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Gli archivi aperti del KGB: l’Ucraina ha capito che per costruire una democrazia bisogna fare i conti con la storia

15 Maggio 2022 19 min lettura

Gli archivi aperti del KGB: l’Ucraina ha capito che per costruire una democrazia bisogna fare i conti con la storia

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Ci sono due modi per denigrare la lotta di sopravvivenza degli ucraini contro l’invasione russa. Il primo è sostenere che l’Ucraina sia un paese nazista perché vi sono attivi partiti e movimenti ultranazionalisti, seppure minoritari e politicamente marginali. Il secondo è affermare che stiamo assistendo a una guerra per procura, che gli ucraini sono solo un proxy americano, il vero conflitto è fra la Russia e gli americani. Premesso che la guerra ha evidenti implicazioni che vanno oltre il quadro regionale e la strumentalizzazione dei conflitti per interessi geopolitici di vari attori è sempre possibile, entrambe le affermazioni non fanno che avvalorare la propaganda putiniana e misconoscono, svilendolo, il valore del percorso di evoluzione politica e civile compiuto dall’Ucraina negli ultimi vent’anni. Parliamo di un percorso senz’altro difficile e non ancora compiuto, accompagnato, attraversato e gravato da enormi fragilità e problemi, che ha conosciuto dolorose battute d’arresto, ma anche momenti di rinnovata spinta e drammatica accelerazione. Proteste di massa e rivoluzioni sono state manifestazione di un’autentica volontà di rinnovamento democratico e di sviluppo, attorno alla quale è andata definendosi quell’identità nazionale ucraina che oggi vediamo brutalmente sopraffatta dall’aggressione russa, con la dichiarata intenzione di annientarla.

L’originalità di questo percorso, come bene ci spiega Simone Attilio Bellezza, risiede nella «formazione di una coscienza civica nazionale, un patriottismo civile non legato alla concezione etnica della nazione, ma a quella di cittadinanza». L’aspirazione ucraina a sviluppare una società ispirata ai valori occidentali di liberalità e pluralismo ha però anche un’altra cifra distintiva, nella quale sta racchiusa tutta la sua tragicità: la sua drastica contrapposizione all’evoluzione sempre più scopertamente dittatoriale della Russia. Lo sforzo di europeizzazione, volto a portare l’Ucraina nel mondo occidentale, ha generato orizzonti di duplice emancipazione della società ucraina, l’ambizione di manovrare il paese non solo fuori dall’orbita russa nel presente, ma anche fuori dal passato, dalla dimensione storica russo-sovietica, via dalle narrazioni e dagli immaginari del mondo russo. Solo chi ha consapevolezza della grande vicinanza culturale di russi e ucraini, nonché dell’importanza che ha avuto la funzionalizzazione identitaria della storia sovietica per il consolidamento del regime putiniano in Russia, può cogliere quale minaccia esistenziale costituisca per il Cremlino non la NATO, ma un’Ucraina alter ego democratico, aperta alla comunità internazionale e forte di un’identità nazionale cementata da paradigmi memoriali antisovietici.

Ascolta il podcast >> Il destino dell'Ucraina, il futuro dell'Europa. Incontro con Simone Attilio Bellezza

