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Come i fondi dell’UE sostengono gli abusi e le violenze contro i migranti in Tunisia: la brutale verità dietro il “modello Italia” sull’immigrazione

3 Ottobre 2024 12 min lettura

Come i fondi dell’UE sostengono gli abusi e le violenze contro i migranti in Tunisia: la brutale verità dietro il “modello Italia” sull’immigrazione

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12 min lettura

Abusi. Violenze. Stupri e aggressioni sessuali. Da un anno e mezzo la lista dei soprusi e delle violazioni che riguarda l’apparato securitario tunisino si fa sempre più lunga. In particolare dal febbraio del 2023 quando il presidente della Repubblica Kais Saied ha pronunciato un duro discorso di Stato contro la comunità subsahariana presente nel paese accusandola di stare compiendo una vera e proprio sostituzione etnica nei confronti della popolazione tunisina. Da allora le violenze a sfondo xenofobo e razzista si sono fatte via via più visibili e hanno toccato direttamente le forze di sicurezza del piccolo Stato nordafricano. 

Un’inchiesta del giornale britannico The Guardian ha documentato ciò che da tempo è costretta a subire questa fetta della popolazione. Lo sta subendo anche attraverso strumenti, equipaggiamenti e formazioni messi a disposizione dall’Unione Europea e con una brutalità che dimostra tutto il contrario rispetto ai valori sui diritti umani e internazionali citati da Bruxelles quando si impegna a finanziare questo tipo di programmi. 

«Era chiaro che mi avrebbero violentata». Bastano poche parole per intuire tutto il dolore e il terrore che si cela dietro alle azioni delle forze di sicurezza. A parlare è Marie, il suo nome è di fantasia ed è originaria della Costa d’Avorio. La ragazza è riuscita a salvarsi grazie all’intervento di un gruppo di sudanesi. Tuttavia, secondo alcune organizzazioni che operano in loco, sono centinaia i casi di donne che hanno subito stupri da parte di poliziotti o agenti di sicurezza. «Siamo in tante a essere state violentate in gran numero. Ci stanno togliendo tutto», prosegue Marie. 

L’epicentro di tutto questo è Sfax, seconda città della Tunisia e uno dei punti principali di partenza lungo la rotta centrale del Mediterraneo. In particolare è la campagna di El Amra, una distesa di ulivi e abitazioni sparse a nord del centro urbano. Qui è dove si condensa tutto il male che le forze di sicurezza hanno commesso nei confronti della comunità subsahariana e migrante presente in Tunisia. Da quando il presidente Saied ha pronunciato quel duro discorso infatti le autorità locali si sono rese protagoniste di sgomberi verso El Amra dove hanno cominciato a formarsi accampamenti informali. Oggi è molto complicato stimare quante persone vivano in una situazione che da più parti è stata definita «orribile». Si passa dalle 25 alle 100mila persone accampate tra gli ulivi di Sfax, senza accesso a cure mediche, acqua potabile e cibo. 

Alcuni accampamenti informali che hanno iniziato a formarsi dopo il discorso del presidente tunisino Saied contro la comunità subsahariana nel 2023

È all’interno di questo contesto che i finanziamenti dell’Unione Europea giocano un ruolo di primo piano. Le istituzioni di Bruxelles non hanno mai smesso di appoggiare il regime di Kais Saied e i corpi del ministero degli interni che operano in ambito migratorio, la polizia e la Garde nationale. Valigia Blu ha potuto ricostruire il valore economico di questi programmi. A ottobre 2023 Bruxelles aveva all’attivo 144 milioni di euro dedicati alla sicurezza e al rafforzamento dei confini tunisini, a cui si devono aggiungere 105 milioni di euro legati al Memorandum of Understanding firmato a Tunisi il 16 luglio 2023 destinati al fenomeno migratorio.

Sono numeri che in termini pratici si traducono in forniture, donazioni di mezzi terrestri e navali, sistemi di controllo e corsi di formazione agli agenti di sicurezza per operare sul territorio rispettando i diritti umani. L’inchiesta di The Guardian ha svelato che tutto ciò non è vero, anzi. L’aumento dei casi di violenza provenienti dalla Tunisia è coinciso con un impegno sempre maggiore da parte dell’Unione Europea ad appoggiare il piccolo Stato nordafricano nel contrasto all’immigrazione irregolare. Nonostante da Bruxelles ci sia stato un impegno formale nel verificare con una missione sul campo le accuse rivolte alle forze di sicurezza tunisine, agli occhi dell’Europa il prezzo da pagare per vedere ridotte le partenze dalla sponda sud del Mediterraneo a oggi sembra necessario. 

