Ragioni e illusioni dei pacifismi. La guerra Russia-Ucraina e la prospettiva etica
11 min letturadi Federico Zuolo - professore associato in filosofia politica dell'Università di Genova
Molti si dichiarano pacifisti, e con buone ragioni. Chi non pensa che la pace sia uno dei valori più importanti? Ridotta in questi termini la questione sembra quasi triviale. Il problema non è tanto la richiesta dei mitici negoziati, dato che i canali sono sempre aperti sottotraccia e in ogni caso la guerra termina con dei negoziati. L’apertura dei negoziati dipende sempre dalle condizioni del conflitto, e dai rapporti di forza sul campo e internazionali, non dall’importanza morale della pace, condivisa da (quasi) tutti. Attualmente, nei posizionamenti pubblici la questione del pacifismo si esprime nell’urgenza di richiedere la fine delle ostilità qui e ora. È la natura incondizionata della richiesta che sembra demarcare i pacifisti da altre posizioni che, a loro volta, genuinamente vogliono la pace. Quindi la disputa è tra chi vuole la fine del conflitto (quasi) a qualsiasi condizione e chi dà valore alle condizioni. Infatti, anche se abbiamo sempre un dovere di limitare morte e sofferenza, le condizioni contano poiché determinano il modo in cui si continuerà a vivere dopo la fine delle ostilità.
Il pacifismo come posizione sociale ha una lunga storia che qui è impossibile ricostruire. Nel secolo scorso, e anche negli ultimi decenni, ha prosperato, giustamente, su una miriade di guerre sbagliate, dubbie e pretestuose. Basti pensare all’emblematico Vietnam per la generazione dei baby boomer, così come al disastro in Afghanistan dei nostri giorni. Di fronte a casi del genere la pretesa incondizionata della fine delle ostilità assumeva una cogenza evidente. Ma può la stessa urgenza valere di fronte a situazioni almeno in parte giustificate? Può valere in un caso di guerra di autodifesa, cioè nel caso di paesi vittime di un’aggressione? Quasi nessuno, anche tra i pacifisti di tipo incondizionato, negherebbe che in generale uno Stato (o un individuo) abbia il diritto di difendersi. Ma, talvolta, pur riconoscendo il diritto in generale di difendersi, molti negano che uno Stato specifico in un certo contesto abbia questo diritto (ad esempio l’Ucraina) o che questo diritto sia sufficientemente forte rispetto ad altre considerazioni. Più in generale, per valutare le ragioni del pacifismo assolutista e per verificare i dubbi specifici sul caso ucraino, dobbiamo considerare le ragioni espresse o implicite delle parti in causa. Ovvero, bisogna esaminare il caso della guerra in Ucraina seguendo gli argomenti teorici, e sì anche filosofici, di etica della guerra.
La guerra e la questione della legittimità
È degno di nota che nella storia del pensiero esistano pochissimi pacifisti assoluti. Benché tutti pensino che si debba cercare la pace, in pochi pensano che la si debba cercare a tutte le condizioni, anche quando, ad esempio, è la pace imposta da un’aggressione ingiusta. Tra i pochi, va menzionato Erasmo da Rotterdam. Persino in Kant, per molti il punto di riferimento del pacifismo filosofico e giuridico contemporaneo, la questione è sfumata. Benché la guerra tra Stati sia, di per sé, un male morale, è una componente necessaria e paradossale del progresso storico che solo il grande progetto della pace perpetua può superare.
La tensione verso una pace come condizione stabile è o dovrebbe essere l’ideale di tutti, che lo si pensi fattibile o utopistico. Eppure, dato che la guerra è purtroppo un fatto del mondo, la morale deve occuparsene. Ciò vale a dire che la moralità non si esprime solo nella richiesta di pace, ma anche nell’urgenza di comprendere e limitare la guerra. In tal senso, molti pensatori hanno elaborato teorie sulla guerra che cercano di perimetrare le condizioni in cui vi può essere una giusta causa, una risposta proporzionale, o una condotta ammissibile in guerra. E nel farlo hanno distinto le ragioni per cui uno Stato possa legittimamente entrare in guerra (jus ad bellum) e il modo in cui la guerra viene portata avanti (jus in bello).
Di fronte all’urgenza della questione posta dalla guerra in Ucraina queste distinzioni possono sembrare superflue. Ma non lo sono, e possono invece aiutare a chiarire il dibattito pubblico. Prima di analizzare in dettaglio le ragioni e i livelli di argomenti sulla guerra (legittimità dello stato, jus ad bellum, jus in bello, questioni pragmatiche), bisogna definire cosa si intende per guerra. Guerra non è il mero uso della violenza da parte di gruppi sociali o privati. Guerra è lo scontro armato tra Stati. Questa condizione preliminare, apparentemente ovvia, va al giorno d’oggi aggiornata per includere anche forme di guerra non convenzionali, ovvero le attività di sabotaggio, guerriglia e resistenza dei cittadini o dei gruppi informali.
