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Ucraina, ristabilire i fatti contro la propaganda: la rivoluzione di Maidan e le sue conseguenze [I PARTE]

4 Luglio 2023 23 min lettura

Ucraina, ristabilire i fatti contro la propaganda: la rivoluzione di Maidan e le sue conseguenze [I PARTE]

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24 min lettura

Cosa è successo a Maidan nel 2013? Come inizia la guerra in Donbas, l’anno dopo? L’invasione russa del 24 febbraio 2022 è stata “provocata” o è la tappa naturale di un progetto di espansione imperialista da parte del Cremlino?

Da oltre nove anni, la propaganda russa si concentra sugli stessi elementi per discreditare l’Ucraina e giustificare la propria ingerenza e invasione: l’artificialità dei confini statali ucraini, il complotto ordito da UE e NATO contro la Russia usando l’Ucraina come cavallo di Troia per distruggerla, la questione nazista e il golpe di Euromaidan, il genocidio dei russofoni del Donbas provocato dal governo di Kyiv, una presunta mancanza di volontà dell’Ucraina di voler accettare una pace offerta da Mosca. Rilanciare questi punti nella falsa convinzione di ampliare il pluralismo nel dibattito ha prodotto un’aura di credibilità attorno a temi inventati o nel migliore dei casi manipolati.

All’origine di questo approfondimento, suddiviso in due parti, c’è la necessità di una analisi dettagliata, attraverso fonti internazionali e letteratura revisionata, fondamentale per decostruire la propaganda su vari livelli del Cremlino, incessantemente dedita, sin dal 2014, a una colpevolizzazione dell’Ucraina nelle radici profonde del conflitto. 

Lungi dal voler negare i numerosi problemi, molti dei quali posti dalla stessa ingerenza russa, della fragile democrazia ucraina dal 2014 al 2022, l’intento è quello di analizzare queste criticità in un’ottica più informata e comparata. Serve più che mai una ricostruzione condivisa di ciò che è avvenuto in Ucraina dal 2013 in poi. Solo passando per un simile lavoro è possibile capire le radici dell'invasione e solo partendo dalle ragioni dell'invasione è possibile guardare alle possibili soluzioni.

Relativizzare le colpe fra Russia e Ucraina non significa, oggi, fare giornalismo oppure storiografia d’inchiesta. Si tratta invece di uno sviamento intellettualmente sleale rispetto a una situazione evidente, in un cui un aggressore criminale invade un paese sovrano, di per sé sommerso da numerosi problemi e sfide al progresso sociale e democratico, come può essere per altri paesi indipendenti - che tuttavia non hanno vicini scomodi lungo i loro confini.

Un ulteriore punto di analisi sarà la circostanza per cui Putin e l’apparato informativo del Cremlino hanno deciso a tavolino, artificialmente, oltre alla propaganda di basso livello (nazismo, genocidio in Donbas, biolaboratori) tutti quei problemi inevitabilmente “gonfiati” da uno stato di guerra quasi decennale: il ruolo dell’estrema destra, la protezione della lingua di uno Stato invasore, l’identità separatista o regionalista del Donbas. Nel confondere cause ed effetti, risultati e aspettative, il Cremlino ha scelto di manipolare il passato, il presente e il futuro.

Tramite i suoi propagandisti, e i più o meno indiretti emissari occidentali, il Cremlino ha tentato di sabotare la corretta comprensione delle cause del conflitto. In questa confusione, la Russia ha diffuso narrazioni a più livelli (geopolitico, bellico, etnico, linguistico, storico, per citare quelli più ricorrenti) nel quale la verità sulla guerra in Ucraina sembra diventare via via inarrivabile, riuscendo persino a confondere le acque su dati di fatto, come la presenza di un aggressore e un aggredito, nell’alveo di un relativismo estremo.

In un panorama informativo in cui la manipolazione e distorsione delle sempre più frenetiche e decontestualizzate notizie intorno alla guerra hanno creato, da una parte, assuefazione, e dall’altra la continua messa in discussione del diritto inalienabile di un paese a resistere contro un’invasione imperialista, ripercorrere le tappe chiave attraverso un approccio cronologico e analitico risponde all’esigenza di individuare dei punti fermi in quella crisi, ormai decennale, che ha sconvolto definitivamente gli equilibri dell’Europa, come pure del modo di raccontare una guerra. 

L’incessante fluire di verità parziali o distorsioni sull’Ucraina, impedisce al dibattito pubblico di passare oltre e analizzare i temi più stringenti del conflitto russo-ucraino: il futuro dei blocchi geopolitici, la possibilità di processare i crimini di guerra commessi da una grande potenza, l’impatto umanitario e psicologico sulla popolazione, la questione ambientale posta dalle manovre belliche, le prospettive di risoluzione di una spaccatura drammatica per l’intero spazio post-sovietico.

