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Twitter, Musk e la libertà di parola

10 Novembre 2022 19 min lettura

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Twitter, Musk e la libertà di parola

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Ma quanto costa?

Tutto è cominciato quasi come uno scherzo. A un utente che gli aveva detto che avrebbe dovuto comprare Twitter, lui si era limitato a chiedere: “Quanto costa?”, come fosse un paio di costose scarpe. Da quel momento il rapporto tra l’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, e la piattaforma-social media Twitter si è evoluto a ritmi esponenziali. Se nei primi tempi le novità arrivavano a distanza di mesi o settimane, oggi, dopo l’acquisto effettivo, Musk e Twitter sono quasi quotidianamente sotto il faro dei media. Del resto si tratta di un personaggio che da anni ci ha abituato alla sua iper-presenza, alla sua fame di attenzione pubblica.

L’acquisto di Twitter è avvenuto in maniera rocambolesca. Dopo il primo approccio ("Quanto costa?") Musk ha firmato un contratto vincolante per l’acquisto, ma poi evidentemente si è reso conto che qualcosa non andava. Eppure ha avuto la possibilità di vedere i conti, la sua schiera di legali avrà visto la contabilità. A quel punto, una serie di scuse (il conteggio dello spam) per evitare di ottemperare al contratto che ha portato i dirigenti di Twitter a citare in tribunale Musk. Secondo gli esperti si trattava di una causa quasi impossibile da vincere, ma c’era un altro aspetto rilevante. Come accade per tutte le cause importanti, la trasparenza imposta dall’ordinamento americano consente ai giornalisti di accedere praticamente a tutto il materiale portato in giudizio, e quindi si è avuto un assaggio di cosa avrebbe potuto emergere di imbarazzante per l’uomo più ricco del mondo da mail e documenti di ogni tipo. Forse per questo, forse per altro, alla fine Musk ha concluso l’acquisto al prezzo iniziale, circa 44 miliardi, un prezzo decisamente molto più elevato dell’effettivo valore di Twitter. Troppo per chi ha la nomea di genio finanziario.

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Il punto è che Twitter non è mai stata una macchina per fare soldi. A differenza delle altre piattaforme del web, al momento dell’acquisto perdeva circa 300 milioni l’anno. Sui conti è stato caricato l’ulteriore debito del prestito che Musk ha ottenuto per l’acquisto, circa 13 miliardi. Lo stesso Musk con un tweet ha precisato che Twitter perderebbe circa 4 milioni al giorno (che fa un totale di 1,4 miliardi l’anno). Anche se l'imprenditore di origine sudafricana imputa, col solito suo tweet, le perdite a fantomatici “attivisti” che spaventerebbero gli inserzionisti (la pubblicità rappresenta circa il 90% delle entrate di Twitter). Insomma, Twitter adesso ha urgente necessità di fare soldi.

La nuova era Musk si è presentata immediatamente come un cambio epocale. Da un lato Musk si è etichettato quale Chief Twit, e del resto la sua iper-presenza sul social è tangibile. Lo era anche prima, quale semplice utente, anche se molto popolare, ma adesso, quale CEO dell’azienda, la sua diventa una personalizzazione spinta alle estreme conseguenze. Se prima Twitter era una piattaforma, un social, e gli interventi dei massimi dirigenti erano limitati, adesso Musk è Twitter, Twitter è Musk, e questo viene ribadito ad ogni suo tweet. A tale iper-identificazione, che in realtà non stupisce chi ha avuto l’occasione di seguire il personaggio, fa da contraltare la lettera di licenziamento inviata ai dipendenti che è assolutamente impersonale, nessuna firma, solo “Twitter”.

