Uber, la sentenza della Corte Suprema del Regno Unito e i diritti dei lavoratori della gig economy
11 min letturaAggiornamento 17 marzo 2021: Da oggi, i 70.000 autisti di Uber in Gran Bretagna avranno il diritto alle ferie e l’iscrizione automatica a un regime pensionistico, oltre al diritto a una paga che sia pari almeno al salario minimo orario previsto dalla legge. Tuttavia, secondo il Financial Times, Uber continuerà a retribuire solo il tempo effettivo durante il quale l’autista è assegnato a un cliente e non anche, come previsto dalla sentenza della Corte Suprema, il periodo di disponibilità.
È il 2015 quando Yaseen Aslam e James Farrar, in rappresentanza di un gruppo di autisti, presentano un ricorso al tribunale del lavoro di Londra. La richiesta è semplice: chiedono l’applicazione delle regole sul salario minimo e che sia loro riconosciuto il diritto a un periodo di riposo annuale retribuito. A quattro anni e mezzo dalla prima sentenza, è la Corte Suprema del Regno Unito, il 19 febbraio 2021, a mettere il sigillo sulla questione, riconoscendo una volta per tutte che Aslam, Farrar e gli autisti come loro sono workers, e in quanto tali hanno diritti: il rispetto del salario minimo legale, il godimento di ferie e riposi, la previsione di periodi di maternità o paternità, la tutela in caso di malattia, l’applicazione della disciplina antidiscriminatoria fino alla protezione in caso di whistleblowing. Si potrebbe trattare di una causa come un’altra, se non fosse che chiamata in giudizio, e pronta ad appellare le decisioni e a resistere fino all’ultimo grado, è Uber.
L’azienda, fondata nel 2009 a San Francisco e oggi attiva in 63 paesi e più di 700 città, si caratterizza per un ruolo di intermediazione digitale: “Ciò che è iniziato come una semplice idea è diventato un tessuto logistico globale che ha colmato il divario tra realtà fisica e digitale con una rete on-demand in rapida espansione”, si legge sul sito ufficiale. Uber propone infatti una piattaforma di incontro tra domanda e offerta di servizi di trasporto: l’app mette in relazione due categorie di privati, cioè gli autisti, i driver con i loro veicoli personali, da un lato, e i passeggeri, clienti, dall’altro.
Sul ruolo di mera intermediazione aveva avuto modo di obiettare anche la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 20 dicembre 2017. Su un rinvio pregiudiziale spagnolo, la Corte aveva infatti statuito come il servizio di Uber non potesse essere considerato una semplice fornitura di strumenti informatici di intermediazione, ma dovesse “essere considerato indissolubilmente legato a un servizio di trasporto e rientrante, pertanto, nella qualificazione di «servizi nel settore dei trasporti»”, con tutto ciò che consegue in termini di disciplina applicabile e concorrenza sleale con tassisti e noleggio di auto con conducente.
La definizione di sé come elemento terzo di una relazione commerciale, come semplice piattaforma di intermediazione, è la strategia che Uber utilizza anche nelle cause relative alla qualificazione del lavoro dei driver, tra cui la causa appena decisa dalla Corte suprema britannica. Secondo l’azienda, le prestazioni degli autisti non sarebbero fornite a Uber, bensì ai singoli passeggeri, con tanti rapporti di lavoro quanti sono coloro che prenotano una corsa: autista e passeggero sono privati cittadini che utilizzano l’app di Uber come strumento per vendere o acquistare un viaggio. Per Uber, i driver iscritti alla piattaforma sono independent contractors, cioè lavoratori autonomi, professionisti che lavorano, quanto e quando vogliono, per diversi clienti che usano Uber come semplice servizio di prenotazione.
La Corte suprema britannica smentisce la tesi di Uber, finendo per qualificare gli autisti iscritti alla piattaforma come workers, così riconoscendo loro il diritto al salario minimo, alle ferie annuali e altre tutele, e specificando peraltro che le ore lavorate non devono calcolarsi sul tempo impiegato nel trasporto dei clienti, ma valutando per intero il periodo di disponibilità del driver (da quando, cioè, accede all'app segnalando la sua disponibilità ad accettare corse).
La Corte, riprendendo le risultanze dei gradi di giudizio precedenti, ricostruisce le modalità di lavoro degli autisti, per poter qualificare il tipo di rapporto con cui sono legati alla piattaforma: la ricostruzione dei fatti concreti è particolarmente importante anche alla luce del fatto che, tra driver e Uber, non vi è un classico contratto di lavoro o di collaborazione, ma solo l’accettazione da parte del driver dei Partner terms, ossia di termini e condizioni posti da Uber sull'app.
