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Perché non si può parlare di turbocancro legato ai vaccini e chi ne parla fa disinformazione

30 Maggio 2024 10 min lettura

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Perché non si può parlare di turbocancro legato ai vaccini e chi ne parla fa disinformazione

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Le leggende sul turbocancro da vaccino a mRNA continuano a circolare. Un po' di tempo fa qualcuno, che pure si qualifica come medico (MD), senza avere alcuna informazione sul cancro che Kate Middleton aveva appena dovuto confessare pubblicamente, ha scritto che probabilmente si trattava di turbocancro da vaccino, descrivendone poi in dettaglio le caratteristiche (come se fosse qualcosa che esiste davvero). 

Questo medico, che purtroppo è solo un piccolo ingranaggio in un sistema di disinformazione molto più grande, da tempo condivide ogni giorno sul suo account X/twitter foto e nomi di persone morte secondo lui per turbocancro da vaccino (o per arresto cardiaco, sempre da vaccino) in post che vengono letti e condivisi da qualche migliaio di persone, e ha superato i 180.000 follower. Il post su Kate Middleton ovviamente ha portato un picco di like e condivisioni.

È solo un piccolo esempio di come la macchina della disinformazione sia sempre un passo avanti, strumentalizzando dubbi e paure e calpestando principi deontologici, morali ed umani.
È difficile contrastarla, possiamo solo cercare di fare rete e contribuire ognuno nel proprio piccolo a creare un substrato in cui quella disinformazione non si diffonda tanto.  

E allora parliamo un po' di origini del cancro, di quelle vere. Solo di un aspetto particolare, che altrimenti ci vorrebbero libri. Ma è un aspetto interessante e controverso. Quella che fu chiamata la bad luck hypothesis. Che ovviamente non si chiama così, ma è così che è stata interpretata quando nel 2015 e poi nel 2017, Cristian Tomasetti e Bert Vogelstein (un punto di riferimento per chi studia la biologia dei tumori) pubblicarono su Science (top journal) due articoli che scatenarono un dibattito accesissimo nella comunità scientifica. 

I due piccoli elefanti nei laboratori di cui studia i tumori: cosa causa i tumori? E perché sono più frequenti in alcuni tessuti e organi?

Il primo saggio del 2015 in effetti suscitò molto interesse ma anche tante reazioni, e furono scritti così tanti articoli di dissenso che spinsero gli autori ad approfondire le loro analisi e a confermare i loro risultati in un secondo saggio pubblicato nel 2017.

Nei due saggi (che qui raccontiamo insieme) gli autori affrontano due problemi: il primo è quello di tutti quei casi di cancro (p. es., prostata, cervello, osso, alcuni casi di polmone nei non fumatori) per i quali non è nota una associazione causale diretta con fattori ambientali come fumo, alimentazione o esposizione a cancerogeni. Cosa li ha causati? E poi affrontano un secondo problema, e cioè l'evidenza che i tumori in alcuni tessuti e organi sono molti più frequenti che in altri. 

Due piccoli elefanti che si aggirano nei laboratori di ogni ricercatore che si occupa di cancro.

Tomasetti e Vogelstein partono da un assunto corretto: la maggior parte delle cellule nei tessuti è in parte o completamente differenziata ed è improbabile che possa dare origine a un tumore. È molto più probabile che siano le cellule staminali (quelle cellule che in un tessuto per tutta la vita continuano a replicarsi per rimpiazzare quelle che perdiamo) – quelle che mantengono la capacità di autoreplicarsi (self renew) – ad accumulare nel tempo (anni) le variazioni genetiche che porteranno alla trasformazione tumorale.

Analizzando i dati dei registri dei tumori per organi e tessuti dei quali fosse caratterizzato il comparto staminale, i due autori fanno l'ipotesi che il rischio di avere un tumore nel corso della nostra vita sia direttamente correlato al numero di replicazioni fatto dalle cellule staminali di quel tessuto (che varia e dipende dal tessuto). Nel corso di ognuna di quelle replicazioni, infatti, c'è una determinata probabilità di introdurre un errore, mutazioni casuali, eventi stocastici che poi per sfortuna possono ritrovarsi in un sito critico di un gene critico e innescare il processo di trasformazione tumorale. I meccanismi evolutivi basati su variazioni casuali e selezione naturale che funzionano anche in un tumore, faranno il resto.

Mettendo in correlazione il rischio di avere nel corso della nostra vita un determinato tumore per 31 tipi cellulari diversi, con il  numero stimato di replicazioni che le staminali di quel tessuto faranno nel corso della nostra vita, i due autori notano che tra il rischio di cancro e il numero di replicazioni c’è una correlazione lineare molto forte (per chi mastica un po’ di statistica: Spearman 0,81, Pearson 0,804).