Let that sink in

Musk si fa riprendere mentre entra per la prima volta nella sede di Twitter, con un lavandino in mano (Let that sink in, cioè cerchiamo di capirci a fondo), si fa riprendere mentre discute amabilmente al bar coi dipendenti, ma se poi leggiamo, come ha raccontato Casey Newton, quello che dicono gli ex dipendenti, emerge una realtà diversa. Molti si aspettavano di più, molti si sono lamentati di non averlo visto, di non aver avuto nessuna comunicazione, niente di niente. Alcuni hanno scoperto di non poter più accedere alla piattaforma di gestione del sistema perché la password era stata annullata. L’azienda ha poi precisato che avrebbe pagato due mensilità (più un mese di licenziamento), che il rapporto sarebbe stato formalmente rescisso al 4 gennaio 2023, ma nei fatti i licenziati non lavorano più a Twitter già da adesso. La legge (WARN Act) prevede un preavviso di 60 giorni e l’avviso non può essere sostituito dal pagamento per i 60 giorni, ma le sanzioni sono costituite dal pagamento dello stipendio per i 60 giorni, quindi alla fine il risultato è lo stesso.

I licenziamenti hanno colpito duramente la struttura aziendale: il team di AI etica che ha il compito di rendere più trasparenti gli algoritmi; il team di comunicazione (ridotto da 80 a 2 persone); il team per i diritti umani (licenziato per intero); il team per l’esperienza della disabilità; il team per la tecnologia Internet che mantiene attiva la piattaforma; il marketing; il team Redbird; i gruppi di risorse dei dipendenti dell’azienda.

Data la quantità e le modalità dei licenziamenti, molti dipendenti hanno avviato le pratiche per un’azione collettiva (class action) contro l’azienda. Ma la particolarità sta nel caos che ha provocato questa azione improvvisa (anche se attesa, bisogna dirlo). La metà della forza lavoro era andata, ma nessuno sapeva chi. Alcuni dipendenti hanno dovuto creare elenchi per verificare chi ci fosse ancora e chi no. Un dipendente ha riferito: “La maggior parte dell'azienda se ne sta semplicemente ferma. Nessuna catena di comando, nessuna priorità, nessun organigramma e, in molti casi, nessuna idea di chi sia il tuo manager o il tuo team".

Uno dei nomi dei licenziati che è balzato subito agli occhi è l’avvocata Vijaya Gadde. Gadde oggi viene ricordata principalmente per la decisione di bannare a tempo indeterminato Trump (Trump in realtà aveva accumulato negli anni talmente tante violazioni dei TOS di Twitter che il solo fatto che non fosse stato ancora bannato aveva fatto sollevare un polverone di accuse di “doppio binario” per i politici) ma che in realtà è una delle menti dietro il nuovo corso di Twitter. Gadde è, anzi era, l’autorità morale di Twitter e l'esecutivo incaricato di gestire le questioni più delicate come le molestie e i discorsi pericolosi. Gadde convinse Jack Dorsey ad abbandonare completamente gli annunci politici per evitare di ripetere nel 2020 il caos delle elezioni del 2016. Gadde era al fianco di Dorsey quando incontrò Trump alla Casa Bianca, e lo era all’incontro col Dalai Lama, e con i regolatori americani. Le decisioni di Gadde fecero scuola per altri social e mostrarono, di contro, la pavidità delle scelte di Facebook verso la politica (Zuckerber si affrettò a dire che non spettava a loro decidere sul discorso politico, così realizzando un doppio binario tra i politici – che potevano dire tutto senza conseguenze – e il resto degli utenti).