Ma come funziona in concreto l’attività? Il driver dichiara sull’app la propria disponibilità ad accettare corse e attende. Dal lato dei clienti, il potenziale passeggero, tramite l’app Uber, prenota una corsa (in questa fase non ha l’obbligo di specificare la destinazione, anche se spesso la indica, nelle informazioni opzionali). Tramite il GPS, la piattaforma localizza il cliente trovando anche il driver disponibile più vicino al luogo della richiesta, a cui viene inviata una notifica, contenente soltanto due informazioni: il nome (ma non il cognome) del passeggero e il suo rating su Uber. Il potenziale autista ha quindi dieci secondi per accettare la richiesta. Se accetta la corsa, al passeggero vengono mandate informazioni sul nome del driver e sulla sua auto, e si apre una modalità di contatto tra i due tramite app: le uniche possibili comunicazioni passano quindi attraverso Uber. Solo quando il passeggero sale a bordo al driver viene comunicata la destinazione e, una volta attivato l’inizio della corsa, l’app programma il percorso, che l’autista non è obbligato a seguire ma che, se modificato, può portare a riduzioni della paga in caso di critiche del passeggero.
Una volta completata la corsa, l’app calcola automaticamente la tariffa, addebitandola sulla carta di credito del passeggero. Una volta a settimana, poi, Uber accredita al driver le tariffe incassate, trattenendo un costo di servizio (che, nel caso di Aslam e Farrar, ammontava al 20% della tariffa). Al termine della corsa, all’autista e al passeggero è richiesto di assegnare (anonimamente) un voto da 1 a 5.
Proprio su questa modalità di servizio si concentra la Corte suprema britannica per individuare Uber non come semplice strumento di intermediazione tra autista e passeggero, ma come elemento attivo, e dominante, del rapporto. È infatti Uber che fissa la tariffa: il driver non ha alcun potere di negoziare sul prezzo della corsa. L'assenza di contrattazione e l'accettazione delle condizioni dettate da Uber caratterizzano sia le modalità di servizio di trasporto, sia lo stesso rapporto con la piattaforma. Anche l'apparente autonomia dell’autista si limita a una scelta dicotomica: accettare o rifiutare la corsa (di cui non conosce ancora la destinazione) in dieci secondi. Peraltro la libertà di rifiutare non è priva di conseguenze, dal momento che incide sul tasso di accettazione del driver, penalizzandolo. Inoltre, Uber esercita un controllo sui driver attraverso le recensioni dei passeggeri e limita il rapporto tra passeggeri e autisti, filtrando la relazione attraverso l’app e vietando espressamente ai driver di prendere contatti con i passeggeri.
Chiariti questi elementi di fatto, la Corte esclude allora che gli autisti Uber siano independent contractors: non hanno infatti il potere di gestire liberamente il rapporto con i clienti, come potrebbero fare se Uber fosse una semplice piattaforma di contatto tra domanda e offerta di trasporti. I driver sono invece, per il giudice britannico, workers, non dipendenti quanto gli employees, che hanno un contratto di lavoro subordinato, ma nemmeno liberi di gestirsi gli affari come se fossero autonomi.
Facendo riferimento a diverse pronunce precedenti (quello britannico è un sistema di Common law, in cui le sentenze hanno un valore paragonabile a quello della legge), la Corte evidenzia come elemento centrale per individuare la subordinazione il potere di controllo sulle condizioni di lavoro e sulla remunerazione. Uber non solo esercita questo potere ma, attraverso tecnologie digitali, può contare su strumenti potenzialmente più pervasivi.
Tra vari scandali e polemiche che hanno accompagnato l’attività di Uber, non sono mancate rivelazioni sull’uso di particolari algoritmi da parte della piattaforma: dalla sorveglianza in tempo reale per la localizzazione dei driver (come riportato da Forbes, rispetto a tool come God View e Creepy Stalker View), a Greyball, la funzione interna della piattaforma, rivelata dal New York Times, con cui Uber si rendeva irraggiungibile a determinate persone (poliziotti, soprattutto, riconosciuti attraverso carte di credito o smartphone acquistati in stock per ragioni di indagini o tramite informazioni bancarie che rivelassero accrediti da parte dei dipartimenti di polizia).
