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Quello di Donald Trump non è isolazionismo, ma ‘mafia imperialism’

21 Febbraio 2025 10 min lettura

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Quello di Donald Trump non è isolazionismo, ma ‘mafia imperialism’

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Nell’arco del primo mese della sua presidenza, Donald Trump sta distruggendo l’ordine legale internazionale che resisteva dal termine della seconda guerra mondiale: ha unilateralmente deciso di trattare con la Russia in merito all’invasione dell’Ucraina, ha parlato della necessità di costruire una “riviera di lusso” nella Striscia di Gaza, senza che i palestinesi possano più rivendicare alcun diritto sulla terra, ha cercato di acquistare la Groenlandia e di riottenere l’autorità sul Canale di Panama, ha minacciato dazi a Canada e Messico, ha chiesto ai paesi europei di alzare considerevolmente la loro spesa militare fino al 5 per cento del PIL, ben più del 2 che l’Alleanza atlantica ha sempre richiesto.

Queste mosse generano ansia nei suoi alleati storici, che non vedono più negli Stati Uniti i garanti dell’ordine mondiale. Questo non implica però, come alcuni dicono, che Trump sia un presidente isolazionista, dato che interviene, anche in maniera estremamente muscolare, nelle vicende globali. Un intervento, però, non atto a garantire stabilità e legalità dell’ordine, ma a ottenere terre e risorse: un imperialismo sfruttatore di marca ottocentesca, in cui le nazioni più ricche potevano rubare risorse a quelle più povere in nome di una forza superiore. 

L’ordine mondiale ereditato da Trump non era perfetto, ma aveva un vantaggio: le regole erano chiare. Tra queste, la principale riguardava il fatto che ogni paese rispettava la sovranità di tutti gli altri, e non avrebbe più tentato di acquisire territori per mezzo della forza: questo è il motivo per cui, dopo l’invasione del 24 febbraio 2022, la Russia è stata velocemente allontanata dalla comunità internazionale e i maggiori paesi occidentali hanno approvato diversi pacchetti di sanzioni. Gli Stati Uniti, però, cercano oggi di riconsiderare quest’ordine, in virtù del fatto che si sentono i padroni assoluti dell’emisfero occidentale. Gli alleati, dopo decenni di affidamento sugli Stati Uniti nella gestione della difesa, si ritrovano soli e isolati: questo porterà necessariamente a nuovi tentativi di alleanze e al tentativo di rinforzare quelle già esistenti non a guida americana. 

Durante i discorsi del leader statunitense, è chiaro il tentativo di porre una grande attenzione sull’emisfero occidentale, un focus che ricorda da vicino la dottrina Monroe, posizione politica del quinto presidente degli Stati Uniti, James Monroe, che affermava la padronanza statunitense sugli affari del continente americano. Monroe se la prendeva con le potenze europee, che cercavano di colonizzare terre che secondo gli Stati Uniti appartenevano alla loro sfera d’influenza, Trump principalmente con la Cina, che otterrebbe vantaggi commerciali dall’utilizzo del Canale di Panama e aggirerebbe i dazi statunitensi sulle automobili delocalizzando la propria produzione in Messico. Le direttrici entro cui si muove Trump nel riprioritizzare il continente americano sono due: da un lato attacchi in senso imperialistico, dall’altro la ricerca di una guerra commerciale.

A subire gli attacchi imperialistici sono principalmente Panama, paese indipendente dal 1903 e sul cui territorio è presente l’omonimo Canale, e la Groenlandia, regione artica oggi parte della Danimarca, che Trump vorrebbe acquistare sin dal suo primo mandato, ricevendo sempre dinieghi da Copenhagen. La tensione tra Trump e il presidente panamense Mulino si è alzata esponenzialmente durante queste settimane, col primo che rivorrebbe il controllo del Canale, ceduto dagli Stati Uniti nel 1977 e controllato da un’autorità del governo di Panama. Il Presidente americano li ha accusati di aver fatto sì che la Cina arrivasse a controllare l’Autorità che governa il canale, e per questo rivorrebbe una guida americana: non ci sono, però, prove che il governo cinese eserciti alcun tipo di controllo, nonostante negli anni ha molto investito in porti e terminal intorno al Canale, dato che le sue navi contano per il 21,4 per cento del traffico dell’area. 