Pochi lo ricorderanno ma ai suoi inizi il social era quasi del tutto non moderato. Crescendo il numero degli utenti si è avuto un momento nel quale il peso della violenza verbale era quasi insostenibile, e Twitter era al collasso, anche economicamente parlando. Da quel momento è iniziata la ristrutturazione delle dinamiche di moderazione, creando una serie di team interni che hanno ottenuto ottimi risultati. Twitter è decisamente piccolo in confronto agli altri social, ma si è ritagliato i suoi spazi. Mentre Facebook, ad esempio, assommava critiche su critiche con riferimento alla sua gestione della moderazione in paesi lontani dagli Usa, dove l’assenza di team locali impediva di comprendere il contesto dei messaggi, e quindi si apriva la strada alla violenza verbale che portava in certi casi anche a fuoriuscire dalle pagine del social, Twitter di contro si è conquistata la fama di social attento ai diritti civili. I dirigenti del social hanno resistito più volte nei tribunali dei paesi autoritari per non cedere i dati, i nomi, di attivisti e dissidenti, di giornalisti (qui un attivista di Singapore). In India, il terzo mercato più grande di Twitter, la società ha intentato una causa per contestare l'ordine del governo di rimuovere singoli contenuti e interi account che l'esecutivo considera un rischio per la sicurezza o la sovranità dell'India. Ovviamente non si può dire che Twitter fosse un paradiso, la moderazione dei contenuti su un social è quanto di più simile a un’impresa impossibile (c’è sempre qualcuno scontento), ma è un dato di fatto che quel cambio di direzione attirò nuovi inserzionisti e invertì la situazione economica. Del resto se una piattaforma si regge sulla pubblicità - e questo è un punto fondamentale da comprendere - è essenziale che l’ambiente sia “pulito”, perché nessun inserzionista vuole legare il suo marchio e i suoi prodotti a hate speech e disinformazione.

Eppure il nuovo corso del nuovo CEO sembra aver preso una direzione completamente diversa. I licenziamenti senza rispettare i termini di legge, lo smantellamento dei team per la disabilità e i diritti umani, la riduzione del personale tale da far nascere molti dubbi sulla reale possibilità da parte dell’azienda di mantenere una sicurezza adeguata sia per lo spazio di discussione fornito dal social che per gli stessi utenti. Sono cose che spaventano gli inserzionisti, infatti alcuni di essi (General Motors, Audi e General Mills sono tra questi) hanno già sospeso le inserzioni su Twitter in attesa di capire cosa succederà.

Paskalis poi è stato bloccato da Musk

E Musk, invece, dopo aver accusato gli “attivisti”, minaccia letteralmente di svergognare gli inserzionisti (“A thermonuclear name & shame is exactly what will happen if this continues”).

Twitter premium

Forse è presto per capire quale direzione prenderà il social sotto il nuovo CEO. Ma un indizio viene dal marchio Twitter Blu che Musk personalmente sta cercando di “vendere”. Il marchio blu finora era utilizzato dal social per identificare un personaggio pubblico di rilievo. Indicava che quel personaggio era stato identificato dal team aziendale è che quindi è esattamente chi dice di essere. È, ovviamente, un sistema per evitare che qualcuno si possa spacciare per un personaggio che ha la capacità di influenzare molte persone. Pensiamo a un attore o un cantante, ma anche a un politico.

Inizialmente l’azienda aveva pensato di piazzare questo nuovo Twitter Blu a 20 dollari al mese, ottenendo subito delle sonore critiche.

Stephen King: $20 a month to keep my blue check? Fuck that, they should pay me. If that gets instituted, I’m gone like Enron
Elon Musk: We need to pay the bills somehow! Twitter cannot rely entirely on advertisers. How about $8?

A queste critiche Musk ha risposto che devono pagare le “bollette”, e aggiunge: “Che ne dici di 8$?
Anche qui si nota l’iper-presenzialismo del nuovo CEO che tratta personalmente con i “clienti” del social. Ma al quale sfugge un elemento importante: gli utenti del social non sono i “clienti”, casomai sono il “prodotto”. Gli utenti del social, infatti, sono coloro ai quali viene fornito un servizio in cambio della vendita dei loro dati, estratti tramite gli algoritmi, agli inserzionisti. I clienti del social sono gli inserzionisti. Inoltre, essendo il Twitter Blu rivolto a personaggi di rilievo, è evidente che la loro stessa presenza attira persone sul social che così possono leggere e eventualmente anche dialogare coi loro idoli preferiti. Come si colloca in questa realtà iper-evidente la richiesta di pagare rivolta a tali personaggi? Dovrebbero pagare perché forniscono traffico al social? Perché attirano utenti nel social?

E qui, pur nella comprensibile e seria preoccupazione per i conti del social, ma disastrati dall’acquisto, sorge il dubbio che forse il nuovo CEO non ha proprio chiare le dinamiche di queste realtà, trattate come fossero un “prodotto” non differente dalle macchine Tesla (l'altra azienda di Musk).

