La Tunisia e il sì ai pieni poteri del presidente della Repubblica. Le ragioni della crisi della ‘prima democrazia del mondo arabo’
6 min lettura30 e 94. Si può partire da due numeri per capire cosa è successo in Tunisia nell’ultimo anno. Un periodo che ha visto il presidente della Repubblica Kais Saied governare con pieni poteri dal 25 luglio 2021, quando sulla scia di una lunga crisi economica e sociale ha sciolto il governo, congelato il parlamento ed esautorato qualsiasi tipo di contropotere. Da lunedì scorso questa misura definita all’epoca “eccezionale” per salvare le sorti dello Stato promette di durare ancora a lungo.
30 si riferisce al tasso di partecipazione al referendum costituzionale senza quorum proposto e imposto da Kais Saied in occasione della festa della Repubblica. 94 è la percentuale dei sì con cui è stata approvata la riforma istituzionale per rendere la Tunisia un regime ultra presidenziale con una divisione solo formale dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario.
Dati i fatti (sulle ripercussioni bisognerà attendere le prossime settimane per capire il grado di autoritarismo che vorrà attuare Saied) ci sono ragioni specifiche dietro alla fine di fatto della transizione democratica che stava interessando il paese dalla cosiddetta Rivoluzione della libertà e della dignità nel 2011. Ragioni che hanno a che fare con la politica nazionale, l’economia dello Stato e il degrado delle condizioni sociali.
Oltre a esprimersi sulla nuova forma istituzionale della Tunisia, l’impressione secondo diversi analisti è che il voto del 25 luglio nascondesse un quesito molto più sentito: volete continuare con lo stesso sistema post 2011? Guardando ai risultati del referendum, la risposta è stata molto chiara.
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«Ci sono molte ragioni per cui ho deciso di votare, c’era molta corruzione e il presidente ha fatto un primo passo contro tutto il sistema. Siamo molto fieri e anche l’economia andrà sempre meglio, sono sicura di questo», dichiara per esempio Bosha Ayari al seggio elettorale del Bardo, quartiere residenziale di Tunisi a pochi passi dal parlamento. Non è la sola.
Sostenere che dietro al sì o al no del quesito referendario ci fossero ragioni più strutturali significa ripercorrere la storia recente della Tunisia, fatta di scontri politici, crisi economiche e una società civile che non ha saputo intercettare fino in fondo le rivendicazioni popolari. Da qui si può partire per capire il grado di disillusione nei confronti della “prima democrazia del mondo arabo” e il consenso dietro a Kais Saied, festeggiato da centinaia di persone in avenue Bourguiba a Tunisi dopo l’esito del referendum.
Le ragioni politiche. Dopo la Rivoluzione del 2011 la Tunisia ha cominciato un lungo e travagliato processo di transizione democratica che ha portato alla promulgazione di una nuova costituzione nel 2014. Al netto di un impianto che si è dimostrato solido nonostante alcuni compromessi tra le forze politiche che hanno redatto il testo, l’attenzione deve essere puntata su chi ha governato il paese per 11 anni prima del 25 luglio 2021: il partito di ispirazione islamica Ennahda e il suo leader Rached Ghannouchi. Una forza politica che è stata al centro degli equilibri di potere nonostante non fosse la protagonista della Rivoluzione che portò alla cacciata del despota Zine El-Abidine Ben Ali più di 11 anni fa. Ha governato attraverso accordi politici con i suoi rivali storici e ha alimentato un sistema che anno dopo anno ha sfibrato le aspettative dei tunisini, i quali oltre a una maggiore libertà di parola hanno atteso invano maggiori tutele economiche e sociali. Il culmine è stato raggiunto nell’estate del 2021 con la crisi sanitaria da COVID-19, una gestione di governo assolutamente insufficiente che ha esasperato ancora di più coloro che vedevano nel regime di Ennahda uno Stato corrotto. Non è un caso che il partito islamico abbia perso milioni di voti a ogni elezione.
Le ragioni economiche, il vero fulcro della disillusione collettiva. Nonostante il loro impatto immediato, in Tunisia non bastano i semplici numeri per spiegare le reali condizioni di vita della popolazione, soprattutto nelle regioni più povere. 16% di disoccupazione, attorno al 40 per i giovani, 8% di tasso d’inflazione e una crisi alimentare alle porte dopo le mancate importazioni di grano a causa del conflitto in Ucraina.