Le origini di Maidan

Nella notte tra il 21 e il 22 novembre alcune centinaia di studenti e attivisti si riuniscono a Maidan, la piazza dell’Indipendenza, per protestare contro la sospensione delle trattative con l’UE. Nemmeno dieci giorni dopo, in seguito al primo intervento violento contro i manifestanti della polizia antisommossa Berkut, a Kyiv marcerà una cifra compresa tra il mezzo milione e il milione di cittadini. Cominceranno presto a scendere in piazza i residenti di altre città ucraine, comprese quelli delle regioni orientali e meridionali, seppur lontani dalla magnitudo kyivana.

È l’inizio della terza rivoluzione in un quarto di secolo, dopo quella di Granito (1990) e quella Arancione (2004). Le proteste sono di per sé inusuali: un raro caso di malcontento popolare derivante da decisioni di politica estera. La miccia che le farà incendiare, però, sarà l’ottusa repressione del regime di Janukovyč.

Putin, nel frattempo, non ha ancora manifestato i suoi piani bellicisti in Ucraina, e lo scenario georgiano del 2008 è percepito come altamente improbabile, seppur molti ucraini non vorrebbero irritare i russi proprio per questi timori. 

Nel 2013, Putin sa ancora giocare, abilmente, con il soft power. Promette un transito preferenziale e scontato del gas, priorità per una parte della classe media e per i pensionati. In cambio del rifiuto all’UE, il premio russo sarà una tranche da 15 miliardi di dollari in prestiti, a condizioni vantaggiose. Il 47% degli ucraini vede di buon occhio questi aiuti.

Secondo i sondaggi delle stesse settimane, però, il 58% degli ucraini è pure favorevole all’UE (nel 2022 diventeranno il 91%). Altri campioni statistici segnalano una spaccatura: sentimenti anti-UE sono fortemente presenti nel Donbas, a Odessa, Kharkiv e soprattutto in Crimea.

Quando i russi scateneranno l’invasione militare mascherata da aiuto ai separatisti del Donbas, gli abitanti della regione mineraria si divideranno tendenzialmente in tre parti quasi eguali tra chi è a favore dell’UE, di una cooperazione con la Russia, e fra chi non vuole nessuna delle due. Sarà però troppo tardi, poiché dalla seconda metà del 2014 le alleanze geopolitiche si scopriranno essere solamente una punta dell’iceberg della guerra russo-ucraina, che impedisce così qualunque possibile risoluzione interna della crisi.

Chi è Viktor Janukovyč, l’ex presidente ucraino fuggito dopo Maidan?

Viktor Janukovyč è un politico ucraino (naturalizzato russo) cresciuto in una famiglia di origine russa nella periferia di Donec’k. Attorno ai vent’anni fu arrestato, in Urss, prima per rapina poi per violenze, definendoli poi come “errori di gioventù”. Attraverso una scelta ponderata delle conoscenze e protezioni, era tuttavia possibile ottenere una seconda chance anche nel socialismo reale. Sposa la figlia del giudice della piccola città, Jenakijevo, in cui è processato, mentre a Mosca sembra proteggerlo l’ex cosmonauta Georgij Beregovoj, ufficialmente dedito al reinserimento di giovani criminali del Donbas nella società sovietica.

Nel passaggio da Urss a Ucraina indipendente, Janukovyč non si muove dall’oblast’ di Donec’k, venendo gradualmente promosso in posizioni manageriali in un’azienda pubblica di trasporti. Nel 1996, inaspettatamente, viene scelto come vice-capo dell’amministrazione regionale di Donec’k. Sono gli stessi anni in cui l’oligarca Rinat Achmetov vince la sua guerra contro le faide criminali del Donbas, e privatizza il complesso industriale dell’area insieme ad altri oligarchi sotto l’occhio accondiscendente della burocrazia politica locale.

L’anno dopo nascerà il Partito delle Regioni, mentre Janukovyč continuerà la sua scalata vertiginosa: prima spuntano una laurea in Economia e un master in diritto internazionale all’Università di Donec’k (durante gli studi, seppure nessuno sia riuscito a dimostrare né a negare la liceità dei titoli, diventa pure governatore), mentre nel 2002 Leonid Kučma lo nomina primo ministro, e si vocifera lo abbia scelto come delfino per le elezioni presidenziali  del 2004, alle quali il presidente uscente non può partecipare per restrizioni costituzionali.

Janukovyč e il Partito delle Regioni si collocano così come la voce dell’identità mineraria e diffidente del Donbas nel centro del potere a Kyiv, cooptando quella che l’autorevole storico nipponico Hiroaki Kuromiya definiva come un’identità economico-territoriale, sin dal periodo sovietico, diffidente sia verso Mosca che verso Kyiv. 

Una diffidenza dovuta sia al suo passato (i poli industriali del Donbas erano sorti alla fine dell’Ottocento quasi dal nulla, conoscendo poi la guerra civile, il banditismo e la repressione staliniana) che a un presente auto-percepito di “cuore industriale del paese” non sufficientemente remunerato dal governo centrale, una narrazione simile all’indipendentismo padano (e presente, peraltro, in contesti europei eterogenei, la cui differenza sostanziale è l’assenza di una grande potenza pronta ad approfittarne). 