L’Ucraina è un paese profondamente segnato dai peggiori eccessi della violenza di massa del secolo passato, che si sono abbattuti con particolare accanimento sul suo territorio: i massacri della guerra civile del 1918-22, l’Holodomor, l’internamento nei campi Gulag di oltre due milioni di contadini kulaki nel 1930-33, le esecuzioni di massa del Grande terrore nel 1937-38, l’invasione tedesca del 1941 e l’occupazione nazista, la deportazione in Germania di milioni di ucraini costretti al lavoro forzato (e poi internati da Stalin per collaborazionismo), i massacri di Odessa e Babyn Jar dell’autunno 1941, fra i più grandi nella storia della Shoah, e ancora la sanguinosa lotta partigiana contro i tedeschi, le politiche di russificazione dell’Ucraina occidentale con deportazioni di massa in Siberia, che si protrassero fino alla morte di Stalin, e il ripopolamento con altri gruppi etnici per annientare la guerriglia indipendentista antisovietica. Gli orrori del Novecento sono scolpiti nell’anima delle popolazioni che abitano il territorio ucraino, per i quali tutto quanto è accaduto è passato ma anche presente, ha ancora un significato vivo e un peso nella coscienza collettiva. Alla luce di quanto accade oggi quella violenza appare perpetuarsi e non trovare fine: è così perché quei traumi non sono risolti e sufficientemente elaborati, da potersene congedare. La ricerca attiva dell’Europa è quindi per milioni di ucraini (anche) espressione del desiderio di una “decolonizzazione” interiore, l’ansia di liberarsi dalla storia dell’ultimo secolo, una maledizione dalla quale sembra non esserci via di uscita.

La storia, un campo di battaglia

Sul terreno dell’uso politico della storia, si è proceduto in Ucraina in maniera non dissimile dal caso della Russia o di altri paesi dell’area post-sovietica, promuovendo narrazioni storiche unilaterali, vittimistiche e funzionali ad agende politiche, nel caso specifico dell’Ucraina al progetto di diversificazione della coscienza storica nazionale ucraina da quella russa. Dalla dissoluzione dell’URSS, con lo sgretolarsi dei canoni ideologici dominarono e condizionarono la storiografia e la memoria pubblica nell’era sovietica, vari attori politici hanno usato la storia per legittimare le proprie azioni e consolidare il proprio potere. In Ucraina la memoria storica è stata a lungo condizionata da due fattori principali: la propaganda sovietica e la diaspora ucraina. La storiografia sovietica connotava negativamente qualsiasi movimento o rivendicazione indipendentista dei popoli dell’URSS, tacendo i crimini commessi per soffocare le aspirazioni del nazionalismo ucraino. L’emigrazione ucraina in Occidente invece aveva fatto propria la prospettiva del popolo ucraino vittima delle repressioni e dell’occupazione sovietica, trascurando la piena integrazione di fatto degli ucraini nella società sovietica. Ne sono scaturite due narrazioni storiche diametralmente contrapposte e inconciliabili, anche se a livello locale queste trovarono il modo di convivere o addirittura combinarsi (anche se non sempre in modo coerente), fino all’indipendenza dello Stato ucraino nel 1991, quando il conflitto di memorie a lungo congelato è infine esploso, generando una forte polarizzazione fra la narrazione del nostalgismo sovietico, legata alla grande narrazione patriottica dell’imperialismo russo, e quella patriottica ucraina.

archivio Ucraina
Dal passato gli attestati del Grande Terrore in Ucraina: Ordine di esecuzione della sentenza di condanna a morte per fucilazione e confisca dei beni contro lo scrittore ucraino Hnat Khotkevyč ordinata dalla Troika speciale della polizia segreta (Nkvd) del distretto di Kharkiv il 29 settembre 1938 (Fonte: avr.org.ua)

La diffusione delle due narrazioni risponde alla geografia politica dei territori che compongono l’Ucraina odierna. Le regioni dell’Ucraina occidentale, interessate dall’eredità asburgica e assegnate alla Polonia dopo la Prima guerra mondiale, furono occupate dall’Armata rossa nel settembre 1939 per effetto del Patto Hitler-Stalin. Con l’annessione all’URSS la popolazione fece esperienza degli espropri e della collettivizzazione violenta, della sovietizzazione della vita pubblica e del terrore della polizia segreta che liquidò la classe dirigente e deportò oltre un milione di persone.