Nel rapporto di lavoro con i driver, Uber esercita il potere di controllo attraverso un sistema triplice, basato sul tasso di accettazione delle corse (Acceptance rate), sul tasso di cancellazione delle corse (Cancellation rate) e sul livello di gradimento da parte dei clienti (Quality service stat). Nella sentenza britannica, il sistema è spiegato con chiarezza al punto 18. Se il tasso di accettazione delle corse si attesta sotto l'80%, il driver riceve una serie di avvertimenti via app, con cui Uber ricorda all'autista che essere loggato implica una dichiarazione di disponibilità ad accettare viaggi: se il tasso non migliora, il driver subisce la disattivazione dell'account per dieci minuti in caso di rifiuto di tre viaggi di fila. La stessa prassi si verifica in caso di cancellazione di una corsa dopo l'accettazione del viaggio.
Il sistema delle recensioni, che sulle piattaforme di intermediazione è normalmente utile agli utenti per valutare la qualità del servizio e scegliere un operatore invece di un altro, ha invece per Uber una funzione esclusivamente interna. Ai driver che abbiano effettuato più di 200 corse, è richiesta una valutazione media superiore a 4.4 (su una scala da 1 a 5). Nel caso in cui tale gradimento non sia raggiunto, la piattaforma offre al driver degli "interventi di qualità": se però il livello non migliora, l'autista viene rimosso dalla piattaforma e il suo account disattivato.
Ma la rimozione del driver dalla piattaforma non è una semplice applicazione dei termini di servizio dell'app: è di fatto un licenziamento. Lo stretto legame tra recensioni e sorte lavorativa del driver non può che sollevare riflessioni sui rischi di discriminazione: se spesso si è sottolineato il rischio di bias negli input forniti alle intelligenze artificiali, nel caso di Uber il pericolo di discriminazione vede nell'algoritmo un chiaro mezzo di espressione di opinioni umane, anonimizzate e standardizzate su un giudizio numerico. Che cosa succede se il passeggero che attribuisce un feedback negativo giudica il driver al termine della corsa per ragioni diverse dalla qualità di guida? Il lavoratore viene automaticamente licenziato dalla piattaforma per via del basso livello di gradimento, anche se magari i voti negativi che l'hanno determinato dipendono dal fatto che l'autista non sia bianco o che sia donna, o disabile, o indossa un simbolo religioso. Nell'utilizzo di recensioni per il controllo e la selezione dei lavoratori, si rischia di superare pilastri della tutela antidiscriminatoria, come la responsabilità del datore di lavoro per le scelte che violino il principio di parità di trattamento: è stato ad esempio da tempo chiarito, dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, con la sentenza Feryn, che il razzismo (o qualunque altra forma di discriminazione) dei clienti non solleva il datore di lavoro dal dovere di non discriminare e la considerazione che i clienti non apprezzerebbero particolari etnie (ma il discorso vale per qualunque diversità) è irrilevante: "Quand’anche tale affermazione corrispondesse al vero, essa dimostrerebbe solo che i mercati non cureranno la discriminazione e che l’intervento del legislatore è essenziale".
L'elusione delle tutele contro la discriminazione non è che un esempio dei diversi rischi posti non tanto (o non solo) da Uber, ma da un diverso modo di intendere le relazioni commerciali, che trascura o riduce la componente lavorativa. Una delle espressioni con cui si definisce questo tipo di economia è gig economy, un concetto contiguo e in parte sovrapposto alla digital economy. Per digital economy si intende un sistema di produzione e di scambio di beni e servizi basato su tecnologie informatiche, il cui utilizzo non è un semplice strumento per ottimizzare l'attività economica, ma rappresenta il fulcro dell'attività stessa, l'elemento qualificante del business. Con l'espressione gig economy, invece, non è tanto l'attività a essere qualificata, quanto il tipo di prestazione lavorativa messa sul mercato: gig è il lavoretto, un'occupazione occasionale e non sistematica, tendenzialmente autonoma. Secondo il Rapporto Inps 2018, "si tratta di un fenomeno che va inquadrato in una tendenza che caratterizza l'Unione Europea: la crescita del lavoro temporaneo e di forme alternative di lavoro autonomo, dagli zero hours contract inglesi ai mini-job tedeschi".