Ai comunisti veniva invece lasciata, in via residuale, l’appropriazione elettorale dei sentimenti nostalgici di una classe pensionata post-operaia, ritrovatasi impoverita e confusa nel passaggio da socialismo reale a economia di mercato durante i Selvaggi anni Novanta ucraino-russi.

Una rappresentanza - quella regionalisto-comunista - in realtà puramente di facciata, un contenitore vuoto divenuto un ascensore sociale per una classe politica locale corrotta e legata ai movimenti criminali dell’area, ma che tuttavia era riuscita a plasmare le preferenze politiche e identitarie della popolazione.

Alla vigilia di Maidan, il Partito delle Regioni del presidente è uno strumento dell’élite politico-economica del clan del Donbas: gli oligarchi Rinat Achmetov e Dmytro Firtaš ne sono i principali finanziatori. Le politiche di Janukovyč sono tese a preservare e aumentare l’influenza degli oligarchi sulla fragile democrazia ucraina, mentre il premio è l’arricchimento del suo clan familiare più stretto.

Il figlio di Janukovyč, conosciuto come Sasha il Dentista, arriva a possedere un patrimonio di oltre mezzo miliardo di dollari. La presidenza di Janukovyč è oggi ricordata come il periodo della Restaurazione, un consolidamento autoritario rispetto al mandato di Viktor Juščenko (2005-2010).

La possibilità di un mandato di Janukovyč era uno scenario impensabile nel 2004. L’ex governatore dell’oblast di Donec'k aveva tentato di manipolare il voto popolare al secondo turno delle presidenziali, annullato dalla Corte Suprema per i numerosi e provati brogli. Janukovyč e il sistema di potere del suo partito oligarchico sono i bersagli della Rivoluzione Arancione. Un mese dopo, perderà nettamente la ripetizione del ballottaggio contro il candidato filoccidentale Juščenko.

Il ritorno di Janukovyč, nel 2010, è merito del forte bacino elettorale, anche di tipo clientelare, costruito in Crimea e nel Sud-Est. Qui gli oligarchi dell’industria pesante e i rappresentanti della burocrazia post-comunista hanno rapporti neofeudali con il ceto operaio locale. Una relazione privilegiata, quella fra partiti vicini alla Russia, Est ucraino e cardinali grigi del Donbas che si manterrà anche dopo il 2014, quando il Partito delle Regioni verrà bandito dopo i crimini commessi a Maidan, ma sarà presto sostituito dai due partiti gemelli – Blocchi di Opposizione – di Jurij Bojko e Viktor Medvedčuk. In sostanza, si tratterà di una continuazione del Partito delle Regioni.

Finalmente presidente, nei primi anni ‘10 Janukovyč incomincia un processo di accentramento di potere, ribaltando le modifiche alla Costituzione che avevano creato un sistema di pesi e contrappesi fra presidenza e premierato (di cui pure aveva beneficiato nel 2006, mutilando i programmi rivoluzionari del rivale Juščenko). 

L’indipendenza del sistema giudiziario, inoltre, era sempre più una chimera. Ciò fu chiaro con l’arresto-farsa di Julija Tymošenko, l’altro volto della Rivoluzione Arancione, contro la quale aveva vinto il ballottaggio presidenziale nel 2010.

I risultati del ballottaggio fra Julija Tymošenko e Viktor Janukovyč nel febbraio 2010. Molte narrazioni semplicistiche della società e politica ucraina hanno cercato di presentare la segmentazione elettorale fra Est e Ovest come una spaccatura insanabile fra gli ucraini. Le motivazioni di questa polarizzazione erano ben più complesse dell’asse filoccidentali vs filorussi (immagine via Wikipedia).

Tuttavia, il proseguimento delle trattative (iniziate con Juščenko) tra Janukovyč e Unione Europea aveva contribuito a diminuire la polarizzazione tra presunti filoeuropeisti e presunti filorussi, generando la percezione di una presunta stabilità statale, condizionata pure dal clima di festa di Euro 2012. L’economia ucraina cresceva, nonostante l’alto livello di corruzione. La cessazione della leva obbligatoria per i ventenni, nell’estate di quell’anno, sembrava un segnale di modernità e progresso. Nella primavera del 2014, questa decisione si rivelerà fatale – e sarà facile capire i motivi per cui in pochi anni venne smantellato l’esercito, una mossa del tutto inusuale per un paese dell’ex Urss – quando i russi invaderanno la Crimea e provocheranno insurrezioni telecomandate in Donbas (e altre città ucraine).

In ogni caso, il programma di Janukovyč fino a Maidan non è di certo pro-russo. Non richiama in forma aperta un avvicinamento fra i due Stati. In politica estera, il suo governo punta a intrattenere rapporti amicali con la Russia ma continuando la cooperazione con l’Europa, perseguendo cioè una sorta di neutralità strategica.