Bisogna aver presente questo terrore staliniano in quei territori per comprendere come mai gran parte della popolazione ucraina in Galizia accolse come liberatori le truppe naziste nell’estate del 1941. Insieme ai tedeschi arrivarono dall’esilio anche le milizie dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN), disposti a collaborare con la Germania nazista e a ricorrere a qualsiasi violenza pur di ottenere uno Stato ucraino indipendente. I nazionalisti ucraini organizzarono pogrom contro la popolazione ebraica e si resero complici delle esecuzioni di massa di ebrei perpetrate dai nazisti. Hitler però voleva colonizzare l’Ucraina, non concederle l’indipendenza, così fece arrestare la dirigenza dell'OUN. Il capo degli ultranazionalisti ucraini Stepan Bandera rimase nel Lager di Sachsenhausen fino al 1944, quando i nazisti si decisero a liberarlo per consentirgli di dirigere la guerriglia antisovietica. I partigiani dell'esercito insurrezionale ucraino (UPA) e quelli inquadrati nella famigerata divisione SS Galizia, condussero una lotta feroce sia contro l’Armata rossa che contro l’Armia Krajowa polacca, ma compirono anche operazioni contro la Wehrmacht, in Galizia e Volinia si macchiarono di crimini di guerra e atrocità, sterminando migliaia di civili polacchi. La lotta partigiana antisovietica dell’OUN/UPA proseguì ancora dopo il 1945 e si esaurì solo a metà degli anni cinquanta. 

Ucraina Urss Berlino
La battaglia delle narrazioni: (sinistra) scultura celebrante la liberazione dal comunismo sovietico davanti alla ex prigione Lonzki del Kgb a Leopoli vs. (destra) il mito sovietico della Grande guerra patriottica (Memoriale ai caduti di Berlino, Treptower Park (fonte: GF)

Sciolta l’URSS nel 1991, la lotta indipendentista dell’OUN/UPA divenne un punto di riferimento per la legittimazione della nuova repubblica ucraina. Nelle regioni occidentali del paese i combattenti nazionalisti furono riscoperti come patrioti. Da contro, nei territori più “russificati” a est del fiume Dniepr e al sud, dove rimaneva prevalente l’immaginario russo-sovietico caratterizzato dalla mitologia della “Grande guerra patriottica”, dall’orgoglio per il trionfo sul nazismo e dalla nostalgia per l’URSS e il suo rango perduto di superpotenza, i nazionalisti ucraini non erano patrioti ma “fascisti” e il termine banderivci era usato in senso spregiativo per indicare gli ucraini  occidentali e i parlanti la lingua ucraina, repressa nel periodo sovietico.

Nel 2004 la cosiddetta Rivoluzione arancione, la mobilitazione popolare di massa (in maggioranza degli ucraini occidentali) contro il potere corrotto e impopolare dei clan oligarchici, sancì il debutto di quel patriottismo civico che ha intaccato il predominio politico-culturale del “polo” russo, spostando verso occidente gli equilibri regionali. Fu allora che il conflitto di memorie storiche assunse per la prima volta una dimensione politica esplicita. La presidenza Juščenko (2005-2010) optò per una politica di memoria pubblica incentrata attorno al riconoscimento internazionale dell’Holodomor come tentato genocidio pianificato da Stalin. Si cominciò così a imporre la narrazione patriottica oggi dominante che presenta l’Ucraina vittima tanto della Germania nazista quanto del regime sovietico e la Seconda guerra mondiale non come trionfo sul nazismo ma come tragedia nazionale.

In questa cornice si è inserita l’elevazione a eroi nazionali degli indipendentisti ultranazionalisti dell’OUN/UPA, operazione giustamente contestata sia all'estero che all'interno dell'Ucraina, dove la critica all'idealizzazione del banderismo è comunque piuttosto diffusa trasversale. La figura di Bandera, staccata dal suo profilo storico reale di terrorista e promotore di un nazionalismo etnico e antisemita e ridotta a icona e incarnazione della resistenza antisovietica, è stata caricata di un nuovo significato patriottico che poco ha a che vedere con la realtà dei fatti storici, che marginalizza o rimuove la componente della collaborazione con la Germania nazista e delle pulizie etniche e non esprime adesione all'ideologia dell'OUN/UPA, bensì risponde sostanzialmente a una logica antisovietica e antirussa: una stereotipizzazione positiva, alla quale si contrappone quella negativa dei filorussi, funzionale alla polarizzazione delle narrazioni storiche concorrenti e al crescente conflitto russo-ucraino.  