Si tratta di un modello economico che si caratterizza per un funzionamento on demand, su richiesta. Il lavoro non è più definito nella sua cornice oraria, modale e retributiva, ma viene messo a disposizione e utilizzato al bisogno, così però scardinando le originarie strutture di tutela, in particolare attraverso una contiguità tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. A riprova di questa tendenza depone l'aumento dei lavoratori autonomi che operano in regime di monocommittenza: secondo il citato rapporto INPS, nell'area euro i freelance che si dedicano a un unico committente sarebbero raddoppiati, dall'1,5% del 2010 al 3% del 2015.
Nell'ambito della gig economy, questa confusione tra caratteristiche del lavoro autonomo e connotati del lavoro subordinato è amplificata dal tendenziale monopsonio di cui godono le piattaforme: il potere di standardizzare le condizioni, di controllare i lavoratori, di fissare le tariffe, di filtrare le comunicazioni tra le parti, che la Corte britannica ha rilevato nel caso di Uber, deriva dalla forza del colosso rispetto alla frammentazione degli individui che offrono le proprie prestazioni via piattaforma.
Le piattaforme digitali attive nella gig economy offrono un contesto di scambio, di intermediazione, di incontro tra domanda e offerta di lavoro, conveniente per il consumatore e accettabile per il lavoratore, la cui libertà e autonomia, però, è ridotta alla scelta di accettare le condizioni standardizzate poste dal capitale. Emerge in particolare la concezione del lavoro quale una merce come un'altra: tuttavia, anche volendo ignorare il valore ideologico che il lavoro assume nelle socialdemocrazie, non si può trascurare come il lavoro sia l'unica merce che non può essere ceduta senza presenza e collaborazione da parte del venditore. Nel modello della gig economy il lavoro è invece considerato come una qualunque merce, il cui prezzo viene fissato in base al rapporto tra domanda e offerta e alle dinamiche dominanti del mercato.
Questa dialettica economica finisce per avere impatto sulle condizioni dei gig-worker e anche sul generale mercato del lavoro. Oltre ai citati rischi di discriminazione nei meccanismi automatici legati alle recensioni, il monopsonio delle piattaforme, unito alla filosofia on demand e alla parcellizzazione delle prestazioni, finisce per scardinare le tutele in materia di retribuzione, salute e sicurezza e perfino a depotenziare lo sciopero.
Quanto allo sciopero, il tipo di prestazioni autonome e l'assenza di occasioni di confronto della forza lavoro limitano le possibilità di alleanza sindacale (che si è invece verificata nel caso Aslam-Farrar, che ha infine portato alla causa contro Uber) e la facilità di iscrizione e accesso alla piattaforma aumenta i rischi di crumiraggio durante eventuali azioni di sciopero. Un caso simile si è verificato nel periodo del Muslim ban statunitense: i tassisti newyorkesi sostennero le proteste contro Trump, in difesa dei diritti umani, non recandosi all'aeroporto JFK per un'ora di sciopero, durante il quale però non solo Uber non sospese il servizio, ma annunciò anzi via social di aver abbassato le tariffe.
I rischi per salute e sicurezza discendono d'altra parte dalla mancata previsione di periodi di riposo, limiti orari, supporto in caso di malattia e si legano al tipo di retribuzione, che, in un sistema di lavoro autonomo in regime di monopsonio, finisce per essere simile al cottimo, con il rischio non solo di nutrire il fenomeno del working poor, cioè della povertà nonostante il lavoro, ma anche di spingere i lavoratori a superare i propri limiti psicofisici, con rischi per sé stessi e per gli utenti. La mancata previsione di retribuzione per i momenti di disponibilità, inoltre, in caso di attività come quella di Uber, finisce per essere un pericolo anche per gli altri. Un tragico esempio fu quello del dicembre 2013, quando a San Francisco un autista Uber travolse una famiglia, uccidendo una bambina di sei anni: Uber sostenne che l'assicurazione della piattaforma non avrebbe coperto l'incidente, dal momento che il driver non stava trasportando passeggeri, quindi, secondo i termini di Uber, non stava lavorando per la piattaforma. La sentenza della Corte suprema britannica, ultimo grado di giudizio e dunque inappellabile, rappresenta allora un fondamentale strumento di tutela: gli autisti di Uber sono worker, sono impiegati della piattaforma per l'intera durata del periodo di disponibilità e hanno diritto a una paga minima dignitosa, fissata secondo le regole sul salario minimo, a periodi di riposo retribuiti, a tutele in caso di genitorialità, malattia, discriminazione, whistleblowing.
Immagine in anteprima: Jason Tester, licenza CC BY-ND 2.0, via flickr.com