È un percorso, peraltro, condiviso all’epoca dalla maggioranza degli ucraini, che sono favorevoli alla UE ma tendenzialmente contrari all’adesione alla NATO. D’altronde, in linea teorica, i garanti della sicurezza e sovranità statale dell’Ucraina erano Russia, Gran Bretagna, USA e Francia, secondo il memorandum firmato a Budapest nel 1994, con cui il paese post-sovietico cedeva le sue testate nucleari a Mosca.

Il governo ucraino prova a fornire motivazioni politico-economiche per la rinuncia all’integrazione con l’UE. I timori del primo ministro Mykola Azarov sono un calo dei rapporti commerciali con i paesi della Comunità degli Stati Indipendenti, su tutti con la Russia. L’esecutivo ucraino punta il dito pure contro la condizionalità imposta dal Fondo Monetario Internazionale per accedere ai prestiti che tamponerebbero le perdite negli scambi industriali con i paesi post-sovietici durante il cammino di integrazione nel mercato europeo.

Chi, e per cosa, protesta a Maidan nell’inverno tra il 2013 e il 2014? 

Difficile trovare un fronte unico: la piazza è eterogenea, prevalentemente giovane e cittadina, europeista e pro-democratica, espressione di una società civile stanca del conservatorismo nostalgico di Janukovyč (e del predecessore Kuchma). La retorica rivoluzionaria è spesso anticomunista, soprattutto fra le ali più radicali e nazionaliste. Pure dal resto della piazza, però, il Partito Comunista Ucraino di Petro Symonenko viene identificato come una nomenclatura corrotta e vicina agli oligarchi del Donbas, un ferreo alleato dell’establishment. Inoltre, come scrive l’analista Denys Gobrich, su OpenDemocracy, il PCU, “mentre condannava il nazionalismo a parole, diventava il principale sostenitore del nazionalismo filo-russo, proclamando la superiorità del popolo slavo rispetto ad altri gruppi etnici e diffondendo l'islamofobia in Crimea”.

I leader dell’opposizione (Arsenij Jatseniuk, Yuliya Tymoshenko, Vitalij Klitschko) che provano a farsi portavoce delle proteste vengono volentieri fischiati e contestati. Lentamente riescono però a cooptare le istanze della piazza (e in ciò il più scaltro sarà il futuro presidente Petro Porošenko, con un passato proprio nel partito di Janukovyč) per chiedere le dimissioni del presidente in carica.

Il fronte di opposizione nella Verkhovna Rada (il parlamento monocamerale ucraino) era esso stesso finanziato dagli oligarchi “esclusi” dal clan del Donbas (come l’oligarca ebreo Ihor Kolomojskij), mentre molte frange di Maidan, sia estremiste che altre più liberali, avevano posizioni apertamente antisistema e populiste.

Gli obiettivi iniziali sono più alti di un semplice cambio di regime, e dopo la repressione poliziesca non puntano nemmeno a rimettere semplicemente sui giusti binari il processo di integrazione europea. A Maidan si invoca un cambiamento radicale dell’Ucraina. Una rivoluzione eterogenea che si aggrega intorno ad alcuni punti comuni: una feroce lotta alla corruzione e alla violenza statale, coperta da un sistema giudiziario inaffidabile.

Le bandiere rossonere dei nazionalisti di estrema destra di Pravij Sektor e quelle verdi di Svoboda sono presenti, ma eclissate da quelle ucraine ed europee. I giovani radicali saranno però una parte rumorosa dei gruppi di autodifesa di Maidan, organizzati per rispondere dalla violenza brutale della polizia Berkut sin dal 30 novembre. Non sarà certo l’unica: il primo manifestante a morire in piazza sarà uno studente ventunenne di origini armene, Serhiy Nahoyan, senza alcuna affiliazione politica.

La propaganda russa tenterà di dipingere una piazza monopolizzata dai “nazifascisti” Pravij Sektor, benché l’ideologia culturale del nazionalismo radicale ucraino sia ben più complessa del richiamo alla parentesi collaborazionista con le SS. 

Il Partito delle Regioni e i suoi sostenitori insistono sulla tesi per cui i miliziani avrebbero provocato la polizia allo scontro, innescando per primi l’ondata di violenza. Fra i 79 ospedalizzati della notte del 30 novembre ci sono però studenti e studentesse, e non militanti del movimento nazionalista – altre centinaia si rifugeranno, inseguiti dai poliziotti antisommossa, nel Monastero dorato di San Michele per l’intera notte, poche ora prima che una marea di persone si riversi a Kyiv per chiedere le dimissioni dei vertici della polizia (e, per i più oltranzisti, del governo).