Ma la realtà è decisamente più complessa, perché ad approfondire la questione si nota che molto probabilmente col nuovo corso il Twitter Blu avrebbe una vera e propria mutazione genetica, finendo per essere semplicemente un prodotto venduto per garantire delle funzionalità extra senza più alcuna identificazione. Come, ad esempio, il vedere meno pubblicità (cosa che subito ha allertato alcuni dirigenti che hanno sostenuto che porterebbe a una perdita notevole economicamente parlando), oppure addirittura avere una priorità sui messaggi. In sostanza chi compra Twitter Blu vedrebbe i suoi tweet amplificati al massimo, con una diffusione decisamente superiore a quella dei messaggi degli utenti normali. E questo potrebbe essere un serio problema perché è evidente che la somma delle due caratteristiche (non identificazione da parte dell’azienda, per cui io potrei prendere il nome di chiunque, anche di un personaggio famoso, e l'amplificazione) è estremamente appetibile per chi vuole fare disinformazione online. Infatti il lancio è stato ritardato a dopo le elezioni di Midterm americane, proprio per evitare ricadute negative sulle elezioni.

Rimane quindi ancora sotto scrutinio il grande debito dell’azienda. Per cui sembrerebbe (secondo il solito molto informato Casey Newton ripreso da The Verge) che abbiano addirittura valutato la possibilità di portare Twitter dietro a un paywall.

Agenti del caos

Quello che sta emergendo lentamente dal polverone sollevato dall'acquisto di Twitter è ancora difficile da valutare nella sua completezza. Ma qualche considerazione già si può fare. Abbiamo le prime avvisaglie del pericolo che può costituire un miliardario che gestisce, in prima persona tra l’altro, una piattaforma del web, una di quelle aziende che le nuove regolamentazioni europee definiscono gatekeeper, i guardiani dell’informazione, dello spazio pubblico, le piazze digitali (definizione di Musk).

Nelle ultime settimane, anche prima dell’acquisto, Musk ha proposto un piano per la pace per la Russia e l’Ucraina che ha indignato il governo ucraino. Ha pubblicato un tweet sull’accesso a Internet iraniano che ha esposto i manifestanti contro il governo a uno schema di phishing. Ha suggerito in un’intervista che la Cina potrebbe essere accontentata se fosse concesso il controllo parziale di Taiwan, provocando le proteste del governo di Taipei. L’iperpresenzialismo e l’iperattività social del nuovo CEO di Twitter ci fornisce un chiaro esempio di come può essere un Internet centralizzato nelle mani di pochi grandi miliardari (più o meno tutti americani e bianchi) che possono aprire e chiudere i rubinetti della libertà di parola mondiale.

Sono, sia chiaro, situazioni che abbiamo già visto in altri paesi, in particolare in Italia abbiamo convissuto per anni con un duopolio dell’informazione che permetteva a pochissimi di manipolare l’informazione fornita all'opinione pubblica (con una assenza di studi sugli effetti della situazione, tra l’altro, mentre negli Usa almeno queste problematiche si studiano da tempo). Ma qui siamo in una scala decisamente superiore, a livello non più locale ma mondiale. In questo quadro è interessante che nell’ambito dei licenziamenti alcuni team locali (Australia e Irlanda) sembra siano stato smantellati quasi del tutto. E probabilmente nell’ambito della ristrutturazione aziendale per contenere i costi saranno proprio i team esteri i primi a pagarne le spese. La conseguenza immediata è che l’azienda perderà la capacità di capire il contesto storico-politico delle realtà non americane, cosa che è essenziale per una efficace moderazione dei contenuti. Proprio dall’esperienza di Facebook si è visto che l’assenza di comprensione del contesto, degli usi e costumi di paesi dell’Africa, ha permesso a realtà locali di sfruttare il social per discriminazioni e azioni violente contro le minoranze.

