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La guerra in casa: Putin e l’occupazione ucraina nella regione di Kursk

22 Agosto 2024 8 min lettura

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La guerra in casa: Putin e l’occupazione ucraina nella regione di Kursk

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Il suono stridente delle sirene, il rumore delle esplosioni e degli spari, le grida dei feriti e di chi cerca i propri cari sotto le macerie, il fumo degli incendi: sembrerebbe un film già visto, al novecentesimo giorno di guerra, solo che questa volta è cambiato lo scenario, a esser colpiti sono i territori meridionali della regione di Kursk, al confine con l’Ucraina, teatro di combattimenti dallo scorso 5 agosto, quando le truppe ucraine hanno lanciato un attacco a sorpresa al di là della frontiera.  Le forze di Kyiv si sono inizialmente concentrate nel distretto di Sudzha, il cui capoluogo è a 9 chilometri dal confine, per poi avanzare in direzione di Lgov e Kurchatov, quest’ultima sede della centrale nucleare di Kursk. I combattimenti interessano tutta la zona sud-occidentale della regione, da cui sono state evacuate più di 122.000 persone, di cui 10.000 attualmente ospitate nei centri temporanei allestiti in 27 regioni russe, e i dati della Protezione civile al momento risultano essere provvisori, perché dai territori interessati solo il 20 agosto sarebbero stati evacuati più di 500 cittadini. Kursk, distante circa 70 chilometri dai luoghi in cui si combatte, ogni giorno è bersaglio di attacchi missilistici, diventando così il secondo capoluogo regionale russo dopo Belgorod a essere interessato direttamente dalla guerra.

Nelle tre regioni che confinano con il nord-est dell’Ucraina, ovvero quelle di Belgorod, Brjansk e Kursk, è stato dichiarato lo stato di operazione antiterrorismo, che ha un precedente importante, la seconda guerra di Cecenia (nella repubblica è durato 10 anni, dal 1999 al 2009): il provvedimento prevede una serie di misure, dal rafforzamento della sorveglianza degli edifici e delle infrastrutture pubbliche al controllo sui cittadini fino allo spostamento forzato in caso di pericolo, un ventaglio di possibilità che conferiscono alle autorità poteri eccezionali e ben al di là del dover fronteggiare la minaccia terroristica. Il coordinamento dell’operazione, di competenza del Comitato nazionale antiterrorismo, al cui vertice vi è il direttore dell’Fsb Aleksandr Bortnikov, non prevede però l’estensione del controllo – almeno formalmente – alle forze armate, impegnate su un nuovo fronte del tutto inaspettato. 

L’offensiva ucraina ha colto alla sprovvista lo stato maggiore russo, in un punto dove erano schierati anche reparti composti da soldati di leva, e le dichiarazioni del generale Valery Gerasimov durante il briefing convocato da Putin il 7 agosto scorso, in cui si annunciava la distruzione del contigente ucraino, si sono rivelate all’insegna di un ottimismo frettoloso e soprattutto fasullo, tali da suscitare l’indignazione dei voenkory, ovvero i blogger-Z, sostenitori della guerra a oltranza, autori di canali Telegram molto seguiti. Le critiche dell’area ultranazionalista si son concentrate sullo stato maggiore, risparmiando Andrei Belousov, il ministro della Difesa nominato pochi mesi fa al posto di Sergei Shoigu, ritenuto ancora oggi l’espressione della volontà di Vladimir Putin di cambiare radicalmente l’atmosfera nel dicastero, al centro di numerosi scandali di corruzione sfociati in arresti eccellenti e processi appena iniziati, come nel caso di Timur Ivanov, già viceministro e accusato di essere a capo di un giro di tangenti negli appalti per la costruzione di alloggi per i militari. L’opera di ridefinizione degli equilibri all’interno di un ministero mai come ora chiave, dove tra i vice di Belousov vi è Anna Tsivileva, imparentata con il presidente, non è apparsa però in grado di prevenire l’attacco nella regione di Kursk, e d’altronde l’estensione del confine russo presenta non poche difficoltà nel poter garantire una presenza capillare di contingenti dell’esercito.

