovoroda e Mykhailo Hrushevsky le cui statue e musei, disseminate in varie città ucraine, giacciono ora coperti da sacchi di sabbia. Non a caso, i vari movimenti nazionali, tra cui quello ucraino uno dei più forti, avevano giocato un ruolo importante nella dissoluzione dell’Unione Sovietica inserendosi nel solco creato dalle riforme iniziate da Mikhail Gorbachev.
Cancellare la memoria per cancellare la resistenza
Proprio la riscoperta di quest’identità ha conosciuto una fase di sviluppo a partire dalla conquista dell’indipendenza nel 1991. A ben vedere un processo non sempre facile e in molti casi conflittuale che ha portato anche ad eccessi e alla glorificazione di personaggi storici controversi e divisivi, come dimostra la riabilitazione di uno dei leader dei nazionalisti ucraini durante il sanguinoso periodo della seconda guerra mondiale, Stepan Bandera. Un processo però inevitabile e per certi versi necessario. E proprio alcuni dei simboli di questa (ri)nascente identità collettiva e storica sono finiti ora sotto le bombe russe, trasformando musica, letteratura, film e monumenti in mille piccoli “campi di battaglia”, come scrive Jason Farago sul New York Times.
L’entità dei danni che questa guerra ha inflitto al patrimonio culturale ucraino è ancora difficile da quantificare. Il recente report pubblicato dall’OSCE, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO) ha confermato la distruzione o il danneggiamento di un totale di 152 siti culturali, tra i quali edifici religiosi, musei, palazzi storici, biblioteche e monumenti. A inizio giugno, ad esempio, l’organizzazione ha registrato un attacco alla chiesa di legno di Svyatohirsk, uno dei siti ortodossi più sacri del paese, la cui costruzione risale al 1627. Questo non include, per ovvi motivi, danni e traffico di reperti archeologici e oggetti d’arte mobili.
Anche se dimostrarne l’intenzionalità sarà probabilmente il difficile compito di commissioni speciali che saranno istituite alla fine del conflitto, va ricordato che la distruzione del patrimonio culturale rappresenta una violazione del diritto internazionale umanitario e costituisce un crimine di guerra. La distruzione sistematica dei luoghi e oggetti di cultura, inoltre, potrebbe rappresentare uno degli elementi per avallare l’intento genocida nei crimini commessi contro i civili da parte delle truppe russe. In questo contesto, quindi, il patrimonio culturale non è più solo una serie di oggetti e luoghi belli e importanti, ma diventa parte attiva della guerra che non è solo una guerra per la sopravvivenza dello stato e delle persone, ma anche della sua storia e identità. La cultura ucraina, alla pari dell’esercito, è parte integrante di questa guerra. Purtroppo.
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