Il ministro dell’interno Vitaliy Zacharčenko rifiuterà di commentare l’accaduto (lasciando diffondere al sito del ministero una “prova” della provocazione dei manifestanti: il lancio di uova di un piccolo gruppo contro i poliziotti). Le responsabilità vengono scaricate al capo della polizia di Kyiv. Quest’ultimo, nel rifiutare di dimettersi dall’incarico, ammetterà come la polizia non si sia «comportata nei migliore dei modi». Tuttavia, userà come scusante la stretta necessità di sgomberare la piazza per installare l’albero di Natale. Alle tre del mattino, tra il sabato e la domenica.

Cosa determina la guerriglia di Maidan nel febbraio 2014?

I manifestanti passeranno a Maidan un lungo inverno, fra giorni di proteste pacifiche e scontri, nei quali manifestanti costruiscono cordoni davanti alla stessa polizia poiché «sono dei ragazzi proprio come noi», mentre altri, più radicali, promettono di non toccare (con un manganello in mano e una balaklava improvvisata in viso) le forze dell’ordine, alla condizione che queste liberino la strada al corteo. Sono le immagini che si susseguono in un servizio del principale telegiornale ucraino, mentre alcune signore anziane urlano slogan europeisti e antigovernativi. Ciò che rimane è un ritratto potente dell’eterogeneità della piazza e dell’Ucraina stessa.

Nel gennaio del 2014, il Parlamento a maggioranza regionalista approva le leggi repressive contro la libertà di parola e di stampa. Un copia-incolla del modus operandi del Cremlino verso l’opposizione russa, persino per quanto riguarda l’individuazione della figura giuridica di agente straniero per giornalisti e ONG. La situazione precipita definitivamente il 20 febbraio. I disordini aumentano quando dei cecchini, apparsi sui tetti dei palazzi delle vie centrali di Bankova e Instituts’ka, cominciano a sparare sulla folla.

Il documentario di Evgeny Afineevsky Winter on fire racconta con testimonianze audiovisive di prima mano la tragedia della repressione e i giorni di guerriglia urbana nella capitale ucraina. Gli attivisti di Maidan verranno fermati e torturati anche nelle strade secondarie di Kyiv, mentre negli scontri in centro moriranno anche 13 poliziotti. 

Fra i manifestanti, sono almeno 100 i morti (la Sotnja celeste, cioè “centinaio” in ucraino, diverrà una memoria collettiva della Rivoluzione) e oltre 2500 i feriti, riferirà Amnesty anni dopo, puntualizzando come molti di essi non abbiano ricevuto giustizia per i crimini commessi dalla polizia ucraina nemmeno dopo la fine del regime filorusso, a causa dei numerosi depistaggi nelle indagini.

Al documentario di Afineevsky segue quello di Oliver Stone, Ukraine on fire. Prodotto un anno dopo, nel 2015, sin dal titolo vuole essere un documentario di risposta, producendo di fatto una propria narrazione di quanto avvenuto a Maidan. Tramite interviste embedded con Putin, Janukovyč e Zacharčenko ricostruisce una verità parziale e manipolata della rivoluzione di Maidan e della storia ucraina.

Si tratta di un surrogato dell’intero armamentario della propaganda russa, dall’enfasi sulla figura di Stepan Bandera alla creazione artificiale dell’Ucraina da parte di Lenin. Si parla soprattutto degli anni recenti: Putin accusa gli ucraini di aver abbattuto il volo civile MH17 in Donbas (ma l’inchiesta internazionale accerterà le responsabilità di Mosca) e lascia intendere - senza nessun indizio - che sui tetti di Kyiv i cecchini non fossero stati mandati da Janukovyč, ma dall’opposizione, telecomandata dagli americani, allo scopo di destabilizzare la piazza.

Un’ampia analisi con video geolocalizzati e sincronizzati, riassunta nel 2018 dal New York Times, ha tentato di risalire ai responsabili delle sparatorie, incriminati pure dalle indagini forensi. La maggior parte dell’unità di Berkut impiegata per reprimere la protesta si è rifugiata in Russia, la quale ha ovviamente rifiutato l’estradizione. “Abbiamo solo fatto il nostro lavoro: difendere un governo eletto dal popolo” dichiarò un ufficiale intervistato da un televisione tedesca. Le evidenze e i documenti che avrebbero aiutato Kyiv a individuare i responsabili sono però in larga parte spariti.

Alla fine di febbraio, la rivoluzione popolare vince, senza però aver mai espresso un leader nella protesta. La vittoria diventa ufficiale quando Janukovyč fugge dal paese, in segreto, durante la notte del 22 febbraio. Si rifugia a Rostov sul Don, in Russia, e sarà Putin stesso a dire di averlo aiutato a scappare.

Il governo di transizione post-Maidan e l’inizio della "primavera russa"

In Ucraina, intanto, si instaura un governo di transizione, il cui insediamento è promosso dal presidente ad interim Oleksandr Turčynov, un politico fino ad allora anonimo, e che tale rimarrà in seguito. Nel governo, guidato da Arsenij Jacenjuk, troveranno spazio, tra gli altri, pure i nazionalisti di Svoboda. 