È difficile avere dati certi su quanto sia estesa l’area attualmente occupata dalle forze armate ucraine, le versioni discordanti date dalle due parti forniscono cifre assai distanti: secondo il comandante in capo dell’esercito di Kyiv, Oleksandr Syrsky, la zona sottratta alla Russia sarebbe estesa per 1.263 chilometri quadrati e interesserebbe 93 centri abitati; non vi sono numeri precisi da parte russa, il governatore facente funzioni della regione di Kursk, Alexey Smirnov, il 12 agosto aveva dato notizia di 28 villaggi conquistati dagli ucraini. Una conferma indiretta dell’estensione della zona controllata è possibile però attraverso l’analisi dei dispacci del ministero russo della Difesa, dove si elencano i combattimenti in prossimità dei centri, e nei comunicati delle autorità civili; ad esempio, le elezioni per il rinnovo dei consigli dei distretti di Bolshoe Soldatskoe, Sudzha, Korenevo, Khomutovka, Belaya e Glushkovo e della città di Lgov, previste per settembre, sono state rinviate a data da destinarsi, mentre è ancora da definire come e quando verrà inaugurato il nuovo anno scolastico nella regione, perché la data tradizionale, l’8 settembre, è fin troppo vicina. Si prospettano varie soluzioni, dalla didattica a distanza alla possibilità di poter frequentare la scuola in altri territori russi, già le autorità della regione di Orel hanno annunciato provvedimenti in tal senso. Per l’elezione del governatore, però, è stata adottata una misura inedita, anticipando l’apertura delle urne al 28 agosto, e non è chiaro come potranno votare i cittadini in questo momento dall’altra parte del fronte. 

Appare molto difficile fare delle previsioni su quanto avverrà in questo nuovo teatro di guerra, e la prudenza contraddistingue entrambe le parti, consapevoli di una serie di incognite che gravano sulla tenuta generale: dalla capacità di metter in campo uomini e mezzi fino a quanto succede su altri fronti, come in Donbas, dove l’avanzata russa continua, lenta ma al momento incessante. 

L’aspetto principale dell’apertura di un nuovo settore d’operazioni belliche, all’interno dei confini riconosciuti dalla comunità internazionale della Russia, appare politico, e vede essenzialmente due elementi: come la presenza delle truppe ucraine in territorio russo possa essere utilizzata in futuri negoziati e quali effetti essa avrà per la stabilità del sistema putiniano. Le trattative, di cui tanto si è scritto nei mesi precedenti l’offensiva ucraina, ufficialmente sono sempre state smentite sia da Kyiv che Mosca, e le posizioni delle parti non hanno subito cambiamenti: il ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina nei confini del 1991 contro il riconoscimento dell’annessione da parte russa delle quattro regioni sud-orientali assieme alla Crimea, già dal 2014 occupata. 

È anche vero, però, che le spinte verso una risoluzione del conflitto, almeno temporanea, attraverso un dialogo tutto da costruire tra Russia e Ucraina, si sono intensificate a partire dalla scorsa primavera, persino tra i paesi occidentali schierati nel sostegno a Kyiv, e il paventato successo di Donald Trump alle elezioni del prossimo novembre ha rafforzato i timori di soluzioni fin troppo favorevoli per il Cremlino. L’offensiva ucraina, oltre a voler creare una “zona cuscinetto”, come dichiarato da Volodymyr Zelensky, ripetendo le parole usate da Putin qualche mese fa nel motivare gli attacchi russi nella regione di Kharkiv, rende lo scenario di una trattativa da posizioni sfavorevoli quantomeno improbabile; d’altro canto, da parte di Mosca, ufficialmente, non vi è alcuna volontà di prender parte a negoziati, circostanza ribadita dal presidente russo durante la riunione del 7 agosto e ripetuta più volte dagli esponenti di governo, buon ultimo Dmitry Medvedev, riapparso su Telegram dopo quasi due settimane d’assenza per scrivere in caratteri cubitali che non ci sarà alcun dialogo fino alla “disfatta totale del nemico”.

L’effetto sorpresa dell’operazione militare ucraina ha spiazzato Mosca e l’ha posta di fronte a una situazione di difficile risoluzione immediata, perché lo spostamento di truppe e mezzi da un teatro di guerra all’altro espone a dei rischi e deve essere praticato con grande attenzione. Una seconda ondata di mobilitazione, invece, potrebbe avere come effetto un aumento delle tensioni sociali e richiederebbe del tempo per formare nuove truppe da impiegare in prima linea. Già la presenza di unità composte da soldati di leva, alcuni dei quali catturati dagli ucraini, è stata oggetto di proteste da parte dei familiari, che chiedono di riportare a casa i propri ragazzi, e la risposta ufficiosa appare essere netta. 