Il nuovo CEO di Twitter ha già dalla sua la capacità di influenzare l’opinione pubblica. Più che un imprenditore è infatti un vero e proprio influencer, con un seguito, una fanbase ampia e estremamente combattiva. Se la sua ricchezza viene soprattutto dalla Tesla, la sua influenza deriva anche dalla Rete satellitare Starlink, che attualmente è usata in Ucraina come strumento di comunicazione per l’esercito ucraino. Adesso l’influenza di Musk si estrinsecherà attraverso il social ed è piuttosto difficile credere che riesca a separare le sue opinioni dagli interessi commerciali.

Molti critici, ad esempio, hanno notato che, nonostante il fatto che gli slot di Starlink siano pagati (da volontari ucraini, dalla Polonia, dalla Gran Bretagna e dal governo Usa), negli ultimi tempi Musk si lamenta sempre più che non può continuare a fornire Starlink indefinitamente. E per ben due volte, appena l’esercito ucraino si è avvicinato alla Crimea, la Rete Starlink è stata disattivata. L’azienda si è giustificata dicendo che è per impedire che i russi possano hackerarla. Ma alcuni commentatori hanno ricollegato questi episodi alla proposta di “pace” tra Russia e Ucraina che, guarda caso, implica la cessione definitiva di territori alla Russia, tra cui la Crimea. L’allineamento con le idee della Russia di conclusione del conflitto è sembrato sospetto.

La Cina, inoltre, è centrale per i piani futuri di Tesla. Lo stesso ambasciatore cinese ha tenuto a precisare che l’uomo più ricco del mondo va d’accordo col governo cinese. L’acquisto di Twitter potrebbe innescare un nuovo modo di porsi del social verso il governo cinese e i media controllati dallo Stato cinese. In questo modo è evidente che Musk si pone nel mezzo della battaglia commerciale e politica tra Usa e Cina. E non dimentichiamo che la Cina è vicina alla Russia. Come si porrà Musk, e quindi Twitter, nella contesa tra le due superpotenze? Per il momento negli Usa (dove il potere del governo sulle aziende si limita alla regolazione legale) Musk è un autoproclamato difensore della libertà di parola, che critica senza peli sulla lingua Biden (definito un burattino umido) e la sua amministrazione. Con la Cina (dove è lo Stato a stabilire se un’azienda vive o muore e dove la libertà di parola non esiste) Musk ci tiene a ingraziarsi il governo. Del resto in Cina si prevede un mercato da 6 milioni di auto elettriche nel 2022, e Musk ne vuole fare parte.

Non si può, allora, non ricordare che Tesla ha aperto uno showroom a Ürümqi, la capitale dello Xinjiang, la provincia in cui il governo cinese avrebbe effettuato detenzioni di massa e abusi sulla comunità uigura. Lo stesso senatore repubblicano Rubio ha accusato Tesla: “Stanno aiutando il Partito Comunista Cinese a coprire il genocidio e il lavoro degli schiavi”.

E come si comporterà il nuovo CEO con i governi dell’Arabia Saudita (secondo socio in Twitter) e dell’India o della Russia? Attualmente Twitter non funziona in Russia, ma ci sono state aperture nell'immediatezza dell'acquisizione da parte di Musk (ma come ha funzionato in passato la moderazione in Russia?). Sono paesi autoritari che non amano le critiche e il dissenso. Se l’Arabia dovesse chiedere di rimuovere contenuti veri ma invisi al Re cosa farà Twitter?

Insomma l’impressione è che Musk, specialmente adesso che ha urgentemente bisogno di ripianare i debiti di Twitter, possa agevolare in qualche modo i suoi affari con la Cina (e quindi indirettamente forse anche favorendo la Russia?) per puri interessi economici. Oppure, come ricorda Fukuyama, Musk potrebbe comportarsi come un “oligarca” al quale non interessa realmente quanti profitti fa con Twitter, purché gli consenta un vantaggio in termini di propaganda delle sue idee, di controllo del discorso pubblico e regolamentazione del dissenso diretto contro i suoi interessi. Il problema è che certa tecnologia ormai è centrale per la geopolitica, e Musk ne controlla un pezzo importante.

