UberFiles: l’inchiesta che svela la sistematica violazione delle leggi della compagnia e il lavoro di lobbying occulto
5 min letturaSecondo un’imponente mole di file ottenuti dal Guardian e condivisi con l’ICIJ e altre 42 media partner, il colosso tecnologico Uber avrebbe operato in modo eticamente discutibile per garantire la propria espansione. Gli “UberFiles” riguardano circa 124mila file tra mail, messaggi di testo, presentazioni aziendali e altri documenti della compagnia: attività in 40 paesi dal 2013 al 2017, quando la compagnia era guidata dal co-fondatore Travis Kalanick.
Tra le pratiche esposte figurano violazioni di leggi, elusioni fiscali e lobbying occulto su politici e magnati (in particolare nel settore dei media), e lo sfruttamento dei driver che venivano spiati. Ciò per garantire l’espansione e il consolidamento sul mercato a ogni costo, arrivando anche a sfruttare le violenze contro gli stessi autisti.
Il whistleblower che ha fornito i file al Guardian è Mark McGann, ex responsabile per il lobbyng di Uber in Europa, Medio Oriente e Africa. “Sono in parte responsabile” ha dichiarato al Guardian. “Ero quello che parlava coi governi, che faceva pressione con i media e che diceva alla gente di cambiare le regole perché così gli autisti ne avrebbero tratto beneficio e la gente avrebbe avuto molte più opportunità economiche. Quando si è capito che non era così - di fatto abbiamo venduto una bugia alla gente - come puoi sentirti a posto con la coscienza se non ti fai avanti e non ammetti il ruolo che hai avuto in tutto questo?”
Il tipo di strategia messa in atto da Uber si può vedere nel caso della Francia. È il 2015, nel paese i tassisti stanno protestando contro la concorrenza ritenuta sleale dell’app. Le proteste vedono anche blocchi stradali, e gli autisti di Uber che lavorano in quei giorni sono spesso aggrediti, i loro veicoli danneggiati. In uno scambio riportato nei file, Kalanick commenta così le aggressioni: “penso ne valga la pena, la violenza porta successo”.
McGann intanto, contatta Emmanuel Macron, all’epoca ministro dell’Economia nel governo presieduto dal socialista Valls. quest’ultimo considerato da Uber il “nemico n°1 in Francia”, tanto che la compagnia pianifica e in alcuni casi mette in atto campagnie contro di lui - via social media, ma anche con dimostrazioni.
I file mostrano un filo diretto tra McGann e Macron fin dall’ottobre 2014, circostanza che torna utile durante le proteste dell’anno successivo e le tensioni con i governi locali. Nell’ottobre 2015, quando a Marsiglia un funzionario di polizia sembra sul punto di sospendere UberX, McGann manda un messaggio a Macron, che promette: “Seguirò la cosa personalmente”, invitando alla calma. Due giorni la situazione viene chiarita, e ogni ipotesi di messa al bando scompare.
Episodi di proteste, con aggressioni verso autisti, passeggeri o persino dirigenti di Uber si sono verificati anche in altri paesi, tra cui l’Italia. Questo tipo di reazione di solito è seguita al lancio dell’app in nuovi paesi senza rispettare le normative previste, Il misto di forti sovvenzioni per incentivare l’espansione e l’aggressività competitiva verso il settore concorrente dei taxi ha in molti casi provocato furiose reazioni.
La compagnia, per mezzo di persone come MacGann aveva una stima esatta di incidenti e aggressioni. Per i dirigenti si è arrivato a prevedere l’impiego di guardie del corpo, e per il personale direttamente impiegato sono stati adottati protocolli di sicurezza come il ricorso al lavoro da remoto, per evitare gli uffici ed eventuali manifestanti. Tuttavia per gli autisti, che la compagnia non considerava dipendenti, questo tipo di strategia ha coinciso con una completa esposizione a possibili violenze, senza nessun tipo di tutela. Gli attacchi contro autisti o contro i loro veicoli, stando ai file, erano anzi visti come un possibile vantaggio: quando avvenivano, erano usati come strumento di pressione di Uber sui governi perché venissero adottate leggi in favore della compagnia. Tra dirigenti in alcuni scambi si accenna al fatto di essere “pirati”, mostrando un certo autocompiacimento.