Queste iniziative della popolazione, in un caso come quello tra Russia e Ucraini, vengono in subordine al rapporto tra gli Stati. Quindi in un confronto tra Stati la questione preliminare è capire la legittimità di questi. Stabilire quale sia uno Stato legittimo e quale sia uno illegittimo non è cosa semplice. La questione di principio sul grado di legittimità è stata inquinata negli ultimi anni da una contrapposizione a volte di comodo, altre volte ideologica, tra occidente democratico e resto del mondo. Ma la questione di principio rimane. Senza presupporre la superiorità di un campo sull'altro, i diversi gradi di legittimità segnalano quanto una politica statale così importante come la guerra può essere sostenuta e accettabile per la popolazione. Per capire quanto tutto questo abbia un’immediata rilevanza, che prescinde dal nostro sguardo occidentale, basta guardare le diverse reazioni interne a Ucraina e Russia di fronte alla guerra. Da un lato abbiamo una popolazione che quasi unanimemente sostiene lo sforzo di autodifesa, dall’altro una popolazione che in piccola parte dissente, in larga parte teme la repressione e se ne ha i mezzi cerca di sfuggire alla chiamata alle armi. Contrapporre a quest’ultimi fenomeni la (quasi inevitabile) propaganda di Zelensky sembra veramente un sofisma in cattiva fede.
Quindi, le recenti illazioni sullo scarso pedigree democratico dell’Ucraina e sulle presunte volontà di alcuni territori russofoni di adesione alla Russia, anche quando fossero vere, non giustificherebbero l’equiparazione dell’Ucraina alla Russia quanto a legittimità istituzionale. Il puntare a difetti, reali o eventuali, di una parte non implica abbassarla al livello dell’altra.
Queste considerazioni servono anche a gettare luce su un sospetto più volte adombrato nel dibattito: che l’Ucraina non sia una nazione vera e propria, e che quindi non abbia diritto a difendersi poiché appartiene storicamente alla Russia. In molti hanno messo in dubbio la fondatezza storica di questa tesi. Ma, oltre alla questione storica, l’attuale struttura istituzionale dei due Stati non dovrebbe lasciare molti dubbi. Anche se l’Ucraina appartenesse storicamente alla Russia in un qualche senso, il diritto di autodeterminazione popolare, chiaramente espresso dagli Ucraini, spazza via le eventuali pretese territoriali russe e i dubbi di alcuni sullo Stato ucraino.
Jus ad bellum e jus in bello
La questione della legittimità dello Stato è preliminare alle eventuali ragioni per l’entrata in guerra (jus ad bellum). La dottrina della guerra giusta ha una storia complessa che qui è impossibile anche soltanto ricordare. Sebbene suoni come un termine sinistro e facilmente manipolabile, non implica certo la possibilità di muovere guerra per i propri interessi. Vi è un vasto disaccordo su quali siano i motivi validi, di principio e di fatto, per muovere guerra. Forse solo la difesa da un’aggressione dell’integrità territoriale è unanimemente considerata un motivo valido. Di certo al giorno d’oggi non penseremmo che lo siano guerre di religione.
La dottrina della giusta causa, per tanti anni inutilizzata, è stata ripresa infaustamente dagli Stati Uniti nella forma della guerra preventiva (si pensi alla guerra in Iraq promossa da George W. Bush). È ormai evidente che questa motivazione è stata usata strumentalmente e con scarse ragioni. Ma oltre ai casi passati, questa considerazione ci dà un’indicazione attuale: se si rigetta l’idea di guerra preventiva come motivo valido, a maggior ragione si dovrebbe togliere questa ragione dall’armamentario russo. Infatti, al di là delle grottesche motivazioni sull’esigenza di “denazificare” l’Ucraina, l’unica ragione di jus ad bellum apparentemente disponibile per Putin e i suoi accoliti è sostenere che le attività ucraine costituissero un rischio per l’integrità territoriale russa. Per farlo, però, bisognerebbe prendere per buona l’idea, implausibile, che l’avvicinamento ucraino al blocco occidentale costituisca una minaccia per la Russia. Ma anche se ammettessimo la plausibilità di questa motivazione, la giusta causa si applicherebbe solo sostenendo un argomento come quello della guerra preventiva. Quindi, per sostenere la giusta causa russa bisognerebbe riconoscere la giusta causa americana in Iraq (e Afghanistan). Cosa che andrebbe di traverso a molti che adesso richiedono la fine delle ostilità ad ogni condizione.
