La Tunisia e la democrazia in crisi
9 min letturaOtto mesi e un giorno. È quanto ha impiegato il presidente della Repubblica tunisina, Kais Saied, per porre fine al processo di transizione democratica in corso da undici anni, da quando il 25 luglio 2021 ha assunto i pieni poteri per fare fronte alla lunga crisi politica, economica e sociale che sta interessando da tempo la Tunisia.
In questi otto mesi, Saied ha sciolto un governo, ha dissolto in maniera definitiva il Parlamento, ha smantellato il Consiglio superiore della magistratura e organizzato nuove elezioni per il 17 dicembre 2022 che hanno già sollevato più di un dubbio procedurale. Mosse e decisioni che gli sono valsi accostamenti con alcune esperienze vicine a livello geografico, Egitto in primis, e politico (non sono mancati gli appellativi di “nuovo al-Sisi”).
La questione è più complessa di così e tocca vari livelli, sia di origine interna che di legittimazione esterna. Ce n’è uno politico che riguarda la sfiducia dei tunisini nei confronti della classe politica pre 25 luglio e che porta l’attenzione sul grande consenso di cui gode ancora oggi Kais Saied. Ce n’è un altro di stampo economico, con una crisi pluridecennale e il deterioramento evidente delle condizioni sociali della popolazione.
Sul lato politico, quello che è successo lo scorso 25 luglio non è casuale. Dopo avere applicato l’articolo 80 della costituzione per imporre misure eccezionali al paese e “salvarlo” da una crisi che sembrava insuperabile, il presidente della Repubblica ha smantellato di fatto tutte le istituzioni democratiche uscite dalla cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini del 2011, in ordine cronologico: scioglimento del governo e congelamento del parlamento (25 luglio); prolungamento delle misure eccezionali sine die oltre i limiti previsti dalla costituzione tunisina (24 agosto); emanazione del decreto presidenziale n° 117 per dotarsi del potere esecutivo e legislativo sospendendo il testo costituzionale del 2014 (22 settembre); nomina del governo di Najla Bouden Romdhane, prima donna premier del mondo arabo ma i cui poteri sono sottomessi al ruolo del Presidente (29 settembre); definizione delle nuove scadenze elettorali, con un nuovo referendum costituzionale previsto per il 25 luglio 2022 e le elezioni presidenziali e legislative il prossimo 17 dicembre (13 dicembre); dissoluzione del Consiglio superiore della magistratura (6 febbraio); scioglimento dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo (30 marzo).
Mettere in fila gli ultimi otto mesi istituzionali della Tunisia permette innanzitutto di capire le reali intenzioni di Saied, restio a parlare alla stampa e abituato a esprimersi attraverso comunicati via social network. Il presidente della Repubblica rigetta completamente l’ordine costituzionale post 2011 a favore di una connessione più stretta tra il potere centrale e le collettività locali. «Saied vuole un nuovo regime dove il parlamento avrà un ruolo marginale, la dissoluzione dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo si iscrive in un processo di cambio di costituzione e regime», afferma il politologo e islamologo Vincent Geisser. Kais Saied, docente di diritto costituzionale, ha spesso affermato di volere azzerare i corpi intermedi tra Cartagine (dove si trova la residenza del presidente) e la popolazione prendendo spesso spunto dal concetto di democrazia diretta.
Gli scontri tra i tre rami istituzionali, presidenza della Repubblica da una parte, governo e parlamento dall’altra, hanno permesso a Saied di velocizzare il processo di accaparramento del potere. Prima del colpo di forza della scorsa estate, il locatario di Cartagine si è spesso scontrato con il governo di Hichem Mechichi e il presidente del parlamento Rached Ghannouchi, leader storico del partito di ispirazione islamica Ennahda. Una situazione che ha portato a una situazione esplosiva fatta di accuse reciproche, colpi di Stato paventati e intrighi di palazzo. A quel punto a metà 2021, con una situazione sanitaria di COVID-19 catastrofica, una crisi economica galoppante e uno stallo politico evidente, Saied ha giocato le sue carte scommettendo tutto su se stesso. Il grande sconfitto di questa nuova fase istituzionale è Ennahda. Dal 2011, anno dell’inizio del processo di transizione democratica dopo la cacciata del despota Zine El-Abidine Ben Ali, il movimento islamico ha assunto un ruolo di primo piano nella politica tunisina partecipando a svariati governi e monopolizzando le attività del parlamento, il cui presidente era proprio Rached Ghannouchi, il grande oppositore di Ben Ali prima della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini e di Kais Saied oggi. L’ultimo scontro in ordine di tempo è avvenuto il 30 marzo scorso quando la storica guida del movimento islamico con altri 116 deputati ha votato in una plenaria discussa online la sfiducia alle misure eccezionali imposte da Saied la scorsa estate. Non tutti erano di Ennahda. Come Majdi Karbai, parlamentare eletto nella circoscrizione italiana e membro del partito Courant démocrate: «Il “presidente”, lo dico tra virgolette perché non lo considero un presidente in quanto è uscito dalla sua legittimità, ha visto questa seduta come una minaccia nei suoi confronti, sul suo programma e sul regime che vuole instaurare in Tunisia. Dopo il 30 marzo siamo accusati di cospirazione contro lo Stato, stanno convocando i parlamentari davanti al polo antiterrorismo. Questo è quello che faceva Ben Ali, accusava i suoi oppositori di terrorismo. Ora vuole dire che il rischio è la pena di morte. Non la sottostimo perché Saied è a favore di questa misura».