Un pozzo nero senza fondo

Quando Musk era nella fasi di “trattativa”, continuava a dire che con lui Twitter sarebbe stato per il “free speech” (proprio lui che notoriamente silenzia i suoi critici), il discorso libero, senza censura (alla stregua degli obblighi di must carry delle compagnie telefoniche per capirci). Ma progressivamente anche lui si è dovuto ricredere, perché già nei primi giorni, approfittando del caos conseguente ai massicci licenziamenti, l’hate speeh, i discorsi violenti e i tweet contro i n****, si sono moltiplicati. Portando il nuovo CEO a dire che i contenuti “sbagliati e cattivi” vanno comunque rimossi.

La storia di Twitter, più degli altri social, è l’esemplificazione della varie fasi che può attraversare una piattaforma di questo tipo. La storia di Twitter dimostra plasticamente che un social è definito dalle sue politiche di moderazione dei contenuti. Se Facebook scelse di distinguere gli utenti in due categorie, politici e altri, dove ai primi tutto era permesso, Twitter scelse (da un certo momento in poi) di trattare tutti allo stesso modo. I TOS valevano per tutti. Un social è la sua capacità di modellare il discorso online, nel momento in cui milioni, miliardi di persone riversano le loro paure, le loro aspirazioni, le loro frustrazioni, i loro desideri, nello spazio online, nella piazza digitale. Ma la favoletta del “free speech” non regge a una analisi realistica. Il “liberi tutti”, puoi dire quello che vuoi se non violi alcuna legge, non regge, e lo abbiamo visto (anche se abbiamo la memoria corta) proprio sui social, che porta a trasformarli in pozzi neri senza fondo colmi del liquame dei peggiori discorsi: hate speech, disinformazione, abusi, molestie, odio, bigottismo, antifemminismo, mascolinità tossica. Un social è anche, anzi soprattutto, amplificazione, la censura moderna, che i repubblicani imputavano proprio a Gadde, non è più data dalla cancellazione di qualche tweet, quanto piuttosto dalle campagne coordinate contro una persona per ridurla al silenzio. Proprio il trattamento che Gadde subì qualche giorno dopo che Musk la aveva accusata di aver portato Twitter a svoltare a sinistra (dopo il ban a Trump, che poi Musk ha detto avrebbe annullato). Questa non è “libertà di parola”, perché un messaggio diretto è l'equivalente di urlare contro una persona insultandola o molestandola.

Con Gadde al timone Twitter passò dall’essere una piattaforma agnostica a una che preferiva una conversazione “sana”, non violenta, non basata sullo zittire l’altro. Quello che Twitter stava facendo era esplorare il percorso giusto per arrivare a questo. Non c’è una soluzione facile, ma una cosa certa è che il “free speech” non funziona, una piattaforma che lascia fluire i contenuti con una moderazione davvero minima ha un solo effetto (a parte la riduzione dei costi), trasformarla in un pozzo nero. L’esperienza di Twitter fu devastante, specialmente con la violenza crescente in occasione delle elezioni del 2016 e anche prima, con l’alimentarsi dei gruppi Qanon. La situazione apparve critica nel momento in cui si vide chiaramente che è possibile un passaggio dalla violenza verbale a quella fisica, nelle strade, per cui si comprese la necessità di intervenire prima dell’escalation fisica. Poi, ma quella è storia, c’è stato l’attacco a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Trump, per il quale Trump fu messo sotto accusa per incitamento all’insurrezione.

Governare un social non è semplice, anzi. Esistono tre modi:

  • Lasciare che le regole siano stabilite dalle piattaforme (i termini di servizio);
  • Il governo stabilisce le regole perché un discorso si possa ritenere “legale”;
  • Consentire agli utenti la regolamentazione del discorso online, fornendo strumenti e impostazioni (da parte della piattaforma) che permetta loro di decidere il livello di moderazione.