Decomunistizzare, desovietizzare, derussificare

Fallito il tentativo della presidenza Janukovyč di invertire la rotta ripristinando le coordinate della narrazione storica del nostalgismo sovietico, all’indomani della rivolta dell’Euromaidan del 2014 il successore Porošenko riprese e implementò il corso politico inaugurato da Juščenko, imprimendogli una forte carica identitaria. Si rafforzò ulteriormente il ruolo dello Stato come artefice e garante della coscienza storica nazionale. Lo strumento principale della monopolizzazione istituzionale dell’interpretazione della storia finalizzata a consolidare l’identità nazionale ucraina in chiave antirussa è stato l’Istituto ucraino per la memoria nazionale (UINP), organismo a statuto speciale istituito già nel 2007 sul modello dell’IPN polacco. Porošenko volle rilanciarlo potenziandone le competenze ed elevandolo di fatto a organo esecutivo della sua politica di memoria pubblica. La direzione fu affidata a una figura controversa, lo storico Volodymyr Vjatrovyč, già direttore degli archivi storici del servizio di sicurezza ucraino SBU (in tale funzione aveva curato la desecretazione dei fascicoli del KGB riguardanti la carestia del 1932-33 e partecipato alla realizzazione del monumentale Museo dell’Holodomor, inaugurato a Kiev nel 2010) e accusato in ambito accademico di volere ridimensionare l’entità dei crimini commessi dai partigiani banderisti, piegando i fatti a una versione edulcorata della storia nazionale. Vjatrovyč si difendeva ribattendo che con lui la storia ucraina era in ottime mani e tacciando i suoi critici di spirito antinazionale e filorusso. (Vjatrovyč è poi stato rimosso dalla direzione dell’UINP da Zelenskyi nel 2019.) 

L’incarico più importante affidato all’UINP è stato il coinvolgimento nella stesura del pacchetto di quattro leggi approvato dal parlamento ucraino nell’aprile 2015, le cosiddette leggi sulla decomunistizzazione dell’Ucraina. Le norme dovevano «completare la trasformazione rivoluzionaria del 1989-91, rimasta bloccata a metà» eliminando ogni retaggio della dominazione sovietica sull’Ucraina e «ripristinare la memoria nazionale», rileggendo il Novecento ucraino come secolare lotta per l’indipendenza, sfociata nella Rivoluzione del 2014. Per effetto di queste leggi furono rimosse migliaia di statue e monumenti, cambiato il nome a più di 50.000 strade e piazze, bandito il partito comunista e vietato l’uso dei simboli comunisti per la condanna del totalitarismo comunista come regime terrorista e criminale equivalente al nazismo. Al contempo, si riconobbe ai militanti dell’OUN di Bandera e al suo braccio armato UPA lo status di combattenti per la libertà. E senza annullare la tradizionale Giornata della Vittoria dell’Armata rossa sulle forze nazifasciste del 9 maggio, molto sentita da gran parte della popolazione, si è istituito il giorno prima, l’8 maggio, una seconda festività nazionale, il Giorno della memoria e della riconciliazione, per estendere la commemorazione a tutte le vittime del secondo conflitto mondiale, contendendo alla Russia il monopolio del sacrificio di sangue sovietico nella cosiddetta “Grande guerra patriottica” (formula sostituita da un più sobrio Seconda guerra mondiale).