La reazione del presidente è stata brutale. Un’inquietudine che è aumentata anche dopo il fallimento della consultazione online promossa dallo stesso Saied con cui ha coinvolto la popolazione nella scrittura della prossima costituzione (ha partecipato poco meno del 10% degli aventi diritto). Dopo essere rimasta congelata per otto mesi, il docente di diritto costituzionale ha sciolto definitivamente l’Assemblea dei rappresentanti del popolo facendo riferimento all’art. 72 della costituzione: «Il presidente della Repubblica è il capo dello Stato e il simbolo della sua unità. Garantisce la sua indipendenza, la sua continuità e vigila sul rispetto della costituzione». Un testo che di fatto non è più in vigore dal 22 settembre 2021, giorno in cui Saied ha esplicitamente assunto i pieni poteri in Tunisia.
Lo scioglimento del parlamento, oltre a non avere stupito nessun attore della società civile, ha un doppio significato: da una parte sancisce e certifica la volontà della presidenza di proseguire la rotta verso un nuovo regime politico; dall’altra mette definitivamente all’angolo Ennahda, partito già logorato da undici anni di governo, in forte calo di consensi e ritenuto dai tunisini il primo responsabile dello stallo politico nel paese e del grave deterioramento delle condizioni economiche e sociali.
Ma Saied non si è fermato qui. Da otto mesi ha fatto un ricorso massiccio ai tribunali militari per processare attivisti, politici e uomini delle istituzioni che hanno espresso criticità e dubbi sul nuovo indirizzo istituzionale. «Una delle preoccupazioni più grandi che abbiamo gira attorno all’aumento dell’apparato di sicurezza che sembra evidente - afferma Antonio Manganella, direttore regionale euro-mediterraneo di Avocats Sans Frontières (ASF) - quando abbiamo scoperto del 25 luglio, abbiamo subito capito che chi supportava questo colpo di arresto alla transizione democratica non era soltanto l'esercito ma erano anche i sindacati di polizia. La nostra paura è che un soggetto di questa grandezza possa avere mani dappertutto nel paese. In più dal 2011 il ministero dell’Interno non è mai stato riformato».
Allo stesso tempo sulla Tunisia aleggia una nuova legge sulle associazioni per bloccare e controllare eventuali finanziamenti esteri sospetti. Il progetto di legge non è ancora stato pubblicato dal governo ma da più parti è emersa la volontà del presidente di mettere pesantemente mano alla società civile, perno indissolubile del post 2011. «In Tunisia la società civile ha giocato un ruolo fondamentale nel preservare le conquiste costituzionali, la politica sa che è l’unico vero contropotere reale. Ci sono delle proposte che sono uscite, il testo che abbiamo ricevuto complicherebbe il nostro lavoro con la possibilità di chiudere in maniera amministrativa delle associazioni, lasciando di fatto una decisione del genere in mano a dei funzionari e non alla giustizia», conclude Antonio Manganella.
Tuttavia il vero cavallo di Troia su cui si giocherà la stabilità della Tunisia da qui ai prossimi mesi resta la questione economica, il vero problema che tocca gli interessi reali dei suoi abitanti. Più delle questioni politiche interne. In crisi strutturale dal dopo Rivoluzione, i dati macroeconomici sembrerebbero non lasciare scampo al paese: inflazione al 7,2%, un tasso di disoccupazione reale che tocca più di 760mila persone su un totale di 12 milioni di abitanti e una legge di bilancio per il 2022 chiusa con un finanziamento previsto di 18 miliardi di dinari (circa 6 miliardi di euro) su un budget totale dello Stato di 50 miliardi. Una somma che dev’essere raggiunta attraverso la negoziazione di prestiti, a partire dai 4 miliardi di dollari in discussione con il Fondo monetario internazionale, come spiega Amine Bouzaïene dell’osservatorio democratico Al Bawsala: « Ci sono tre soluzioni per il finanziamento esterno a favore della Tunisia. La prima prevede un prestito con altri paesi attraverso accordi bilaterali, che sia Unione europea o i paesi del Golfo. La seconda è un ricorso ai mercati finanziari, in questo caso le agenzie di debito stanno declassando il rating della Tunisia e questo porta a un aumento dei tassi di interesse. La terza sono i prestiti multilaterali dove torna il discorso legato all’FMI ».