La strategia di cercare contattati diretti con leader politici nazionali, creando canali di comunicazione fuori dagli incontri ufficiali e dalla doverosa trasparenza amministrativa, i file rivelano almeno 100 incontri segreti tra lobbisti di Uber ed esponenti politici, tra leader nazionali e anche membri della Commissione europea.
Per quanto riguarda il nostro paese, come rivelato dall’Espresso (tra i media partner dell’inchiesta), Uber aveva una vera e propria campagna di pressione verso il premier del periodo, Matteo Renzi:
«Italy - Operation Renzi» è il nome in codice di una campagna di pressione organizzata dalla multinazionale, dal 2014 e il 2016, con l'obiettivo di agganciare e condizionare l'allora presidente del consiglio e alcuni ministri e parlamentari del Pd. Nelle mail dei manager americani, Matteo Renzi viene definito «un entusiastico sostenitore di Uber». Per avvicinare l'allora capo del governo italiano la multinazionale ha utilizzato, oltre ai propri lobbisti, personalità istituzionali come John Phillips, in quegli anni ambasciatore degli Stati Uniti a Roma.
Un altro intermediario, sempre secondo l’Espresso, è stato Carlo De Benedetti, azionista di Uber fino al 2020. Sulla vicenda De Benedetti ha dichiarato al Guardian “Non ho mai fatto operazioni di lobbying con loro né con nessun altro”, confermando però di aver ospitato presso la sua abitazione romana una cena con McGann e David Plouffe. Quest’ultimo è stato tra gli organizzatori della campagna presidenziale di Obama nel 2008 che all’epoca lavorava per Uber.
Un altro consulente lobbista della compagnia, Jim Messina, ex membro dello staff di Barack Obama, per ammissione dello stesso Renzi “ha collaborato alla campagna per il referendum” del 2016 (“non crede di aver mai parlato con lui di Uber” aggiunge Renzi alla richiesta di chiarimenti).
Sempre per l’Italia, l’Istituto Bruno Leoni, secondo l’Espresso “ispiratore della norma pro Uber” presente nel ddl Concorrenza che ha fatto infuriare i tassisti, intervistato dal settimanale ha confermato di aver ricevuto finanziamenti da Uber:
Quando Uber ha avviato le proprie attività in Italia ha contattato l’Istituto Bruno Leoni al fine di sostenerne le attività, ritenendo evidentemente utile alla propria causa l’esistenza di una voce autonoma e credibile a sostegno della concorrenza nel settore dei taxi. In particolare, Uber ha sostenuto l’IBL attraverso due contributi da 10.000 euro ciascuno nel 2014 e nel 2015 (corrispondenti, rispettivamente, all’1,1% e allo 0,9% delle entrate complessive nell’anno), e un terzo da 12.500 euro (pari all’1,0% delle entrate complessive) nel 2017.
A domanda specifica, l’Istituto ha inoltre specificato che “nessuno tra i dirigenti e i dipendenti [...] ha avuto interessi economici diretti o indiretti in Uber o in società collegate a Uber”.
Circa le rivelazioni che stanno emergendo in questi giorni, un portavoce di Kalanick ha negato ogni accusa, in particolare nell’aver cercato di trarre vantaggio per l’azienda delle violenze contro autisti e personale di Uber. La stessa compagnia, inoltre, in una dichiarazione ufficiale seguita alla pubblicazione dell’inchiesta, ha ammesso “errori e passi falsi” nel periodo oggetto dell'inchiesta, ma che tuttavia dal 2017 sotto la guida dell'attuale CEO Dara Khosrowshahi le cose sono cambiate:
Non abbiamo e non troveremo scuse per comportamenti passati che non sono chiaramente in linea con i nostri valori attuali. Chiediamo invece al pubblico di giudicarci per quello che abbiamo fatto negli ultimi cinque anni e per quanto faremo in quelli a venire".
Immagine in anteprima via L'Espresso