Oltre alle ragioni per entrare in guerra (jus ad bellum) bisogna considerare come le parti si comportano nel conflitto (jus in bello). Uno Stato potrebbe essere legittimo e avere una buona ragione per entrare in guerra o per difendersi, ma comportarsi in maniera ingiustificata durante il conflitto. I principi dello jus in bello sono complessi e articolati ma qui si possono ridurre alle seguenti idee:
- che si debba distinguere tra militari e civili (in quanto target non legittimi);
- che gli obiettivi degli attacchi debbano essere necessari per la strategia militare e non un mero dispiego di forza;
- che ci debba essere proporzionalità nell’intervento e nella risposta.
Specificare la distinzione tra militari e civili non è semplice, così come è difficile stabilire quali siano gli obiettivi necessari e le risposte proporzionate. Sebbene l’applicazione di queste idee sia difficile e soggetta a controversia, ci sono situazioni di evidente violazione dei principi dello jus in bello.
Nel considerare il comportamento della Russia e dell’Ucraina non si può non notare una notevole disparità nella condotta in guerra. Da un lato abbiamo il ricorso abbondante a bombardamenti a danno dei civili, lo stupro di donne e l’uccisione indiscriminata di civili gettati in fosse comuni; dall’altra parte, oltre alle “ordinarie” operazioni dell’esercito, al massimo si possono menzionare azioni di sabotaggio e guerriglia dei civili che si difendono dall’invasore. Laddove ci sono state azioni contrarie a convenzioni o al diritto internazionale da parte dell’aggredito, esse non hanno avuto carattere sistematico o programmatico, né per modalità né per frequenza né per intensità.
Le conseguenze possibili dell’entrata in guerra e gli argomenti prudenziali
Finora abbiamo considerato le ragioni che uno Stato può avere (o non avere) da un punto di vista di principio. Questi argomenti costruiscono il profilo con cui si può valutare se uno Stato abbia una posizione legittima in guerra, delle buone ragioni per l’entrata in guerra (jus ad bellum), e se si comporti in un modo adeguato (jus in bello). Ma ovviamente vi sono altre considerazioni, non di principio, che sono altrettanto importanti. Il mondo degli argomenti prudenziali (o pragmatici) considera le conseguenze possibili dell’entrare in guerra o del continuarla. Questi argomenti sono ovviamente validi e importantissimi. Ma, a differenza di quelli di principio, non hanno una validità generale e il loro peso nel discorso dipende dalla probabilità delle conseguenze che paventano.
Tra gli argomenti prudenziali, il rischio di escalation è particolarmente importante e attuale. Sebbene il rischio di escalation nucleare non vada certo sminuito, dato che ha fatto da architrave all’equilibrio di potenze durante la guerra fredda, il peso di questo argomento va valutato nella sua probabilità contestuale. Infatti, il rischio di escalation è virtualmente presente in quasi ogni situazione conflittuale, ma diventa preoccupante solo quando sembra portare necessariamente alla catastrofe. Se è presentato in questo modo prende la forma del pendio scivoloso (slippery slope). Chi lo sostiene pensa che dovremmo smettere di aiutare l’Ucraina e che gli Ucraini dovrebbero smettere di difendersi poiché la Russia (Putin in particolare) non potrebbe ammettere la sconfitta, e di rilancio in rilancio, si finirebbe per dover usare l’atomica.
Questo tipo di argomenti ci mostra le conseguenze disastrose del non intervenire subito per fermare una dinamica apparentemente inarrestabile. Ma tutti gli argomenti del pendio scivoloso, compreso quello dell’escalation attuale, presumono che si possa intervenire solo adesso e mai in futuro. Come se la libertà fosse a disposizione solo in un certo momento: sempre adesso e mai in futuro. In tal senso, fidarsi automaticamente dell'argomento del pendio scivoloso significa considerarsi incapaci di fare alcunché in futuro. Al di là del paradosso e del gioco di parole, non è necessariamente vero che fare (o non fare) qualcosa adesso ci porterà alla catastrofe, o che non potremo agire in futuro.
Inoltre, la pericolosità del pendio scivoloso non sembra considerare la possibilità di contaminare altri contesti. Se la paura di un’escalation fosse capace di bloccare ogni iniziativa ulteriore, questo costituirebbe un motivo per usare la minaccia di escalation in altri contesti. Ovvero, altri stati al di fuori del conflitto Russia-Ucraina sarebbero incentivati a minacciare escalation regionali poiché la minaccia in un posto si è dimostrata capace di bloccare la difesa degli aggrediti. Si consideri, in particolare, il caso della Corea del Nord.
