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Il ritorno di Trump: la massima pressione, un nuovo accordo o la guerra con l’Iran?

28 Gennaio 2025 12 min lettura

Il ritorno di Trump: la massima pressione, un nuovo accordo o la guerra con l’Iran?

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La massima pressione, un nuovo accordo o una guerra? Quella guerra contro l’Iran che sembra cercare il premier israeliano Benjamin Netanyahu, pronto ad attaccare le strutture nucleari di Teheran, o il nuovo “deal” cercato già nella sua prima presidenza da Donald Trump, capace di distruggere quello raggiunto dal suo predecessore Obama per poi fallire nell’intento di farne un altro “migliore”, alle proprie condizioni e nella convinzione che per ottenerlo basti continuare con la sua “massima pressione”? È questo il triplice scenario che fronteggia la Repubblica Islamica, dopo il secondo insediamento di “The Donald” alla Casa Bianca. 

Dal primo al secondo Trump: un decennio in poche parole 

Un bivio che si apre dieci anni dopo il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) con cui Teheran aveva accettato di comprimere il suo programma nucleare in cambio di un vasto piano di cooperazione economica con l’Occidente; sette anni dopo che lo stesso Trump era unilateralmente uscito da quell’accordo, imponendo all’Iran quel regime sanzionatorio di “massima pressione” che ha messo economicamente in ginocchio decine di milioni di iraniani ma non, soprattutto politamente, i vertici della Repubblica Islamica; cinque anni dopo l’uccisione a Baghdad del generale Qassem Suleimani, capo delle forze Qods del Corpo dei Guardiani delle Rivoluzione (IRGC) su ordine dello stesso Trump; e cinque anni dopo che - anche in risposta a quell’assassinio extragiudiziale che rinforzò ulteriormente la parte più oltranzista della dirigenza iraniana – Teheran decise per una forte accelerazione della ripresa dell’arricchimento dell’uranio: arricchimento ormai giunto, e in significative quantità, alla pericolosa soglia del 60%, quota vicina a un suo sempre possibile. ma sempre smentito, impiego a scopo militare. E ancora, un anno e mezzo dopo l’attacco terroristico di Hamas del  7 ottobre 2023, che scatenò su Gaza una risposta di Israele devastante per la popolazione civile ma anche una rinnovata offensiva delle milizie filo-iraniane contro Tel Aviv; e pochi mesi dopo l’ultimo degli attacchi missilistici di Israele su obiettivi mirati in territorio iraniano, il 26 ottobre, nell’ambito di una serie di reciproche ritorsioni in cui anche Teheran si era spinta a lanciare centinaia di missili e droni, senza fare troppi danni, in territorio israeliano; e infine poco più di un mese dopo la caduta del presidente Bashar al Assad in Siria, storico alleato cruciale anche per la logistica del sostegno a quella rete di milizie – da Hamas a Gaza a Hezbollah in Libano – alle quali la Repubblica Islamica affida da decenni le proprie strategie militari nella regione, ma ora pesantemente ridimensionate dalle offensive di Tel Aviv di questi ultimi quindici mesi. 

Intanto, sul fronte interno, oltre due anni dopo l’ondata di proteste per la morte di Jina Mahsa Amini, il movimento Donna Vita Libertà porta ancora la fiaccola della resistenza  alle norme, alle prassi e alle ideologie liberticide della Repubblica Islamica. E l’economia continua a essere in profonda crisi: a soli sei mesi dall’insediamento del presidente riformista Masoud Pezeshkian, il rial ha toccato un nuovo record negativo nel cambio con il dollaro (820 mila rial, contro i 600 mila dei giorni del suo insediamento la scorsa estate),  mentre scuole e uffici pubblici chiudono per mancanza di riscaldamento (in un paese  che abbonda di riserve di gas naturale e di petrolio, ma manca di infrastrutture adeguate per distribuirle) e si toccano i peggiori picchi di inquinamento nelle aree urbane. 

Un accordo con Teheran? Trump per ora tasta il terreno

È questo il contesto in cui la Repubblica Islamica guarda al ritorno e all’insediamento di Trump, che da tempo promette un rafforzamento della strategia della “massima pressione” sanzionatoria instaurata nel suo primo mandato – strategia che la presidenza di Joe Biden, nonostante gli intenti dichiarati, ha mantenuto sostanzialmente inalterata, per non aver trovato la strada per ripristinare i precedenti accordi con Teheran. Ma le ultime notizie e indiscrezioni sembrano far pensare che Trump – che pur nella campagna elettorale non aveva escluso attacchi militari sugli impianti nucleari iraniani - intenda esplorare altre vie prima di passare all’atto delle sue minacce. Secondo fonti di stampa sarebbe pronto ad affidare al suo inviato in Medio Oriente, Steve Witkoff, il compito di esplorare la diplomazia con Teheran, e ha detto di sperare in un accordo con l'Iran sul suo programma nucleare. E quando, in un evento alla Casa Bianca, gli è stato chiesto se avrebbe sostenuto un attacco israeliano alle strutture nucleari, ha risposto che “sarebbe davvero bello se si potesse risolvere senza doverci preoccupare”. 

