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Crisi alimentare, Tunisia al bivio: dare i terreni ai piccoli contadini o alle produzioni intensive di aziende straniere?

25 Luglio 2022 8 min lettura

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Crisi alimentare, Tunisia al bivio: dare i terreni ai piccoli contadini o alle produzioni intensive di aziende straniere?

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“Reclamiamo l'uguaglianza nei prezzi tra grano ucraino e grano tunisino”, recita uno striscione esposto sul rimorchio di un trattore. A firmarlo, è l’“Unione dei contadini arrabbiati”. È maggio 2021 e la strada che collega la regione di Jendouba a quella di Sidi Bouzid, cuore agricolo della Tunisia, è bloccata da una fila di mietitrebbie e un gruppo di contadini in protesta. Produrre grano, raccontano, non conviene più: i prezzi di fertilizzanti, pesticidi, semi e trasporto continuano ad alzarsi, ma non il prezzo di vendita. Nel paese nordafricano, i cereali prodotti localmente hanno un’unica destinazione: i silos dell’Ufficio dei Cereali, che detiene il monopolio di esportazioni e importazioni. È quest’ufficio pubblico, quindi, a stabilire il prezzo al quale lo Stato è disposto ad acquistare i cereali sul mercato interno, prezzo che un anno fa si aggirava intorno a poco più di 30 euro al quintale per grano tenero e grano duro. Un prezzo così basso da essere inferiore a quello del grano ucraino, comunque (all’epoca) tra i più convenienti sul mercato internazionale. “Pagarci di più vuol dire permettere agli agricoltori di sostenere i costi e incoraggiare la produzione interna, quindi importare di meno”, spiegava Haithem Chamachi, un agricoltore della città di Beja, città del Nord-Ovest della Tunisia.

Dell’insostenibilità della filiera dei cereali, in Nord Africa si discute da ben prima della guerra in Ucraina. In Tunisia, lontano dalle telecamere puntate sulle vie del centro della capitale, le campagne non hanno mai smesso di manifestare. La rivoluzione del 2011 stessa ha avuto inizio nella regione agricola di Sidi Bouzid, dove ad autoimmolarsi è stato un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, privato dei terreni familiari espropriati da un grande investitore della città di Sfax, ricodano Habib Ayeb e Ray Bush nel loro libro Food Insecurity and Revolution in the Middle East and North Africa (Anthem Press). Da allora, per undici anni gli agricoltori hanno bloccato le strade dell’entroterra del paese contestando le politiche agricole e la malagestione delle risorse, a partire dall’accesso all’acqua. Solo di fronte al rischio dell’attuale penuria di grano, però, le rivendicazioni dei territori sono tornate al centro. Governo, cooperazione internazionale e istituzioni finanziarie hanno iniziato a prendere in considerazione la possibilità di riservare una parte della produzione agricola locale al mercato interno, e non alle esportazioni.

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Termini come autoproduzione o sovranità alimentare, rimasti confinati nelle assemblee della società civile, sono tornati sulla bocca degli stessi attori nazionali e internazionali che, dagli anni ‘80 a oggi, hanno contribuito a rimodellare l’agricoltura del paese nordafricano promuovendo la liberalizzazione del settore agricolo. Oggi la Tunisia, infatti, produce essenzialmente per l’export e non per il mercato interno. A fornire i mercati tunisini rimangono gli agricoltori locali, che sono sempre meno: solo nel 2018, in 12.000 hanno cambiato attività secondo i dati dell’Unione tunisina dell’Agricoltura e della Pesca (UTAP). Nel frattempo, buona parte delle superfici coltivate sono state riconvertite in monoculture. Olio d’oliva, pomodori, arance, datteri e quella frutta e verdura che compriamo “fuori stagione” lasciano regolarmente i porti tunisini per raggiungere quelli europei, essendo l’UE il primo mercato di esportazione del paese nordafricano. Una produzione agricola orientata verso l’esportazione punta su grandi quantità e prezzi molto convenienti. A raccogliere la frutta e la verdura tunisina, sono le mani delle lavoratrici stagionali, donne per la maggior parte, che spesso si incrociano per le strade del paese ammassate sui cassoni dei camion del caporale. Il passaggio dalla produzione locale alla monocultura ha creato una classe operaia precaria, che popola oggi le campagne o le periferie delle grandi città.