Si tratta, tuttavia, a tutti gli effetti di un governo di coalizione nazionale, da cui vengono però esclusi il Partito delle Regioni e gli alleati comunisti – sono quest’ultimi a passare volontariamente (il primo ministro filorusso Mykola Azarov si era già dimesso dalla carica il 28 gennaio, fuggendo in Austria) all’opposizione, rendendo necessaria la formazione di un nuovo esecutivo. Lo fanno dopo aver perso la maggioranza parlamentare: in seguito agli eventi di Maidan, sono almeno 70 i deputati a lasciare il Partito delle Regioni, molti altri scappano in Russia.

Nel 2014 l’Ucraina e lo spazio post-sovietico interessano a pochi, e a livello mediatico la propaganda russa non incontra molti ostacoli nell’incentivare la narrazione del golpe nazifascista di Kyiv e della mano invisibile statunitense, giocando sulle parole intercettate – “Fuck the EU” – pronunciate dalla segretaria di Stato americana, Victoria Nuland, in una conversazione telefonica con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, Geoffrey Pyatt, riferendosi all’operato dell’Alto rappresentante per la politica estera, Catherine Ashton, i cui tentennamenti verso Yanukovich rappresentavano, secondo Nuland, quelli dell’Ue contro l’aggressività crescente di Mosca.

Sarà presto una serie di fraintendimenti e polarizzazioni pregresse su questioni culturali, identitarie e linguistiche a rendere credibile, nell’alveo della disinformazione sistemica promossa dal Cremlino, alcuni miti assemblati a tavolino dalla Russia, come la repressione della popolazione russofona (casus belli già usato in Georgia nel 2008) e la definizione di qualsiasi forza di governo a Kyiv come nazista.

Una serie di accuse, portate avanti dalla Russia sin dalle proteste di Maidan in modo incessante, funzionale a far accendere in modo artificiale, attraverso la strumentalizzazione delle televisione russe ancora attive in Ucraina, focolai deflagrati in diverse città dell’area sud-orientale, nella speranza di quella che i nazionalisti russi definirono la “primavera russa” nelle zone dell’ex dominio zarista della Novorossija.

Le proteste di AntiMaidan e le accuse di colpo di Stato filo-occidentale

In alcune città orientali, contemporaneamente alla rivoluzione di piazza di Kyiv, sorgono proteste denominate simbolicamente AntiMaidan. Non coinvolgono quasi mai più di qualche migliaio di persone, a Donec'k, Luhans'k, Mariupol, Kharkiv e Odessa. Quando sono più, come i 10.000 di Kyiv o i 40,000 di Kharkiv a novembre, numerosi giornalisti ucraini e stranieri testimoniano come i manifestanti pro-governativi siano a libro paga del Partito delle Regioni (per poche centinaia di gryvne al giorno). Alcuni manifestanti si lamenteranno di non essere stati nemmeno indennizzati, nonostante le promesse.

A manifestare contro il presunto colpo di Stato (e fino al febbraio 2014, semplicemente contro i manifestanti di Maidan definiti come burattini occidentali) sono spesso pensionati, insieme a dipendenti statali e lavoratori nelle grandi aziende degli oligarchi filo-regime. Vengono caricati sui bus, persino su treni privati, e portati a manifestare in diverse metropoli ucraine.

A Kyiv, Kharkiv, Dnipro sono incaricati di sventolare bandiere anti-UE e vari striscioni anti-occidentali,  anche a sfondo omofobico. Non è una pratica nuova; veniva usata già nell’Urss per riempire i vari raduni del partito comunista, per evidenziare la fedeltà al regime della base popolare. Alcuni oligarchi dell’Est, lo stesso Achmetov, presidente dello Shakhtar Donec'k, usavano queste catene logistiche per riempire gli stadi di calcio delle squadre di cui erano proprietari.

Ovviamente, un nucleo di persone che si oppone alla rivoluzione di Maidan esiste, e si radicalizza sotto la martellante propaganda dei canali filogovernativi e di quelli statali russi, i più visti nelle televisioni dell’Est. Tuttavia, Janukovyč e Putin faranno di tutto per dipingere AntiMaidan come l’altro lato della medaglia di una profonda frattura civile e sociale in seno all’Ucraina. Una narrazione mistificatoria, persino in un paese di profonde differenze regionali come l’Ucraina, che però contribuirà a esacerbare i toni fra le diverse anime del paese.

I sostenitori di Maidan accusano i sostenitori di Janukovyč di essere dei dinosauri nostalgici dell’Unione Sovietica, mentre i controrivoluzionari accusano gli avversari politici di voler svendere il paese ad europei e americani. A Dnipropetrovsk, chiedono l’imposizione del coprifuoco e la cacciata degli stranieri dall’Ucraina. In Crimea, i manifestanti dell’Anti-Maidan sono convinti che siano i giornalisti a uccidere i protestanti di Kyiv.