Quindi anche il dire che entrambe le parti dovrebbero fare un passo indietro è un argomento da prendere con le molle. Benché ogni accordo alla fine implichi un minimo di compromesso, salvo i casi di capitolazione completa, nella situazione attuale richiedere a entrambe le parti di fare un passo indietro è ingiusto moralmente e discutibile pragmaticamente. È ingiusto perché il passo indietro della Russia non ha lo stesso valore di quello ucraino, dato che gli uni dovrebbero rinunciare a una cosa a cui non hanno diritto e gli altri dovrebbero smettere di difendere qualcosa su cui hanno diritto. Ed è anche un argomento di dubbia razionalità pragmatica perché darebbe il segnale che non conviene difendersi dagli attacchi degli stati minacciosi poiché il rischio di escalation bloccherebbe l’aiuto esterno. In tal modo darebbe un incentivo alla proliferazione dei conflitti.
Più in generale, il problema del dibattito attuale si manifesta nell’uso improprio degli argomenti prudenziali. Pur essendo ammissibili, non sono necessariamente così forti come vengono spacciati. Ovvero, la loro forza deve essere misurata nei termini della probabilità delle conseguenze che paventano. Presentando possibili esiti disastrosi fanno leva sulla (comprensibile) avversione al rischio di tutti, senza però limitare il peso del disastro secondo la probabilità del suo occorrere. Di conseguenza, vengono usati come se fossero degli argomenti di principio, ovvero come degli argomenti che dovrebbero bloccare qualsiasi altra considerazione, mentre sono in realtà elementi discorsivi che hanno un valore a volte più limitato di quel che sembra.
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In conclusione, ci si potrebbe chiedere a cosa servono queste distinzioni che si basano su argomenti filosofici. Qualcuno potrebbe pensare che, in sostanza, ciò che conta è la fine delle ostilità, e per questo bisogna convincere tutti in qualsiasi modo. Senza escludere il ruolo della retorica nelle circostanze storiche, l’analisi delle ragioni (e dei torti) può fornire un immediato contributo al miglioramento del dibattito pubblico. Le presunte ragioni e la confusione argomentativa inquinano il dibattito e impediscono alle collettività una sana e chiara deliberazione. La confusione del dibattito si è mostrata nella falsificazione della legittimità dello Stato ucraino, così come nel dare peso all’idea che la Russia sia stata provocata dall’Ucraina. Ma, affrontati direttamente, questi argomenti si sciolgono facilmente. Invece nessuno ha usato il comportamento in battaglia per sostenere la bontà della causa russa, vista la palese violazione dello jus in bello da parte dei Russi. Quindi alla causa russa non rimangono che gli argomenti prudenziali: che agli Ucraini convenga arrendersi poiché non hanno possibilità di riuscita e che a noi occidentali non convenga sostenere gli Ucraini per la stessa ragione o perché la guerra ci pone un costo insostenibile. Con il passare dei mesi abbiamo visto che l’esito, apparentemente inevitabile, non era così scontato e che, a prescindere da questioni di giustizia, quella che sembrava un’ovvia valutazione pragmatica, si è mostrata infondata. Quindi adesso abbiamo sul tavolo solo gli argomenti basati sul costo per il ritiro del sostegno occidentale all’Ucraina.
In pochi hanno effettivamente sostenuto che dobbiamo smettere di sostenere l’Ucraina perché economicamente non ce lo possiamo permettere. L’argomento è in definitiva poco convincente ma di per sé è onesto, a differenza di altri. Viene solitamente rigettato poiché mette l’opinione pubblica di fronte a uno scambio inaccettabile: i principi di giustizia, che chiedono di sostenere chi è stato invaso ingiustamente, verrebbero barattati per un tranquillo comfort, costituendo così uno smacco alla nostra coscienza collettiva che evidentemente non siamo ancora pronti ad accettare. Molti degli altri argomenti, invece, spacciano per questioni di principio elementi contestuali e contestabili, che in definitiva servono più a salvare la coscienza che a far avanzare il dibattito.
Queste considerazioni non vogliono sostenere che qualsiasi siano le condizioni e l’evoluzione della guerra non dovremmo cambiare la nostra posizione. Al contrario, ci ricordano come dobbiamo continuamente riconsiderare la legittimità delle parti in gioco, le ragioni (e i torti), e le questioni pragmatiche. Ma nel farlo dovremmo analizzare chiaramente il peso delle motivazioni per quello che sono, e non contrabbandare questioni di convenienza per questioni di principio.
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