L’attuale crisi del pane, allora, è lo specchio in cui si riflettono le conseguenze di le politiche agricole decennali portate avanti a partire dagli anni ‘70-’80, comuni a diversi paesi del Sud del Mediterraneo. La Tunisia importa cereali non perché non è in grado di produrne. Al contrario, le condizioni climatiche di un paese citato sui nostri libri di storia come “il granaio di Roma” sono favorevoli alla produzione di grano e orzo, che vengono coltivati e rivenduti sul mercato internazionale. La Tunisia esporta la farina macinata nel paese verso Benin, Burkina Faso e Qatar. Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale dell’Agricoltura (ONAGRI), però, importa ormai più cereali di quanti ne produce. Il coefficiente di dipendenza dall’estero per i cereali ha raggiunto il 60% nel 2021, mentre era del 29% nel 2009. La metà delle importazioni di grano nel paese (essenzialmente grano tenero) provenivano dall’Ucraina. Le bombe russe sui campi di uno dei maggiori granai mondiali hanno fatto inceppare il meccanismo import-export nel Mediterraneo, costringendo la Tunisia e altri paesi dell’area MENA dipendenti dalle importazioni ucraine a cercare nuovi Stati esportatori. Gli ultimi carichi arrivati nel paese nordafricano provengono da Romania, Bulgaria e Russia.

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Ma il rischio di una penuria di cereali in Nord Africa dipende solo in parte dal fornitore. Se anche i carichi di grano ucraino potessero lasciare il porto di Odessa, la Tunisia avrebbe comunque enormi difficoltà a pagarli. Le recenti operazioni di speculazione e il conseguente aumento esponenziale dei prezzi del grano sul mercato internazionale (oggi a più di 430 euro a tonnellata) hanno messo in ginocchio un’economia già fragilizzata dalla crisi dovuta alla pandemia da Covid-19. Da inizio 2020, il paese nordafricano attraversa la peggiore crisi economica dall’indipendenza nel ‘56. Nel 2021, è stato declassato da tutte le principali agenzie di rating internazionali e compare oggi sulla lista dei paesi in difficoltà ad onorare i propri impegni finanziari, quindi a rischio default. Perché la merce importata possa entrare nel paese, quindi, la Tunisia deve poter assicurare il pagamento anticipato. Pagamento che, con prezzi così alti, le casse dello Stato non sono più in grado di sostenere. Ecco perché, da novembre 2021, quando la curva del prezzo dei cereali ha iniziato a impennarsi, numerose navi cargo cariche di grano sono rimaste bloccate per settimane di fronte ai porti commerciali tunisini senza poter sbarcare: lo Stato non disponeva della liquidità sufficiente per pagare in anticipo i carichi. In più, “ogni giorno di attesa in mare di una nave cargo costa allo Stato tra i dieci e venti mila dollari”, commentava ai microfoni di una radio locale il segretario generale del sindacato di base dell’Ufficio dei cereali di Sfax, Adel Marzouk.

Come in Libano, dove la misura è ancora in attesa dell’approvazione del neoeletto parlamento, in Tunisia è intervenuta la Banca Mondiale. Nel tentativo di evitare una crisi del pane, questa ha concesso un prestito d’urgenza del valore di 130 milioni di dollari con l’obiettivo di “ridurre l’impatto della guerra in Ucraina, finanziando le importazioni di grano tenero, le importazioni di orzo per la produzione casearia e le sementi per la prossima stagione di semina”. Proprio grazie ai fondi della Banca Mondiale, la Tunisia sarebbe recentemente riuscita a sbloccare le navi cariche di grano rimaste bloccate di fronte al porto di Rades, evitando una nuova penuria di farina durante la festività dell’Aïd al-adha, il 9 luglio. Nei supermercati intanto continuano a mancare zucchero e riso, mentre il prezzo dell’olio di semi è esploso: da appena 3 dinari (1 euro) all’inizio del 2022, il litro supera ormai i 30 dinari. Tra inflazione e speculazione, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari non sovvenzionati, il cui prezzo varia perché non fissato dallo Stato, fa tremare il paese. Durante queste settimane, il Fondo Monetario Internazionale ha rilasciato una nota confermando che sono in corso negoziati con il governo tunisino, che ha bisogno di fondi per evitare il default. In cambio di una nuova tranche di finanziamenti, però, l’FMI pretende l’eliminazione delle ultime sovvenzioni pubbliche a generi alimentari di prima necessità come semola, pane e farina. “Non trovare il pane o trovarlo a un prezzo inaccessibile non fa differenza”, commenta Marwa, lavoratrice di un quartiere popolare di Tunisi. La baguette è uno degli ultimi alimenti venduti a un prezzo molto basso, 200 millesimi di dinaro, uno dei pochi rimasti accessibili per le classi sociali più precarie.