All’interno di un contesto nazionale dove i casi di violenze quotidiane e stupri nei confronti di soggetti vulnerabili sembrano indicare che il rispetto per i diritti umani e la dignità della persona non sono elementi da prendere in considerazione, ci sono altri due aspetti da segnalare. Dal luglio 2023 sono sempre più frequenti i casi di espulsioni di massa di migranti subsahariani verso i confini con l’Algeria e la Libia. Un fenomeno che è stato documentato dall’inchiesta internazionale Desert Dumps, coordinata da Lighthouse Report. IrpiMedia ha curato la parte italiana e le storie che emergono legano direttamente la sofferenza delle persone ai finanziamenti europei che nel corso degli anni hanno toccato le autorità tunisine.

Un accampamento informale di richiedenti asilo e migranti in attesa del rimpatrio volontario di fronte all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni a Tunisi. L’area è stata evacuato dalle autorità tunisine nel maggio 2024 – Foto di Giovanni Culmone

«Ci hanno detto: “Laggiù c’è l’Algeria, seguite la luce”. “Se vi vedono qui, vi sparano”. Abbiamo iniziato a camminare. A un certo punto ci siamo trovati di fronte a colpi di avvertimento da parte algerina». Anche François è un nome di fantasia e la sua vicenda personale assomiglia drammaticamente a quelle di altre migliaia di persone di fatto intrappolate in Tunisia. Tra il settembre e dicembre 2023 ha provato a raggiungere l’Italia quattro volte senza riuscirci. Al terzo tentativo di traversata, prima è stato intercettato in mare dalla Garde nationale e successivamente  arrestato ed espulso al confine con l’Algeria: «Le cose andavano sempre peggio. Cercavo di pensare: cosa farò con il bambino, con mia moglie, come farò a tornare in Tunisia?», è il racconto di François. 

Nelle operazioni securitarie di questo tipo l’inchiesta Desert Dumps ha documentato l’utilizzo di vetture, imbarcazioni e motori che sono stati donati dall’Unione europea e dai singoli Stati membri, inclusa l’Italia. Sono operazioni cominciate qualche giorno prima della firma del Memorandum of Understanding al palazzo presidenziale di Tunisi alla presenza della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, la premier italiana Giorgia Melone e l’ex primo ministro dei Paesi Bassi Mark Rutte. 

«Abbiamo avuto molti casi di donne violentate nel deserto», sono le parole di un’organizzazione locale che opera a Sfax, citata da The Guardian, la quale stima che 9 donne su 10 arrestate nei pressi della città tunisina abbiano subito violenza sessuale. Nonostante i numerosi casi di violazione documentati, solo recentemente l’Unione Europea è parsa voler dare seguito a delle preoccupazioni che da tempo aleggiano sulla Tunisia. Interrogata sul tema qualche settimana prima dell’inchiesta di The Guardian, una portavoce della Commissione Europea ha risposto a Valigia Blu che «l’UE monitora i suoi programmi attraverso diversi strumenti, tra cui relazioni periodiche dei partner, valutazioni esterne, missioni di verifica e monitoraggi. Il rafforzamento delle capacità delle autorità tunisine finanziato dall’UE, comprese le attrezzature e la formazione, viene fornito esclusivamente per gli scopi definiti nei programmi finanziati dall’UE, nel pieno rispetto del diritto internazionale».

Il secondo aspetto da sottolineare nel drammatico scenario che riguarda Sfax e le politiche migratorie sull’asse Bruxelles-Tunisi sono le intercettazioni in mare. A fine aprile di quest'anno la Garde nationale, il corpo securitario del ministero degli Interni incaricato di occuparsi dei confini marittimi tunisini, ha comunicato di avere «intercettato o soccorso» più di 21mila persone in un trend sempre più crescente: erano 14mila in totale nel 2020; 20mila nel 2021; 33mila nel 2022 e 96mila nel 2023. L’aumento delle capacità d’intervento delle autorità tunisine è stato reso possibile grazie all’impegno sempre maggiore da parte dell’Unione Europea e dei singoli Stati membri nel fornire e accompagnare la formazione delle persone.