Questa analisi porta i due scienziati a concludere che il 65% della differenza nel rischio di cancro tra diversi tessuti dipende dal numero di replicazioni fatto dalle cellule staminali di quei tessuti. 

Successivamente gli autori confermeranno le loro analisi coi dati ottenuti da 18 tipi di tessuto contenuti nei registri dei tumori di 69 paesi, per essere sicuri di non aver descritto un fenomeno valido solo negli Stati Uniti. 

E in aggiunta costruiranno un modello matematico con cui cercheranno di assegnare al rischio di mutazioni in diversi tessuti la percentuale attribuibile a eventi stocastici (R: replicative, errori casuali nel corso della replicazione cellulare), a fattori ambientali (E: environmental come fumo, alimentazione, esposizione a mutageni) ed ereditari (H: hereditary, l’aver ereditato dai genitori una copia di un gene con una mutazione predisponente al tumore). Questo gli consentirà di estrapolare per i tessuti e organi esaminati in quale proporzione il rischio di un tumore sia da attribuire a eventi stocastici, a  fattori ambientali o a componente ereditaria. 

Sebbene queste percentuali siano diverse da tumore a tumore, gli autori confermano che in media il 66% del rischio dipende da errori casuali accumulati durante la replicazione. Il resto è una somma di fattori ambientali e (anche se in parte minore) eredità. Un risultato che conferma quanto descritto nel primo articolo.   

In realtà, quello che si dice nei due articoli è un po' più complesso ma sarebbe troppo lungo da trattare in questa sede (per chi fosse interessato può consultare i due articoli del 2015 e del 2017 qui e qui).

In interviste successive, per spiegare il processo dietro l’origine dei tumori, Vogelstein ha usato la metafora del viaggio in auto: più lungo è il viaggio (maggiore è il numero di replicazioni), maggiore è la probabilità di un incidente. 

Il concetto è abbastanza intuitivo ma per la prima volta viene espresso in modo quantitativo. Anche se comunque non tutti saranno d’accordo.

Fattori ambientali, fattori ereditari, fattori imprevedibili?

Un po’  per la necessità di semplificare per spiegarlo a chi non sa, un po’ per la fretta di avere un'opinione prima di aver letto, quei dati sono stati interpretati da molti come l'affermazione che due terzi dei tumori sono causati da eventi stocastici, non prevedibili e quindi non prevenibili. In poche parole, dalla sfortuna.

Ma allora, tutti i discorsi sul fumo, sull'alcool, sull'alimentazione, sull'inquinamento? E tutte le politiche di prevenzione? Tutto da buttar via per lasciare il posto alla sfiga? Insomma, sarebbe inutile investire in prevenzione primaria (ridurre le cause potenziali di una malattia) per cercare di prevenire i tumori.

E poi, si sposterebbe tutto il peso sulla prevenzione secondaria (programmi di controlli e screening di popolazione in cerca di tumori in fase precoce). Che alcuni vedono come un generoso regalo alle companies che producono i test. Mentre altri si interrogano sull'impatto psicologico che potrebbe avere il sentirci in una costante condizione di incertezza e di attesa di una brutta notizia o nella speranza di non riceverla.

Da parte loro, Tomasetti e Vogelstein invece sostengono che la loro teoria dovrebbe essere di conforto per tutti quelli che hanno avuto una diagnosi di tumore e si chiedono ovviamente  “perché io” pur non avendo mai seguito comportamenti a rischio, insomma non potendosi rimproverare nulla. Bisogna ricordare che la cultura della prevenzione è estremamente positiva, ma comporta anche il rischio dello stigma, o di autoaccusarsi per qualcosa che il contesto intorno a noi ci dice che era prevenibile, che se è successo è solo colpa tua. O anche per quei genitori che si colpevolizzano per aver dato "geni cattivi" ai figli, che si sono ammalati o rischiano di ammalarsi per colpa loro. Il messaggio di Tomasetti e Vogelstein è che un tumore non è sempre colpa tua. A volte succede e basta.

Ci troviamo in una di quelle situazioni in cui con una cattiva interpretazione del dato statistico tutti hanno ragione e tutti hanno torto. 

Chiariamo alcuni punti. Innanzitutto quel due terzi è il risultato di un modello matematico, dipende dalla bontà dei dati su cui è costruito. Poi è un valore medio, in alcuni casi come il tumore del polmone da fumo, la componente R (replicazione, l'errore casuale) è molto più bassa del 65%, è quasi tutto componente E (ambiente, fumo), mentre in altri è più alta. Dipende dal tumore.