La leggi di decomunistizzazione del paese sono state oggetto di vivaci critiche sia all’estero che all’interno del paese. La rivista online krytyka pubblicò in aprile una lettera aperta con la quale rinomati studiosi, docenti e analisti ucraini e internazionali pregarono (invano) il presidente Porošenko di non firmare il pacchetto di leggi approvate dalla Verchovna Rada. Le contestazioni si concentrarono soprattutto sul carattere liberticida delle norme, per le condanne penali previste e la palese volontà dello Stato di piegare la storia all’interesse politico, riscrivendola a colpi di legge e mettendo il bavaglio agli storici non allineati. Oltre a danneggiare l’immagine e la credibilità internazionale dell’Ucraina, si lamentavano il cattivo tempismo e il potenziale divisivo dei provvedimenti, i quali, intervenendo in un contesto già estremamente teso per il conflitto scoppiato nel Donbas, non avrebbero certo contribuito a compattare il paese di fronte alla crisi economica e all’aggressione russa, ma piuttosto approfondito ulteriormente spaccature e contrapposizioni, utili alla guerra ibrida scatenata dal Cremlino, tipologia di conflitto che si alimenta e serve delle tensioni e divisioni interne all’Ucraina e investe sull’esasperazione del nazionalismo per squalificare Kiev agli occhi del mondo.

Più che di un allineamento ai parametri della memoria pubblica e di elaborazione del passato comunista che sono propri dell’Europa centro-orientale, la decomunistizzazione ucraina è sembrata a molti un cedimento all’odio antirusso presente in certe aree del paese e della popolazione. Sono allora venuti al pettine alcuni grossi nodi del processo di definizione dell’identità ucraina com’è stato portato avanti fino ad allora dall’establishment politico pro-europeo, gli aspetti più critici del quale sono stati l’assecondare l’artificiosa divisione del paese lungo il crinale linguistico, strumentalizzata dal Cremlino, e l’impulso identitario, che si è tradotto in un nazionalismo di carattere esclusivo inadeguato alla delicatezza degli intimi equilibri di una società composita e plurale per sua natura demografica, la sua ricchezza etnica e la sua complessa storia.

Dopo la rottura istituzionale dell’Euromaidan, la democrazia ucraina avrebbe dovuto cercare a tutti i costi un approccio maggiormente inclusivo e unificante alla questione dell’identità nazionale per trarre forza dalle contrapposizioni del paese e sanare le ferite. Sembrava averlo compreso Zelenskyi, che si era mosso nel suo primo biennio di presidenza in direzione di uno sforzo per consolidare e allargare la base di consenso con un paradigma memoriale più ispirato alla conciliazione nazionale, al disinnesco della carica esplosiva e divisiva della storia pubblica e a una focalizzazione sugli orizzonti di futuro sviluppo della società ucraina. Resta il fatto che, a prescindere dalle trappole nelle quali si è caduti, la definizione del profilo della coscienza nazionale ucraina non viene imposta dall’alto come in Russia, ma è un processo partecipato, al quale contribuisce una pluralità di attori diversi e indipendenti. 

Sette chilometri di memoria: gli archivi aperti del KGB

C’è poi anche un altro aspetto della decomunistizzazione che merita attenzione. Per fare i conti col passato, non basta abbattere le statue di Lenin o cambiare nomi alle strade. Bisogna andare più in profondità e aprire il vaso di pandora del passato sovietico. Il termine decomunistizzazione, osservava nel 2015 il giovane storico di Luhansk Mykhailo Haukhman in una riflessione sul senso delle leggi promulgate, «suggerisce l’idea di una separazione fra il regime comunista o l’ideologia comunista e la società, facendo apparire quest’ultima come puramente vittima, oggetto passivo delle azioni del regime. Così è secondo la teoria del totalitarismo, che tende a non tenere conto dell’internalizzazione dell’ideologia e del regime politico da parte della società». Il termine più appropriato per definire ciò che l’Ucraina sente il bisogno di fare è desovietizzazione, nel senso di rivedere il periodo sovietico per comprendere fino a che punto gli ucraini siano rimasti “sovietici” anche dopo il 1991 ovvero che peso abbia ancora il passato sovietico nella vita del paese. Ciò, non per ripudiare il passato, ma per appropriarsene, dopo averlo elaborato, con maggiore serenità quale parte della propria storia, senza lasciare alla sola Russia il monopolio dell’eredità sovietica: «La desovietizzazione è operazione assai più complessa e profonda della decomunistizzazione e se non l’affronteremo saremo costretti a ripetere la decomunistizzazione ancora molte volte».