Una parte la stanno svolgendo anche i governi europei che avevano condotto i precedenti negoziati sul nucleare iraniano. Il 13 gennaio alti diplomatici di Francia, Germania, Regno Unito e Unione Europea hanno incontrato a Ginevra i loro omologhi iraniani. E questi avrebbero dichiarato di voler riprendere i colloqui per un nuovo accordo, che necessariamente sarà diverso da quello del 2015 perché le condizioni sono radicalmente mutate. A descriverle è stato il direttore generale dell’AIEA Raphael Grossi, che continua a interloquire con la controparte iraniana, e che registra una preoccupante accelerazione. 

Prima l’Iran produceva ogni mese più o meno sette chilogrammi di uranio arricchito fino al 60%, ha detto Grossi al World Economic Forum di Davos. Ora è sopra i 30 o più. Secondo un parametro di riferimento dell'AIEA, circa 42 chilogrammi di uranio arricchito a quel livello sono sufficienti in linea di principio, se ulteriormente arricchiti, per una bomba nucleare. Grossi ha aggiunto che l'Iran attualmente possiede circa 200 kg di uranio arricchito fino al 60%. Sebbene ci voglia tempo per installare e mettere in funzione nuove centrifughe, ha precisato, "da ora in poi inizieremo a vedere aumenti costanti". Ma anche lui ha parlato della possibilità di un accordo con la nuova presidenza USA.

L'intervento del vicepresidente Zarif a Davos, dove ha parlato anche del velo

Ma a Davos si trovava anche il vicepresidente iraniano per gli affari strategici Javad Zarif, che da ministro degli Esteri del governo Rouhani era stato l’artefice dell’intesa del 2015, tradita da Trump nel 2018. L’Iran spera che questi scelga la "razionalità" nei suoi rapporti con la Repubblica islamica, ha detto l’esponente iraniano. Aggiungendo che Teheran non ha mai cercato di dotarsi di armi nucleari, e non rappresenta una minaccia per la sicurezza mondiale. 

"Spero che questa volta un 'Trump 2' - ha aggiunto - sia più serio, più mirato, più realistico". Ma Zarif ha anche parlato della decisione del governo Pezeshkian di sospendere – attraverso il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale – l’applicazione della nuova severissima legge sull’obbligo del velo. “Se vai per le strade di Teheran, troverai donne che non si coprono i capelli. È contro la legge, ma il governo ha deciso di non mettere sotto pressione le donne", ha sottolineato. Precisando che il presidente non ha "non ha implementato la legge, con il consenso del capo del parlamento, del capo della magistratura e di altri nel Consiglio di sicurezza nazionale". Una decisione per quanto possibile di sistema e non solo del governo, insomma. “Ci stiamo muovendo nella giusta direzione – ha concluso - non è abbastanza, ma è un passo nella giusta direzione".

Affermazioni che come prevedibile hanno scatenato una nuova tempesta da parte degli ultraconservatori (il segretario del Consiglio per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio ne ha addirittura chiesto l’arresto), ma anche critiche dal fronte opposto e dall’opposizione all’estero, da dove si segnala come la situazione per le donne senza velo non sia affatto tranquilla. Insomma, come spesso accade nella Repubblica Islamica le aperture si accompagnano a forti contrasti interni e al rischio di nuove e repentine chiusure. 

La rinnovata partnership con Mosca potrebbe anche essere una leva negoziale per Teheran

In vista del reinsediamento di Trump, la dirigenza iraniana ha dunque lavorato su un duplice binario: da una parte la ripresa di un dialogo diplomatico con i suoi primi interlocutori europei, dall’altra l’invio di chiari segnali di una volontà di proseguire nel potenziamento del proprio nucleare - da usarsi per ora solo come leva negoziale, nonostante il suo uso militare ai fini di una più efficace deterrenza sia emerso da tempo nel dibattito pubblico.