In realtà, poi, Tomasetti e Vogelstein non negano il ruolo dei fattori ambientali (e quindi della prevenzione). Dicono che c'è un rischio di mutazioni che per il 65% dipende dal numero di replicazioni. Ma il rischio da fattori ambientali si sovrappone al rischio da replicazione. Tornando alla metafora del viaggio, il rischio di incidente è più alto se il viaggio è più lungo, ma se parto con le gomme lisce o sono molto stanco, alla fine la causa dell'incidente sarà che non ho frenato o che mi sono addormentato. Controllando l'auto prima di partire e riposando ogni tanto durante il viaggio potrò prevenire molti incidenti. Il messaggio è che posso prevenire, ma non posso annullare completamente il rischio.

Nell’ipotesi formulata dai due scienziati ci sono alcuni punti un po' critici. Intanto, rischio di mutazioni e rischio di cancro non sono la stessa cosa. Ma negli articoli e nelle discussioni a volte si usa l'uno, a volte si usa l'altro. 

Poi, a prescindere dal fatto che le mutazioni siano state causate da errori spontanei di replicazione o (per esempio) da addotti di benzopirene del fumo di sigaretta sul DNA, altri fattori successivi sono determinanti per arrivare al tumore. Dalla nostra capacità di riparare quelle mutazioni alla capacità del nostro sistema immunitario di eliminare le cellule impazzite, da fattori epigenetici, o dalla presenza di fattori come ormoni o disruttori endocrini che promuovono la proliferazione, fino alla composizione del nostro microbiota che ormai sappiamo influire molto sul rischio di tumore... Fattori che non vengono considerati dal modello.

Un terzo elefante nel laboratorio

C’è, invece, un elemento dalla mia esperienza professionale che vorrei aggiungere alla discussione: il terzo piccolo elefante. Ci sono persone che nascono (avendone ereditata una da ogni genitore) con due copie non funzionali di un gene che controlla la rimozione dal DNA di alcune basi danneggiate (ossidate). Se queste basi non vengono rimosse possono introdurre mutazioni, perché durante la replicazione a causa delle loro proprietà chimiche si appaiano in modo sbagliato (non secondo lo schema  A : T e G : C). Queste persone tendono ad accumulare nel corso della loro vita più mutazioni delle persone che non hanno il gene mutato. E allora l'accumulo di mutazioni che nell'ipotesi di Tomasetti e Vogelstein è correlato alle  replicazioni delle cellule staminali, in questi casi si verifica invece per la loro mancata riparazione. Ma il risultato è molto simile: queste persone hanno un forte rischio di avere un tumore ma i tumori sono principalmente a carico del colon-retto. Che è uno dei tessuti le cui staminali, a causa del ricambio costante dell'epitelio, hanno un'attività proliferativa più intensa. Il rischio di tumori in altri tessuti che proliferano meno c’è ma è molto più basso. A confermare, anche se con meccanismi diversi, l'ipotesi di Tomasetti e Vogelstein.

Senza entrare nel dibattito sulle percentuali esatte di rischio intrinseco (R) e quelle di rischio indotto (E), la conclusione è che purtroppo non sembra probabile poter eliminare completamente il rischio di cancro dalla nostra vita.

È vero che molti tumori sono prevenibili. Gli autori citano un dato di Cancer Research UK, secondo cui il 42% dei tumori sarebbe prevenibile, che ritengono compatibile con la loro ipotesi. Anche dati più recenti (qui e qui) vanno nella stessa direzione. Se è importante ricordare che non esiste uno stile di vita a rischio zero, che non sarà mai possibile prevenire alcuni tumori, è altrettanto importare ricordare che invece alcuni tumori, come quello al polmone da fumo, o quello al collo dell’utero da HPV, sono molto prevenibili.

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Una considerazione aggiuntiva è che di fatto non conosciamo nemmeno tutti i fattori ambientali (chimici, fisici, biologici) a cui siamo esposti e che possono causare tumori che potremmo evitare. Per cui è importante continuare a studiarli.

Infine, per chiudere il cerchio, abbiamo visto che qualunque sia la causa delle mutazioni, il cancro dipende comunque dalle replicazioni cellulari nel corso delle quali gli errori spontanei o i danni indotti al DNA vengono fissati in mutazioni. E per accumularne del tipo giusto (che siano funzionali al tumore) e in una stessa cellula (una combinazione  di singoli eventi  è un evento molto improbabile), c'è bisogno di tempo. E c'è bisogno di tempo per tutti quegli adattamenti che rendono un tumore così difficile da trattare, tempo per selezionare i meccanismi necessari a sfuggire all'apoptosi e all’immunità, a collegarsi al circolo sanguigno, a resistere ai chemioterapici e agli inibitori. 

Non sono cose che si fanno in pochi mesi, come invece sostiene chi parla di turbocancro da vaccini a mRNA.

Immagine in anteprima via The Harvard Gazette

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