Viene pure coniato un insulto abilista estremamente diffuso fra i controrivoluzionari (così come in Russia), per definire gli ucraini di Maidan: maidownuty, fusione fra le parole Maidan e la sindrome di down. Quando la rivoluzione vince, i maidownuty diventano i fascisti di Kiev.

Secondo alcuni report fu la Russia, in modo diretto oppure tramite i propri delfini in Ucraina, a finanziare e provocare gli scontri successivi a Maidan nelle città meridionali e orientali del paese. Il Guardian riportò come il Cremlino persino a Mosca abbia pagato i propri cittadini per ingigantire le manifestazioni contro “i fascisti di Euromaidan” e di supporto alla “popolazione russofona del Donbas”.

Durante l’inverno 2014, a Donec'k, a manifestare è per lo più qualche centinaio di persone, fra pensionati ed elettori del Partito Comunista, come racconta un reportage della BBC. Aumenteranno solo con la mobilitazione di marzo, alimentata dai mezzi del Cremlino. Il pretesto è la lotta contro il nazifascimo, dopo un attacco al leader comunista Symonenko, uno stalinista nel paese dell’Holodomor, la cui casa viene incendiata da alcuni estremisti a fine febbraio.

In questo clima, alcune migliaia di comunisti e regionali scendono in piazza con bandiere russe, chiedendo l’intervento di Mosca. Provano a farlo in tutte le città (occupandone le amministrazioni regionali e comunali) del Sud-Est: Zaporizja, Kharkiv, Odessa, Kherson, Mykolaiv, Dnipro, Donec'k e Luhansk. Solamente nelle ultime due città del Donbas le istanze secessioniste acquisiranno una parvenza di credibilità, mentre a Kharkiv e Odessa il caos viene sventato all’ultimo momento: in queste, il consenso al separatismo è irrisorio, e il confine russo è più lontano.

La natura eterodiretta di questi processi trapelerà dai Surkov Leaks, i documenti segreti e raccolte di posta elettronica del funzionario russo Vladislav Surkov, in cui sono svelati i metodi con i quali i politici filorussi in Ucraina stavano spianando il terreno per un’invasione ibrida russa già nel 2014, alimentando le divisioni e la violenza fra opposte fazioni politiche: la cosiddetta operazione Nuova Russia (Novorossija).

La strage di Odessa del 2 maggio 2014

Anche Janukovyč e il Partito delle Regioni useranno metodi sporchi per sabotare Maidan. Vengono inviati dei provocatori chiamati titushky, picchiatori e combattenti di arti marziali assoldati dal regime per infiltrarsi e violentare i manifestanti antigoverno nelle varie piazze d’Ucraina, non solo a Maidan. Saranno presenti anche a Odessa il 2 maggio, quando scoppia uno dei giorni più sanguinosi, indecifrabili e, proprio per questi motivi, manipolati dalla propaganda russa negli ultimi nove anni.

Come ricorda un rapporto delle Nazioni Uniti sugli scontri di Odessa, il clima in città era teso già dal 19 febbraio, quando un gruppo di titushky attaccò un gruppo di manifestanti filo-europei della città. Le manifestazioni parallele riuscirono a procedere senza incidenti nei mesi successivi, fino alla deflagrazione del 2 maggio. Durante la mattinata, gli ultras di Metalist Kharkiv e Chernomorets Odessa si riuniscono prima di una partita del campionato di calcio. Organizzano una marcia a favore dell’unità del paese.

Sono ovviamente presenti gruppi radicali fra i tifosi (e molti di loro andranno a combattere nei battaglioni di volontari in Donbas), così come comuni cittadini di Odessa, per un totale circa duemila persone. Durante il corteo vengono attaccate da trecento attivisti filorussi ben equipaggiati e armati.

L’escalation degli scontri avviene, poche ore dopo, alla Casa dei Sindacati. Lanci di molotov da entrambe le parti portano a un incendio in cui muoiono 48 persone, soprattutto filorussi asserragliati nell’edificio, morti di asfissia. In pochi minuti, dalla guerra si passa al salvataggio, come ricorda un reportage del giornalista odessita Sergey Dibrov: gli attivisti pro-ucraini chiamano i pompieri e aiutano gli avversari a uscire (solo poche decine di estremisti continuano la guerriglia urbana a oltranza).

Il giorno successivo, negli ospedali di Odessa, i cittadini porteranno aiuti ai feriti, senza distinzioni di credo politico. Un gruppo investigativo indipendente – con attivisti di entrambe le fazioni, un fatto molto raro in Ucraina – ha parlato di "deliberate provocazioni filorusse" allo scopo di ricreare lo scenario di Donec'k (divampato già il 6 aprile) a Odessa.

Nel clima di tensione di quei mesi, la propaganda russa userà la tragedia per iniziare a parlare di genocidio della popolazione russofona; una versione sconfessata dal Consiglio d’Europa, dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e dall’OSCE. In Ucraina, al contrario, vince la narrazione per cui fra i morti filorussi vi erano soprattutto cittadini russi e della Transnistria; non era così, la maggioranza erano cittadini di Odessa.