Il primo è sostanzialmente l’approccio attuale, per lo meno negli Usa (in Europa ci sono più regole), che però non significa massima libertà, in quanto le piattaforme devono sempre rispettate le leggi (Primo Emendamento, Communication Decency Act, Sezione 230 per gli Usa, e le equivalenti norme per l’Europa). Il secondo caso si sta realizzano in alcune zone, ad esempio con le leggi del Texas e della Florida che fissano delle regole precise. Il problema è che una normativa statale necessita di tribunali appositi (per moderare milioni di post) oppure dovrebbe essere lasciata all’applicazione delle piattaforme che si farebbero giudici con un processo del tutto inadeguato. La terza proposta è la più recente (middleware, come definito dal gruppo di Stanford di Fukuyama) ed è attualmente in fase di studio teorico, e in qualche caso anche pratico, con i primi esperimenti. Ridurrebbe il potere di censura delle piattaforme, affidando a gruppi esperti l’effettiva moderazione dei contenuti, potendo l’utente scegliere tra varie impostazioni preconfezionate.

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Con riferimento all’ambiente americano si contrappongono due idee. Quella dei democratici è che le piattaforme moderino troppo poco, preferirebbero maggior controllo del discorso online per ripulirlo dagli eccessi e gli abusi. Di contro i repubblicani da anni accusano le piattaforme (come fece Musk con Twitter) di aver spostato un punto di vista tipicamente di sinistra e quindi di censurare per lo più il discorso di destra, da cui richieste di minore “censura” e moderazione dei contenuti, richieste di maggiore libertà, di “free speech” appunto. Bias, tra l’altro, smentito dagli studi in materia (spesso questo tipo di accuse servono solo a ottenere dei vantaggi dalla controparte che ovviamente si affanna a dimostrare che le accuse non sono vere, così favorendoli).

Il punto è che tali situazioni sono possibili ed è difficile da provare la manipolazione, per quanto limitata possa essere, anche in considerazione del fatto che ciò avverrebbe a posteriori, quando il danno è già occorso. Pensiamo a una elezione politica. È ormai passato il tempo in cui le piattaforme sostenevano la loro “neutralità” per evitare che la scure dei regolatori si abbattesse su di loro. Ormai è evidente che hanno un potere enorme, la domanda è: ci possiamo fidare? O meglio, dobbiamo fidarci che il Musk di turno non usi lo strumento che ha a disposizione per favorire i propri interessi economici o di altro tipo? Oppure dobbiamo attendere di replicare la pessima esperienza avuta con le televisioni private che si sono accaparrate tutti spazi dell’etere occupandoli e sfruttando il media per finalità personali (economiche e politiche)?

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Scendendo a un livello più particolare, quello degli utenti della piattaforma, dobbiamo chiederci se vogliamo che la piattaforma debba garantire un ambiente più “sano”, meno abusivo, meno molesto, meno funestato da minacce, trolling, oscenità, doxxing, spam. È una domanda complicata, non fosse altro perché si tratta per la maggior parte di attività che non violano nessuna legge, sono solo fastidiose. Ma il livello di fastidio può essere, in alcuni casi intollerabile, pensiamo alla persona sottoposta ad attacchi coordinati, come abbiamo visto molte volte anche in Italia. Talvolta campagne che nascono proprio dai politici, quelli che sui social chiedono un doppio binario.

Ovviamente si deve prendere atto che quel tipo di comportamenti non sono deviazioni, anzi sono connaturati agli esseri umani. Se ne vedono tanti, negli ambienti di lavoro ad esempio, nella vita reale. Il problema sui social è che la scala è completamente diversa, potendo coordinarsi gruppi di centinaia di persone contro un singolo individuo, l’equivalente di un vero linciaggio. Una moderazione fatta per bene, per quanto difficile, non li cancellerà ma li farà spostare su altri lidi digitali, in angoli bui meno visibili all’opinione pubblica. E si è visto che i servizi social alternativi che accolgono questi utenti alla lunga non hanno un grande successo, tendono a esaurirsi nel tempo oppure a rimanere spazi ridotti. Oppure, in alternativa, ad aprire a una vera moderazione dei contenuti (es. Parler).

Immagine in anteprima via CNN

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