Delle quattro leggi del pacchetto di decomunistizzazione una soltanto non ha suscitato contestazioni, ma al contrario ha raccolto apprezzamenti da tutto il mondo. La legge “Sull'accesso agli archivi degli organi repressivi del regime totalitario comunista dal 1917 al 1991”, approvata dal parlamento ucraino il 18 aprile 2015, è il vero cuore della decomunistizzazione o desovietizzazione che dir si voglia. L’apertura degli archivi ucraini del KGB, ma soprattutto le modalità con cui questi sono stati messi a disposizione dell’opinione pubblica interessata e della comunità scientifica internazionale, ha fatto dell’Ucraina il paese con l’accesso più agevole ai documenti della polizia segreta sovietica di tutto il mondo ex comunista. Istituzioni internazionali come il prestigioso Wilson Center e gli esperti della EU Eastern Partnership hanno indicato il modello ucraino come esemplare nel ramo degli archivi delle polizie segrete comuniste.

Ciò che in Russia continua a essere tenuto sottochiave, gelosamente custodito come materiale top secret nella disponibilità dei servizi segreti, in Ucraina è stato reso consultabile a tutti, senza restrizioni di nazionalità imposte da alcuni paesi, con una regolamentazione ispirata alla massima trasparenza possibile, compatibilmente con la sensibilità dei dati personali da tutelare. Le norme che regolano la lettura dei documenti con accesso rapido, burocraticamente snello e completamente gratuito (è gratis anche la riproduzione in fotocopia dei documenti richiesti dagli utenti) sono più liberali di quelle predisposte in Germania per gli archivi della Stasi: le persone menzionate nei documenti posso richiedere la secretazione dei loro nomi, che vengono resi illeggibili, ma solo per un periodo massimo di 25 anni e a condizione che non siano stati ex funzionari o informatori del KGB, in tal caso non si può pretendere alcuna protezione della propria identità, che viene resa di pubblico dominio. I documenti vengono inoltre fatti pervenire agli uffici di lustrazione istituiti presso ogni istituzione pubblica per verificare i trascorsi del personale, chi ha lavorato o collaborato col KGB, anche in forma confidenziale, può essere rimosso dalle sue funzioni nella pubblica amministrazione.

Database dell’Archivio elettronico del Movimento di liberazione ucraino

Lo stimolo che ha spinto all’apertura degli archivi è venuto dal basso, dalla società civile. Per la precisione, da un percorso iniziato nel 2007 e concretizzatosi in un’iniziativa lanciata nel 2013, pochi mesi prima della sollevazione dell’Euromaidan. Un collettivo di attivisti per i diritti civili, coordinato dal giovane storico Andryj Kohut, diede vita all’Archivio elettronico del Movimento di liberazione ucraino, una banca dati consultabile in rete con accesso libero e diretto a centinaia di dossier originali del KGB suddivisi per temi e periodi storici: dalle origini del movimento indipendentista all’Holodomor, dalle deportazioni ed esecuzioni di massa del Grande Terrore alla lotta clandestina die partigiani nazionalisti contro le autorità polacche e sovietiche, dalle deportazioni dell’immediato dopoguerra alla repressione della dissidenza negli anni settanta, fino alla catastrofe di Chernobyl e al tentativo del regime sovietico di nascondere la verità sull’incidente.

Il progetto fu la risposta al tentativo di Janukovyč di restringere l’accesso agli archivi di Stato. Analogamente a progetti molto simili realizzati negli ultimi anni in Georgia (SovLab) o in Lituania, Kohut e i suoi collaboratori concepirono la digitalizzazione dei documenti e la loro pubblicazione in rete come una forma di resistenza, un modo per aggirare il buco nero degli archivi chiusi della Russia e collegare direttamente il presente turbolento e incerto dell’Ucraina con il suo tribolato passato recente.