Ciò ha messo a dura prova il sistema giudiziario e la sua indipendenza politica: a sottolinearlo furono molti giornalisti ucraini di Radio Free Europe, non i propagandisti di RIA Novosti. Come evidenzia lo stesso rapporto UN, le indagini giudiziarie in Ucraina sui responsabili della tragedia hanno avuto dei bias nei confronti dei separatisti (che nel 2017 verranno comunque tutti scagionati), mentre solo un uomo del rally unitario fu arrestato, per aver sparato con dei colpi di arma da fuoco.

Dall’AntiMaidan al separatismo filorusso: l’opinione degli ucraini

Come scrive l’analista ed esperto di Ucraina Giorgio Cella nelle conclusioni del suo libro Storia e geopolitica della crisi ucraina (Carocci editore, 2021):

Con Euromaidan le antiche contrapposizioni identitarie e geopolitiche nazionali si sono esacerbate […] mettendo grande pressione su quella già fragile struttura statuale nata nel 1991, la quale, in mancanza di un potere centrale capace di una gestione armonica e condivisa delle diverse regioni e delle loro differenti sensibilità identitarie, tende periodicamente verso crisi statuali di più o meno grande gravità.

Un importante sondaggio del principale think-tank ucraino Razumkov Center, svolto nel 2020, analizza la percezione degli eventi di Maidan a sei anni dalla loro conclusione. Il 23% degli intervistati continuava a ritenere quello di Kyiv un colpo di Stato, mentre il 17,7% un cambio di regime con metodi non del tutto legittimi, sebbene dettati da motivi di necessità giustificabili. Tornando indietro, circa il 38% sosterrebbe il Maidan, e solo il 10% l’AntiMaidan. La percentuale più alta, quasi il 40%, è quella di chi non parteciperebbe a nessuna delle due proteste.

I dati campionari, seppur necessari di una lettura più ampia e contestualizzata, contribuiscono a ricostruire la frammentazione del pensiero politico e culturale ucraino, caratterizzato da diversi background regionali. Una frammentazione che non significa però automaticamente russofilia e istanze separatiste, come molti ipotizzano, strumentalmente, anche in Italia. L’evidenza suggerisce, piuttosto, come l’identità linguistica e l’autodefinizione etnica siano non sovrapponibili nel caso ucraino (e post-sovietico in genere).

Un ampio campione dell’Istituto sociologico di Kyiv evidenzia come nel 2014 solo tre regioni registravano una percentuale superiore al 10% fra coloro che desideravano un’annessione della propria oblast’ alla Russia. A Donec'k sono il 30%, a Luhans'k il 28% e appena il 16% della popolazione a Kharkiv, dove come a Odessa (7%), Dnipro (7%) e Kherson (4%) le proteste filorusse e anti-Maidan non riuscirono a divampare in fuochi separatisti più ampi, facendo fallire il progetto della Novorossija sul nascere.

Queste percentuali, peraltro, rimangono stabili nel 2021-2022 (e crolleranno drasticamente dopo il 24 febbraio, quando gran parte della quinta colonna filorussa volterà le spalle a Putin), segno di come le politiche di Kyiv per l’unità nazionale non abbiano condizionato chi aveva già preso una scelta nei confronti della Russia.

La propaganda russa ha infatti insistito sin dal 2014 sulla sovrapposizione tra russofonìa e identità russa, giocando sul mito delle “due Ucraine” nella propria cornice ideologica del russkij mir. Si puntava, cioè, a postulare come inconciliabili le due anime del paese, quella occidentale e orientale, alla base di un presunto conflitto etnico, in cui una parte chiedeva esplicitamente l’intervento diretto di Mosca: seppure siano state molto eterogenee le posizioni attorno alla nozione di cittadinanza ucraina, solamente una minoranza marginale della popolazione residente nel paese attendeva le truppe russe sul proprio suolo. 

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Ripartire dagli eventi bellici del 2014, nella seconda parte, permetterà di comprendere fino in fondo le cause per cui i piani russi hanno parzialmente successo in Crimea e Donbas, ma vanno incontro a una clamoroso fallimento in altre oblast’ russofone e culturalmente più vicine a Mosca come Odessa, Kharkiv, Dnipro e Zaporizhzhya, i cui abitanti sono pressoché indistinguibili da quelli di Donec’k e Luhans’k. Ponendosi come obiettivo quello di spaccare l’Ucraina nel 2014, l’operato russo è riuscito a paradossalmente a uniformare l’appartenenza a Kyiv e rafforzare l’estraneità al Cremlino di larghe fasce della popolazione dall’identità ibrida, recidendo per sempre i loro legami - pur presenti, quelli familiari, linguistici, culturali - con la Russia.

Immagine in anteprima: Аимаина хикари, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

L'articolo è stato aggiornato per correggere le informazioni sui morti nella strage di Odessa.

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