L’altro lato della medaglia è che questo tipo di operazioni d’intercettazione ha causato la morte di persone migranti, in particolare subsahariani. L’ong Alarm Phone, un progetto che si occupa di fornire supporto alle persone in difficoltà che attraversano il Mediterraneo, all’indomani dell’istituzione della zona di ricerca e salvataggio in Tunisia ha pubblicato Mare interrotto, una raccolta di 14 testimonianze che dal 2021 al 2023 raccontano sia i naufragi causati dalla Garde nationale sia il tipo di operazioni illegali compiute in mare delle autorità tunisine, in particolare nel tratto che da Sfax arriva a nord fino alla città di Mahdia e si estende fino alle isole Kerkennah: speronamenti volontari, furti di motori, accerchiamenti pericolosi che causano onde alte e l’instabilità delle precarie imbarcazioni in ferro utilizzate per la traversata, lancio di gas lacrimogeni, pestaggi con bastoni e mazze d’acciaio. È nei racconti e nelle testimonianze di chi sopravvive alle intercettazioni la chiave per interpretare e conoscere il volto più violento della Garde nationale, immortalato anche da numerosi video che circolano sui social network.

Valigia Blu in particolare ha potuto ricostruire il caso di un naufragio causato dalle forze di sicurezza della Tunisia che risale allo scorso 6 aprile. Tutto parte da un’immagine satellitare – elaborata da Placemarks, progetto che analizza le immagini satellitari per evidenziare i cambiamenti ambientali, sociali e territoriali in corso nel continente africano – scattata la mattina del 6 aprile scorso del porto di Sfax che mostra circa 100 persone sdraiate o sedute lungo la banchina, di fronte ad alcune imbarcazioni della Garde nationale. Sono controllate a vista dalle autorità locali. Tra quelle persone ci sono Ousman, Kominata e Ibrahim. Sono tutti nomi di fantasia e anche la loro localizzazione non può essere rivelata per ragioni di sicurezza. Tuttavia grazie alle loro testimonianze è stato possibile definire le responsabilità della Garde nationale in un naufragio che ha causato la morte di almeno 15 persone che ora hanno un nome e un’identità precisa  grazie anche allo sforzo di diverse associazioni che si sono mobilitate fin da subito: Refugees in Libya, Mem.Med-Memorie mediterranee e J&L Project.

Il porto di Sfax il 18 marzo 2024. La presenza di un grosso autobus articolato, nella parte destra della foto, fa ipotizzare che la Garde Nationale stia organizzando l’espulsione dei migranti che si vedono in fila.

«Per tutta la notte le persone sono rimaste distese senza vestiti, cibo e acqua». Le prime parole sono di Ousman, originario del Gambia, che ha raccontato in tempo reale a Valigia Blu ciò che è successo quella mattina, dall’arrivo a Sfax fino all’espulsione nei pressi di Nalut, in Libia. Prima di interrompere le comunicazioni perché «sono venuti a prenderci», Ousman ha raccontato che la sera del 5 aprile sono stati quattro i gruppi partiti in momenti diversi dalle coste di Sfax per un totale di quasi 200 persone. Secondo le testimonianze raccolte in prima persona, i primi tre sono stati intercettati dalla Garde nationale, mentre l’ultimo «ha fatto naufragio e so che ci sono stati 13 morti». Un dato parzialmente confermato dalle stesse autorità che qualche giorno dopo hanno diramato un comunicato su Facebook elogiando le attività in mare di quel weekend di inizio aprile: «Nell’ambito della lotta al fenomeno della migrazione irregolare, nel fine settimana le unità galleggianti della Garde nationale sono riuscite a sventare 85 attraversamenti illegali delle frontiere marittime, a soccorrere e salvare 2.688 persone (2.640 africani subsahariani e 48 tunisini) e a recuperare 13 cadaveri».

Un mezzo della Garde nationale parcheggiato di fronte alla caserma del porto di La Louza. Sullo sfondo un murales che invita le persone a non tentare la traversata per l’Europa - Foto di Giovanni Culmone

«Non ho mai visto una barca colpirne un’altra volontariamente. Avevo sentito molte storie a riguardo ma è la prima volta che lo posso testimoniare con i miei occhi. Quella notte ho perso mia sorella, i miei nipoti e la moglie di mio fratello». Questa volta è Ibrahim a prendere la parola. Originario della Sierra Leone, non conosceva Ousman ma molto probabilmente si sono visti al porto di Sfax quella notte. Era a bordo dell’ultimo gruppo di 42 persone partite la sera del 5 aprile ed è uno dei testimoni oculari della strage. Il suo racconto, insieme a quello di altri sopravvissuti, è centrale per ripercorrere cos’è successo quella notte.