Se da un lato premeva mettere in sicurezza il tesoro di testimonianze, documenti e informazioni disponibili da possibili rovesci politici (in quasi tutte le repubbliche ex sovietiche lo Stato tende a mantenere un controllo severo sugli archivi sovietici), dall’altro si voleva stimolare l’interesse dell’opinione pubblica, mettendola nelle condizioni di poter consultare banche dati e scaricare fascicoli direttamente da casa, senza dover viaggiare per recarsi negli archivi, senza compilare formulari e senza dover dichiarare a nessuno il motivo del proprio personale interesse.

In Ucraina l’esperienza dell’archivio digitale ha ispirato la decisione della politica di declassificare la documentazione custodita nell’archivio storico del servizio segreto SBU, compiendo un passo ambizioso oltre che coraggioso. «Se vogliamo costruire una democrazia», questo il motto di Andryi Kohut, nominato nel dicembre 2015 direttore del nuovo archivio a Kiev, «un sistema che rispetti davvero i diritti umani, allora dobbiamo capire bene da dove veniamo, per non ripetere gli stessi errori.»

Il passato nel presente, il futuro del passato

L’interesse per i fondi ucraini del KGB è stato subito vivissimo, specialmente all’estero. Moltissimi studiosi internazionali si sono immediatamente precipitati a visionare i chilometri di fascicoli e faldoni resi disponibili, attirati dall’imperdibile opportunità di verificare finalmente sulle fonti riservate come operava il KGB sia all’interno, nella società sovietica, che all’estero. Milioni di pagine di file della sicurezza interna permettono di conoscere in maniera dettagliata l’evoluzione, l’organizzazione e i meccanismi burocratici della sorveglianza di massa e della persecuzione politica dei “nemici del popolo”, dall’accorpamento della repubblica socialista sovietica ucraina nell’URSS istituita nel 1922 allo smembramento dell’impero sovietico nel 1991. Oltre alle schede personali dei sospettati, ai fascicoli investigativi e agli incartamenti processuali, agli ordini di arresto e di esecuzione dei condannati e agli infiniti elenchi coi nominativi dei deportati, una sostanziosa collezione di manuali operativi e pubblicazioni a uso interno, note, relazioni e documenti di comunicazione fra il KGB in Ucraina e il Comitato centrale del PCUS a Mosca ha aperto una preziosa finestra aperta anche sulle attività dell’intelligence sovietica all’estero e su decisioni strategiche nel campo della politica della sicurezza dell’URSS in diverse situazioni critiche della storia della Guerra fredda, dalla crisi di Cuba alle invasioni dell’Ungheria e della Cecoslovacchia alle tensioni con la NATO negli anni ottanta.

Insieme ai database digitali fruibili online come quella del Movimento di liberazione ucraino, gli archivi del KGB costituiscono indiscutibilmente il fiore all’occhiello e il gioiello più prezioso di un panorama archivistico assai ricco, articolato e di grandissimo valore per gli studi sovietici, un’infrastruttura informativa che media fra passato, presente e futuro, comprendente non solo i distaccamenti periferici degli archivi del KGB dislocati nei principali capoluoghi regionali, ma anche la rete degli archivi di Stato, dove si preservano le carte degli organi amministrativi dell’Ucraina sovietica, e gli archivi storici dei ministeri della Difesa e degli Interni dell’Ucraina odierna.

Il numero dei cittadini ucraini che si sono rivolti all’archivio per cercare informazioni riguardanti le proprie famiglie è invece ancora tutto sommato modesto, anche se le statistiche indicavano un rapido e costante aumento delle domande di lettura nel triennio 2017-2019. Il dato non è sorprendente, altrove nell’Est europeo le cose non sono andate diversamente quando si sono aperti al pubblico gli archivi delle polizie segrete: in Germania, negli ultimi trent’anni, sono stati oltre tre milioni e mezzo gli ex cittadini della DDR che hanno visionato i fascicoli della Stasi che li riguardano, tanti, ma comunque una piccola parte della popolazione che visse sotto il regime comunista.