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Prestiti d’urgenza come quello concesso dalla Banca Mondiale tamponano la situazione ed eviteranno nuove penurie di farina e pane in autunno. Le riforme che li accompagnano, però, non fanno che portare avanti quei meccanismi perversi, ormai divenuti strutturali, che hanno reso la Tunisia incapace di fronteggiare l’attuale crisi del grano. Meccanismi che la società civile chiede di scardinare, accusando il governo e le stesse istituzioni finanziarie internazionali a cui oggi il paese si rivolge di aver ceduto i terreni fertili all’agrobusiness. Il 20 giugno, per esempio, poco prima della conferma da parte dell’FMI di un futuro accordo con la Tunisia, il ministero dell’Agricoltura ha annunciato di aver rimosso il limite massimo di partecipazione straniera al capitale delle aziende agricole, fissato al 65%. Questo significa che per un investitore straniero è ormai possibile possedere al 100% un’azienda agricola in Tunisia e decidere quindi in che modo coltivare e commerciare i propri prodotti. “Un altro attacco alla sovranità alimentare della Tunisia, ai piccoli agricoltori e ai contadini senza terra", commenta il ricercatore e giornalista tunisino Fadil Aliriza.

Nel paese, infatti, continuano a moltiplicarsi i movimenti delle comunità rurali che rivendicano l’accesso alle risorse locali e ai terreni. Nelle regioni del Nord-Ovest, dove si concentrano le dighe, gli abitanti di numerosi villaggi come quello di Menzel Jemil sono scesi in piazza perché rimasti senz’acqua per i propri campi nonostante abitino accanto alle fonti. Le riserve d’acqua delle loro regioni vengono dirottate verso quelle costiere, per esempio il Cap Bon, per irrigare le colture intensive di agrumi per l’export. A maggio, sempre nel Nord-Ovest del paese, il villaggio di Lasgab è sceso in piazza sventolando la bandiera della Via Campesina - movimento internazionale che riunisce piccoli agricoltori, contadini e lavoratori agricoli - per chiedere di poter tornare a coltivare i terreni collettivi che circondano la cittadina, che un tempo appartenevano alla comunità. Durante il protettorato francese (1881-1956), questi sono finiti nelle mani dello Stato, che ancora oggi, dopo l’indipendenza, ne conserva la gestione. Mai risolta dagli anni ‘60 ad oggi, la questione dei terreni demaniali torna a far discutere nelle aree rurali del paese proprio mentre viene proposto un aumento della produzione interna di cereali. A inizio luglio, il Ministero dell’Agricoltura dichiarava di voler raggiungere l’autosufficienza nella produzione di grano duro a partire dalla prossima stagione, aumentando del 30% le superfici di coltivazione. La Tunisia avrebbe modo di incrementare la produzione interna proprio perché buona parte dei terreni demaniali, pur essendo fertili, sono incolti da decenni. In che modo si ritornerà a coltivarli rimane un punto interrogativo: da un lato piccoli contadini e giovani disoccupati delle regioni dell’entroterra tunisino rivendicano il diritto di riappropriarsi di queste terre e chiedono allo Stato di promuovere un modello di agricoltura alternativo, locale e sostenibile; dall’altro, lo Stato continua a riservare queste terre alla produzione intensiva sotto la spinta delle istituzioni finanziarie da cui dipende. 

Immagine in anteprima: frame video CNN

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