È da poco tramontato il sole quando 21 uomini, 13 donne e otto minori a bordo di un barchino in ferro lungo neanche otto metri lascia la costa di El Amra. Dopo pochi istanti, diversi gas lacrimogeni cadono ai lati o entrano a bordo del mezzo. Sono le forze dell’ordine tunisine che dalla costa stanno cercando di impedire la partenza dei migranti. Brevi attimi di panico che sembrano ormai alle spalle quando la costa con il passare dei minuti diventa sempre più piccola. Dopo un altro tratto di navigazione la situazione precipita. Due gommoni neri della Garde nationale tunisina raggiungono le 42 persone ed effettuano alcuni giri attorno all’imbarcazione generando un deciso moto ondoso.

Il barchino comincia a destabilizzarsi, c’è chi implora i guardacoste di essere lasciati andare, chi si alza in piedi mostrando i minori presenti nella barca per pregare di non essere attaccati violentemente. Le richieste si rivelano inutili. Uno dei gommoni neri comincia a speronare la poppa dell’imbarcazione, l’uomo a bordo con una mazza di ferro colpisce le persone e tenta di rubare i motori, una pratica molto diffusa nelle operazioni di intercettazione. Un’azione che viene ripetuta almeno cinque volte e porta la piccola imbarcazione a rompersi. Nel giro di pochi minuti la barca si riempie di acqua e affonda. In un attimo si ritrovano tutti in mare aperto. La maggior parte di loro non sa nuotare.

I due gommoni della Garde nationale sono ormai lontani decine di metri. L’equipaggio, due persone per ogni imbarcazione, decide di lanciare delle corde e poi riprendere con i telefoni quello che succede. Lo scenario è tragico: chi riesce a raggiungere le cime, si aggrappa e sale sui gommoni, in ogni caso troppo piccoli per ospitare 42 persone; chi non ce la fa a nuotare annega. Successivamente altre imbarcazioni delle autorità tunisine raggiungono i gommoni neri per prestare soccorso ai naufraghi: arrivano altri due gommoni bianchi, due imbarcazioni di media lunghezza e due navi da 35 metri, donate dall’Italia nel 2014. Alla fine il bilancio dei morti che Valigia Blu ha potuto verificare è di 15 persone, anche se la versione di Ibrahim è differente: «In realtà siamo sopravvissuti solo in 18, tra cui un bambino di sette anni che ho aiutato a salire sul gommone. Quando siamo arrivati nel porto ho chiesto ai guardacoste se potevamo fare delle foto ai corpi per mandarle alle nostre famiglie e informarle della loro morte. Mi hanno solo risposto “no”».

Parenti, amici, madri, mariti e mogli. È nelle testimonianze che si nasconde il dolore di chi in questi naufragi nel giro di pochi minuti perde una parte fondamentale della propria esistenza. Kominata è incinta di cinque mesi, anche lei originaria della Sierra Leone. Ancora oggi non riesce a capacitarsi di quello che è successo: «Sono rimasta in mare quasi un’ora prima che qualcuno mi aiutasse. Quando sono riuscita ad aggrapparmi alla corda nessuno ha tirato per salvarmi. Intanto le persone annegavano. Io non ho più trovato mio marito e la maggior parte dei bambini è morta. Ora sono da sola e incinta».

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Nell'immagine satellitare le due motovedette donate dall'Italia

Nelle operazioni che hanno causato il naufragio del 5 aprile potrebbero essere stati utilizzati due gommoni neri forniti dalla Germania, diverse imbarcazioni che dispongono di radar provenienti da programmi europei e due imbarcazioni da 35 metri donate dall’Italia nel 2014 e rimesse in efficienza negli anni successivi dal Cantiere Navale Vittoria nel porto di Adria, all’interno del programma del ministero degli affari esteri Support to Tunisia’s border control and management of migration flows. Si tratta di un fondo da 34 milioni di euro che prevede anche la futura fornitura di sette motovedette da undici metri e che dimostra quanto sia prioritaria oggi la Tunisia per l’Italia, almeno in ambito migratorio. «Se non stai salvando le persone, almeno non distruggere le loro vite», è invece l’amara conclusione di Ibrahim.

*La ricerca delle immagini satellitari è stata possibile grazie al sostegno di Journalismfund Europe

Immagine in anteprima: Barchini in ferro usati dai migranti subsahariani per la traversata ammassati nel porto di La Louza, ottobre 2023 – foto di Giovanni Culmone

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