A completare il quadro vi è anche il rafforzamento dei legami con Mosca, dove Pezeshkian si è recato il 17 gennaio per firmare un Accordo di partenariato strategico globale della durata di 20 anni, finalizzato a una maggiore cooperazione in campo militare, scientifico, nucleare, economico, della sicurezza e dell'intelligence. Non è stata affatto una prima volta, considerato che l’accordo aggiornava un’altra intesa del 2001 e se ne discuteva da tempo. E se è vero che l’Iran viene accusato di fornire droni alla Russia nella sua guerra contro l’Ucraina, se non anche missili balistici, l'accordo non prevede clausole di mutua difesa, né l'effettiva formazione di un nuovo blocco.  In un’intervista con la tv di Stato iraniana, il ministro degli Esteri, Abbas Araqchi, ha sottolineato infatti che l'intesa non andrà a discapito dei paesi terzi, "non vieta" di stipulare accordi con altri governi e non ha per obiettivo “una coalizione militare".

“Se l'Europa è adirata per l'uso di armi iraniane da parte della Russia – ha inoltre sottolineato - dovrebbe anche essere ritenuta responsabile per la sua cooperazione militare con Israele". E ha lasciato intendere come i trasferimenti di armi alla Russia possano essere una leva nei colloqui diplomatici con l'Occidente. Se infatti l'Occidente ha imposto sanzioni all'Iran per tali trasferimenti, i negoziati potrebbero includere la richiesta a Teheran di cessare tale cooperazione e così rafforzare la sua posizione negoziale.

Intanto, tra tastiere e corridoi, c'è chi continua a fare piani di guerra 

Ma la possibilità di un accordo tra l’Iran e Trump continua a non piacere ai falchi statunitensi e a una parte dell’opposizione della diaspora, dichiaratamente favorevoli alla massima pressione, se non convinti della necessità di una guerra come condizione necessaria per un cambio di regime. Per un ulteriore rafforzamento delle sanzioni si è dichiarato, in particolare, il principe Reza Pahlavi, che dal suo esilio americano negli ultimi anni ha rafforzato la propria immagine di potenziale leader della transizione democratica in un Iran che si fosse già liberato (non è chiaro come) del suo attuale sistema di governo. 

“Nessun presidente americano – ha scritto nei giorni scorsi a Trump, congratulandosi per la sua inaugurazione - ha ancora avuto il coraggio di porre fine a questa tirannia. Tu puoi. Non attraverso la guerra, ma mantenendo la massima pressione sul regime e fornendo il massimo supporto al coraggioso popolo iraniano. La Repubblica Islamica non cerca la pace e la prosperità che immagini. Ora più debole che mai, tenterà di preservarsi attraverso l'inganno, offrendo promesse vuote e perseguendo sotterfugi sotto le mentite spoglie di un nuovo accordo come ha fatto per quarantacinque anni. Ma non ci si può fidare”.  

Ma il suo escludere la guerra trova la netta opposizione di altre voci della diaspora. Come quella di Mariam Memarsadeghi, che si definisce attivista per la democrazia in Iran e che, sponsorizzando una campagna di attacchi aerei sul paese, scrive:

“Il regime non è mai stato così vulnerabile. Ora è il momento, con infrastrutture militari (proprie e delle milizie filoiraniane, ndr.) indebolite da Israele e una nuova amministrazione Trump consapevole della natura immodificabile del regime, di passare da soluzioni temporanee e frammentarie a una guerra totale che spingerebbe gli iraniani a rovesciarlo”.

“Una campagna militare aerea – prosegue - non è un'occupazione. Costerebbe al contribuente americano una frazione di quanto spende attualmente per cercare di contenere il principale sponsor statale del terrore”. Inoltre, “eliminare l'infrastruttura della Repubblica islamica ripristinerebbe la deterrenza americana a livello globale e farebbe riflettere due volte altri attori nefasti prima di minacciare la pace e la sicurezza globali”. E via così, sulla tastiera combattendo. 

Ha idee molto chiare anche Alireza Nader, già analista per il dipartimento del Tesoro e think-tank popolari tra i falchi come la Foundation for Defense of Democracies (FDD). In un suo recente articolo, in cui prevede con il ritorno di Trump anche l’inizio di una “nuova era per l’opposizione iraniana”, svolge una dettagliata analisi critica delle formazioni esistenti. In particolare si sofferma sui Mojahedin del Popolo del Mek (di cui è erede il Consiglio nazionale della Resistenza iraniana di Maryam Rajavi): nato come “culto islamo-marxista”, ricorda, in opposizione allo shah negli anni Settanta, poi combattente a fianco dell’Iraq contro l’Iran nella guerra del decennio successivo, è ora impegnato a Washington in una “operazione di lobbying organizzata e ben finanziata”. Tuttavia, aggiunge, pur essendo molto visibile e tenace, “ha una base elettorale minuscola in Iran e nella diaspora ed è visto con disprezzo dalla maggior parte degli iraniani”. 