“Se i vostri figli diciottenni, alle dipendenze del ministero della Difesa, sotto le armi, non devono difendere la patria nemmeno quando è attaccata dal nemico, allora mi chiedo, ma voi e i vostri figli a cosa servite per il vostro paese?”: le parole di Apti Alaudinov, comandante del reparto ceceno speciale d’assalto Akhmat e vice della direzione generale politico-militare della Difesa, al momento rappresentano l’unica replica di un esponente dell’esercito alle famiglie. Da parte delle autorità, però, si persegue una linea molto attenta riguardo a cosa sta avvenendo nella regione di Kursk, che si riflette anche nella propaganda. A differenza dei voenkory, infatti, si evita ogni tipo di tono passibile di allarmismo, con un’accurata scelta di espressioni e parole in grado di depotenziare gli avvenimenti, continuando in quella che l’antropologa Aleksandra Arkhipova ha definito in più occasioni la nuova lingua della guerra, fatta di vocaboli utilizzati per sostituire termini ben più preoccupanti (invece di esplosione per descrivere le conseguenze dei droni ucraini si parla di botto) e del ricorso alla forma impersonale dei verbi, in una rappresentazione spesso surreale di quanto accade. Gli sfollati dai distretti interessati dai combattimenti non sono profughi, ma cittadini temporaneamente trasferiti, e il sussidio una tantum di diecimila rubli (circa 98 euro) ciascuno, stabilito dalle autorità, vuole confermare il carattere di straordinarietà dell’evento, presentato non come una guerra ma una specie di calamità provvisoria. Per i programmi televisivi e i media ufficiali nelle prime due settimane non vi è stata un’offensiva nella regione, ma una “situazione”, degli “avvenimenti”, una “provocazione”, per poi ribadire come gli obiettivi avanzati da Kyiv – seminare il panico e la discordia nella società russa – non siano stati raggiunti, mantenendosi sul vago a proposito di quanto avviene nella regione, dopo aver in alcuni casi annunciato la disfatta del nemico. Un atteggiamento a prima vista quasi schizofrenico, ma che in realtà si fonda sul confondere più che sul convincere.

La grammatica del potere adottata dalle autorità e dalla propaganda interagisce dialetticamente con una società atomizzata, che non viene chiamata alla mobilitazione patriottica per la difesa dei confini violati dal nemico, perché da tempo tenuta coscientemente in uno stato di depoliticizzazione imposta, in una contraddizione stridente con alcuni dei miti e delle parole d’ordine avanzate negli ultimi anni dal Cremlino e dalla propaganda. La disconnessione dalla realtà della guerra, elemento emerso con forza negli ormai 910 giorni dall’inizio del conflitto, risulta ancora più paradossale adesso, quando le battaglie si combattono in territorio russo ma nel resto del paese la vita quotidiana va avanti, soprattutto nelle grandi città, con un’attenzione minima a qualcosa interpretato più come un brutto serial che una tragedia vicina. 

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In queste settimane quanto visto durante la marcia di Evgeny Prigozhin verso Mosca il 24 giugno 2023, ovvero un atteggiamento da osservatori frammisto a preoccupazione e meme su quanto avveniva, sembra dispiegarsi appieno in una dissociazione passiva, che fa però da contrappunto all’assenza di notizie su atti di resistenza nei territori occupati dall’esercito ucraino; la guerra sembra esser parte di una routine di fondo, lo spettro di una seconda mobilitazione aleggia ma non appare esser prossimo e arruolarsi è un lavoro come un altro, reso allettante dalle cifre assai generose offerte dai contratti proposti dalle forze armate, con salari spesso dieci volte tanto lo stipendio medio di molte regioni russe. 

La stabilità instabile del sistema putiniano si regge sulla fragilità autoritaria, sulla difficile formula della repressione unita allo stato di “normalità” economica e lavorativa mantenuto nella società russa, e prova a tener lontana ogni prospettiva in grado di turbare questa condizione in bilico perpetuo. Un equilibrismo sottile e cinico mentre migliaia di donne e uomini, di vecchi e bambini, lasciano le proprie case, al momento ultimo capitolo di una guerra senza soste: quanto accade nella regione di Kursk, secondo alcune fonti dell’Amministrazione presidenziale citate da Meduza, dovrà diventare la “nuova normalità”.

Immagine in anteprima: Frame video Sky News via YouTube

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