Lo stesso Fondo monetario internazionale ha posto condizioni molto severe per concedere un suo finanziamento, a partire dalla cancellazione dei sussidi ai beni di prima necessità, il blocco delle assunzioni nel settore pubblico e il congelamento dei salari: «La Tunisia è in crisi strutturale da 35 anni - conclude Bouzaïene - la questione ora è se ci sarà un aggravamento dell’austerità dettate dalle condizioni dell’FMI. In questo primo trimestre stiamo vedendo un aumento dell’inflazione dei prodotti di prima necessità, una crisi maggiore ce l’abbiamo sui cereali visto che dipendiamo in maniera importante da Ucraina e Russia. Il Fondo monetario internazionale prevede di togliere le sovvenzioni sui prodotti, la Tunisia ha un sistema di convenzioni che sono in vigore dagli anni ‘60 e che fa in modo che lo Stato controlli i prezzi degli idrocarburi o di certi prodotti alimentari di base, sono sovvenzioni sociali. L’ordine del giorno con l’Fmi prevede che nei prossimi 4-5 anni verranno tolte queste sovvenzioni. Tradotto: forte inflazione per i prodotti e una situazione sociale esplosiva».
Quello che non si riesce a notare con i soli numeri lo si vede nella quotidianità. Il conflitto in corso in Ucraina, l’aumento dell’inflazione e i timori legati alla possibile cancellazione dei sussidi statali hanno inciso enormemente sulle scelte dei tunisini. Nei supermercati legati alla grande distribuzione e nelle panetterie di Tunisi e del paese sono cominciati a mancare farina, pasta, uova, zucchero e semola. Un ruolo è stato giocato dai grandi speculatori che hanno cominciato a lucrare sui prezzi di questi beni. Saied ha risposto dichiarando guerra aperta, a fianco dell’altro dossier a lui più caro: la corruzione, il vero cancro economico della Tunisia.
Di fronte a una situazione sull’orlo del baratro, il responsabile di Cartagine sta provando a legittimarsi agli occhi dei suoi grandi partner internazionali. A est con i paesi del Golfo, a Nord con l’Unione Europea. Non è un caso che dopo la visita del 29 marzo in Tunisia di Olivér Várhelyi, il commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato, che si è detto «pronto a mobilitare circa 4 miliardi di euro in investimenti e per rilanciare la crescita economica e i posti di lavoro nel paese», Saied abbia risposto che «La Tunisia è legata ai valori della democrazia, della libertà e dei diritti dell’uomo».
Economia e politica. Due facce della stessa medaglia tunisina che non possono essere distinte. Il presidente della Repubblica ha deciso di porre fine alla transizione democratica per salvare il paese da un default annunciato, giocando su carenze istituzionali (in Tunisia non è mai stata creata una Corte Costituzionale indipendente che la tutelasse da eventuali rischi autoritari) e sul senso di stanchezza dei tunisini che da tempo non vedevano più nelle istituzioni pre 25 luglio una soluzione ai loro problemi. Oggi resta da capire se la scommessa di Saied avrà successo, essendo rimasto da solo a governare l’intero paese: «La Tunisia oggi non è quella di Ben Ali - afferma Vincent Geisser - Ci sono manifestazioni, le persone sono abituate a protestare e difendere i propri diritti, una grande parte della popolazione lo sostiene ma allo stesso tempo ci sono delle forzature, diventare il nuovo Ben Ali è difficile, probabilmente ci sarà un nuovo autoritarismo ma con degli spazi di contestazione che non può controllare in un contesto dove il sociale e l’economia sono a pezzi. Il presidente fa appello alla democrazia, scioglie le grandi istituzioni ma ora si trova da solo, una volta c’era comunque un partito unico e la mediazione di certi uomini politici, oggi è sempre più solo, l’unico modo di conservare il potere è appoggiarsi all’apparato securitario».
Immagine in anteprima di Matteo Garavoglia