Oggi il potere di acquisto è crollato e lo Stato non riesce più a trovare soluzioni. La legge finanziaria relativa al 2022 è stata chiusa con un buco di circa 4 miliardi di dollari su un totale di 16. Un buco che promette di essere riempito presto dal Fondo monetario internazionale (Fmi) che recentemente ha aperto in via ufficiale un tavolo di negoziazioni con il governo di Najla Bouden Romdhane. La moneta di scambio rischia di minare le fondamenta del sistema economico tunisino: congelamento delle assunzioni nella funzione pubblica; piano ingente di prepensionamenti; una decisa riforma delle sovvenzioni statali a favore di aiuti mirati alle fasce più povere della popolazione; una progressiva campagna di privatizzazione di importanti aziende statali. Tradotto: una riforma di contenimento della spesa pubblica e il rischio concreto di un aumento della povertà sul breve periodo.
Le ragioni sociali, lo specchio della crisi economica. Nel paese quando le cose non vanno si manifesta, anche in epoca di regimi autoritari. È successo nel 1983 con le rivolte del pane, nel 2008 con gli scioperi attorno al bacino di fosfato a Gafsa, nel 2011 con la Rivoluzione della libertà e della dignità ma anche nel 2021 con le proteste notturne nei quartieri periferici di Tunisi e nelle regioni dell’entroterra. Movimenti questi ultimi che hanno portato a migliaia di arresti arbitrari da parte della polizia e riacceso il dibattito sullo stato di repressione nel paese. I protagonisti, ancora una volta, sono stati i giovani, i primi sostenitori di Kais Saied e i primi anche a tornare in strada qualora nei prossimi mesi le condizioni economiche non dovessero migliorare.
Messi insieme, questi tre fattori possono spiegare le ragioni della forza del presidente della Repubblica, capace anche di sfruttare un’opposizione divisa e divisiva. Dal momento del colpo di forza Ennahda ha cominciato una lunga campagna di proteste unendosi al movimento Cittadini contro il colpo di Stato per rivendicare il ripristino dell’ordine democratico, tuttavia senza riuscire a mobilitare grandi numeri; il partito nostalgico del vecchio regime di Ben Ali, guidato dall’avvocata Abir Moussi, ha presto preso le distanze da Saied; la società civile, insieme ai partiti di sinistra, ha invece deciso di non unirsi alle manifestazioni salvo convocare una protesta in avenue Bourguiba venerdì 22 luglio, repressa in pochi minuti da pesanti cariche delle forze dell’ordine. Sullo sfondo è rimasto il ruolo del sindacato più importante del paese, l’Unione Generale Tunisina del Lavoro (Ugtt), protagonista della fase rivoluzionaria del 2011 ma che oggi non sembra avere la stessa influenza.
Kais Saied si ritrova quindi a essere il vero decisore politico della Tunisia e la nuova Costituzione lo pone come unico arbitro del paese. I suoi decreti dovranno essere valutati con “priorità assoluta” dalle due camere parlamentari, avrà un controllo diretto sulla magistratura (ha già licenziato 57 giudici) e sarà a capo di uno Stato che dovrà gestire direttamente le questioni religiose.
Il presidente della Repubblica ha dunque trovato il suo posto al sole a Cartagine? Non proprio. Nelle pieghe delle analisi del referendum c’è un altro numero importante: 70. Si tratta del tasso di astensionismo, un dato importante che nasconde più di una lettura. Da una parte, rileva l’opposizione silenziosa a Kais Saied con diversi partiti che hanno preferito delegittimare la consultazione promuovendo una campagna per il boicottaggio del voto piuttosto di un no attraverso le urne. Dall’altra, il 70% fa trasparire il disinteresse generale della popolazione nei confronti del sistema paese. Ci sono fasce intere della popolazione che non credono più nella politica e nel fatto che, un giorno, la Tunisia possa garantire condizioni di vita dignitose. Neanche Kais Saied, nonostante il suo consenso e i suoi larghi poteri. Il presidente della Repubblica è chiamato a mettere mano molto presto all’agenda economica e sociale, il rischio è che lo Stato possa dichiarare presto default. Senza contare le numerose proteste che promettono di infiammare il paese molto presto se la situazione non dovesse migliorare.
«Da oggi non si torna più indietro», ha ribadito il responsabile di Cartagine alla folla che lo acclamava lunedì scorso in avenue Bourguiba. Un chiaro segno delle intenzioni presidenziali dei prossimi mesi.
Immagine in anteprima: Giovanni Culmone