Quanto a Reza Pahlavi, “a differenza del MEK non ha una rete organizzata all'interno e all'esterno dell'Iran o uno staff professionale che possa fare lobbying per suo conto a Washington. Si comporta più come una celebrità di Instagram che come un politico serio e sicuro di sé, mentre i suoi consiglieri e sostenitori lavorano per diffamare e indebolire altre figure dell'opposizione e attivisti, come l'attivista anti-hijab obbligatorio Masih Alinejad e il premio Nobel per la pace Narges Mohammadi”. Inoltre, prosegue, vi sono anche “le lobby etniche iraniane”  tra cui segnala l gruppo curdo Komala, guidato da Abdullah Mohtadi. 

E se è vero che Netanyahu coltiva il rapporto con Pahlavi, grazie a una certa popolarità di quest’ultimo tra gli iraniani,  secondo Nader, “l'obiettivo principale di Israele è la distruzione del programma nucleare iraniano, e Gerusalemme probabilmente concentrerà il suo sostegno su gruppi come il Mek e Komala che possono servire i suoi interessi”, mentre  “i monarchici non possono offrire alcun aiuto” a questo fine. Inoltre, “Israele sembra aver costruito una rete di spie sofisticata e capace all'interno del regime, che è stata capace di facilitare le operazioni israeliane all'interno dell'Iran”. Una “seria minaccia armata” al sistema guidato da Khamenei, infine, potrebbe a suo avviso provenire anche dall’interno per mano di “iraniani comuni stanchi del regime che potrebbero imbracciare le armi dopo anni di pacifica resistenza civile”. Come nel caso, precisa, dei due magistrati della Corte suprema uccisi nei giorni scorsi  da un impiegato della stessa corte che poi si sarebbe tolto la vita. 

Le narrazioni della diaspora e il dovere di cercare letture attendibili 

Ma i falchi anti-iraniani in Occidente e l’opposizione della diaspora, anche se in molti casi capaci di influenzare l’opinione pubblica e i gruppi dirigenti occidentali, non sempre hanno il polso della reale situazione in Iran. Ne è convinta la giovane italo-iraniana Tara Riva,  attenta lettrice delle dinamiche interne all’opposizione.

“Una tendenza molto comune, in Europa e Stati Uniti – dice - è quella di ampliare in modo sproporzionato le posizioni di una parte della diaspora iraniana, ignorando spesso voci e testimonianze che giungono dall’Iran, nonché le istanze di una parte non marginale degli iraniani all’estero. Ci si imbatte in errori non solo diplomatici, ma sostanziali, quando si dà spazio a rappresentanti di MEK, e si ignorano le voci degli attivisti che in Iran sacrificano la propria libertà per lottare per i propri diritti, come nel caso di Farhad Meysami che, nonostante la detenzione in condizioni disumane, ha respinto la solidarietà di Trump, criticandolo per l’abbandono unilaterale della JCPOA e per aver imposto nuovamente sanzioni che hanno drasticamente impoverito gli iraniani.

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Si ignorano le voci anche di noti attivisti come l’avvocata Nasrin Sotoudeh e suo marito Reza Khandan (quest’ultimo arrestato di recente), che affermavano alla CNN di temere che il movimento Donna Vita Libertà venisse dirottato da piccoli gruppi di opposizione all’estero”. “Si ignorano – prosegue Tara Riva- anche voci come quella di Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace, che ha criticato le sanzioni unilaterali imposte all’Iran, avendo queste colpito prevalentemente la popolazione. Non si tratta di negare le numerose violazioni di diritti umani commessi dalle autorità iraniane, semmai l’intento è evidenziare anche le violazioni dei diritti umani degli iraniani conseguenti alle sanzioni unilaterali e all’embargo, spesso non conformi a numerosi principi del diritto internazionale. Il punto centrale della critica, qui, è che le posizioni di una parte della diaspora vengono estese alla parte restante, oltre ad essere spacciate per “rappresentative” di una popolazione di 90 milioni di persone. Una maggiore consapevolezza su questo tema, anche da parte dei media, potrebbe aiutare a riequilibrare una situazione che, fino ad ora, non lo è stata, anche a discapito di molti iraniani all’estero”. 

Certe narrazioni diffuse da esponenti e media della diaspora, spesso sostenute da potenti mezzi finanziari, rischiano di andare a discapito anche della ricerca di una lettura davvero attendibile della realtà interna del paese. Una ricerca tanto più doverosa se nel prossimo futuro dovessero davvero avere la meglio, sul pragmatismo di chi lavora per un accordo, le lobby e gli avventuristi di una guerra che giungerebbe, con le sue conseguenze devastanti già viste in Libano e in Palestina, anche in Iran. E forse nell’intera regione.

Immagine in anteprima: frame video Firstpost via YouTube

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