Nei paesi usciti dall’orbita sovietica esiste un latente e rimosso timore di sapere, in quelli che hanno conosciuto il terrore di massa staliniano degli anni '30 e '40 la paura e il disagio sono ancora più forti, troppo a lungo si è dovuto imparare a convivere con l’assenza di verità, rassegnandosi all’impossibilità di avere risposte, ci si è dovuti abituare al silenzio, la mancanza di informazioni e trasparenza ha alimentato ombre e fantasie, l’anonimato ha coperto i carnefici fino a consentirgli di riciclarsi nelle nuove istituzioni postsovietiche. In Ucraina come in Russia, Bielorussia e altrove l’opacità delle istituzioni ha impedito una profonda rigenerazione della classe dirigente, necessaria a rifondare la società e lo Stato. In molte repubbliche ex sovietiche o Stati ex comunisti dell’Europa centro-orientale, l’Armenia, la Georgia, la Moldavia, ma anche la Romania, l’Albania, la Bulgaria, si è a lungo ostacolato o ancora si continua a ostacolare l’apertura degli archivi delle polizie segrete. Evidentemente, sono documenti che fanno ancora paura, perché sono in gioco carriere, interessi economici e soprattutto posizioni di privilegio e potere.

Nel 2007, Putin ha provato a imporre il controllo russo sugli archivi del Kgb delle ex repubbliche sovietiche con un accordo, sottoscritto però solo da Russia, Bielorussa, Kazakistan e Armenia, che impone il consenso di tutti i paesi per la declassificazione di qualsiasi documento. E a ulteriore conferma che il regime russo teme il progressivo sgretolarsi del muro omertoso eretto a protezione degli archivi sovietici, Kohut fa sapere che le milizie separatiste e le truppe russe hanno già messo le mani sui fondi archivistici preservati in Crimea, a Doneck e Luhansk.

L’Ucraina ha creduto nell’opportunità di imboccare un’altra strada, convinta che solo la trasparenza sul potere pervasivo e corruttore dei regimi comunisti e delle loro polizie segrete può dare compiutezza alla costruzione di una democrazia. Ha creduto negli effetti benefici sulla società del concedere ai propri cittadini la possibilità di conoscere fino in fondo la loro storia e da dove provengono i problemi del presente, elaborare i traumi individuali e collettivi, nascosti subito sotto la superficie della vita quotidiana e che continuano a tormentare e tenere prigioniero il presente.

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Nessuna società può esistere senza passato e nessun futuro si può costruire senza affrontarlo. Se si ha la forza di farlo, le porzioni di verità che emergono trasformano la coscienza storica pubblica, modificano immaginari, abbattono leggende, mandano in frantumi convinzioni e narrazioni ideologiche, cambiano le conversazioni sui temi del passato e della memoria, spostano giudizi su colpe e complicità, si interrompono tradizioni di violenza e continuità delle disposizioni repressive. Nel caso specifico dell’Ucraina sotto attacco, la speranza era di riuscire ad arginare e contrastare il potere oligarchico, gli indicatori internazionali confermano infatti che i paesi che hanno affrontato più radicalmente il lustrismo della nomenclatura comunista dall’amministrazione pubblica, sono oggi meno affetti dalla corruzione. Inoltre, si ritiene che i documenti possano fungere da antidoto alla disinformazione russa: riconoscendo la similarità dei metodi utilizzati un tempo dal regime sovietico con quelli adoperati oggi da regime putiniano per sviluppare l’azione sotterranea volta a destabilizzare l’Ucraina, si riducono le opportunità per la propaganda russa di usare efficacemente la manipolazione della storia come arma contro la società ucraina.

*Gianluca Falanga è studioso di storia contemporanea, collaboratore del Museo della Stasi e autore del volume Non si parla mai dei crimini del comunismo (Laterza 2022).

Immagine in anteprima: Alina Pankova via Reportersmedia

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