Se Trump ha addotto una scusa per quanto concerne la questione panamense, non ci ha nemmeno provato riguardo alla Groenlandia. Trump ha asserito che il controllo della regione artica garantirebbe agli Stati Uniti una maggiore “sicurezza economica”, ma il motivo per cui ne è ossessionato è la gran quantità di risorse che otterrebbe: nickel, ferro e terre rare sono presenti in gran quantità in Groenlandia, poco sfruttate da una comunità Inuit di 56.000 residenti. L’obiettivo trumpiano grazie a queste nuove materie prime sarebbe quello di poter raggiungere l’indipendenza energetica e poter produrre internamente sempre più semiconduttori, utili per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale: un vero e proprio imperialismo di sfruttamento. La Danimarca si è rifiutata di sedersi a un tavolo delle trattative e le comunità del luogo non sono state minimamente interpellate: emissari americani sono andati nella regione e hanno regalato ad alcuni residenti un centinaio di dollari, una mossa vista dai cittadini come un ingeneroso tentativo di comprare la loro volontà. Gli Inuit che abitano la Groenlandia vorrebbero da anni staccarsi dalla Danimarca, che li controlla con metodi coloniali dal 1721, ma chiedono l’indipendenza, non di essere venduti a una nuova potenza. L’interesse per la posizione degli abitanti da parte degli Stati Uniti è nullo, tanto che i repubblicani hanno presentato al Congresso una legge per rinominare la Groenlandia “Terra bianca, rossa e blu”. (In inglese, Greenland sta per “terra verde” ndr). Per di più, se gli Stati Uniti possono decidere di modificare la sovranità dei paesi vicini, allora crolla il caposaldo che ha tenuto insieme l’ordine legale in questi decenni: verrebbe infatti meno ogni rimostranza mossa alla Cina ogni qualvolta esprime la volontà di assediare e conquistare l’isola di Taiwan.

Con i paesi più grandi del Nord America, Canada e Messico, Trump ha invece adottato la tattica di minacciare una guerra commerciale. Ha imposto dazi del 25% su tutti i beni importati dai due paesi, per poi revocarli non appena entrambi hanno concesso al presidente statunitense più truppe per controllare i confini.

Nonostante questo, la tensione col Canada è rimasta altissima, tanto che Trump ha più volte scritto che vorrebbe un’annessione agli Stati Uniti come cinquantunesimo Stato. Una posizione ovviamente irricevibile, atta a esacerbare lo scontro: Trump ritiene che la bilancia commerciale col Canada penda a svantaggio degli Stati Uniti per 250 miliardi di dollari e che Trudeau non faccia niente per contrastare l’arrivo del fentanyl, droga sintetica a base di oppioidi, negli Stati Uniti. Due affermazioni tendenziose, in quanto i dati sulla bilancia commerciale non tengono conto del fatto che le condutture di gas canadese passano all’interno del territorio statunitense e che solo lo 0,2% del fentanyl arriva dal Canada.

La minaccia di dazi così alti è poi, per la maggior parte degli economisti, un problema: con paesi come Messico e Canada gli USA sono molto interdipendenti. Nel settore automotive, per fare un esempio, alcuni pezzi di autovetture attraversano il confine varie volte prima che il prodotto sia completato, e ogni passaggio dovrebbe essere sottoposto a dazio. Questo alzerebbe esponenzialmente il prezzo delle auto negli Stati Uniti, e ricadrebbe tutto sul consumatore finale. Nonostante questo, per Trump i dazi imposti agli amici non sono altro che un monito: ricordare loro che non sono né alleati né amici degli Usa, ma semplicemente dei partner di minor peso, le cui economie possono essere messe in crisi in ogni momento.

Anche il rapporto con l’Unione Europea sta evolvendo in questo senso. Gli Stati Uniti stanno apertamente sconfessando i pilastri su cui è stata costruita l’Alleanza atlantica, e hanno iniziato a richiedere ai paesi europei una spesa in difesa difficile da attuare per le economie dell’Unione. Se nel primo mandato la richiesta era quella di adeguarsi alla spesa del 2% in relazione al PIL, obiettivo raggiungibile, oggi la richiesta è quella di passare velocemente al 5%, provocando uno scontro.

Inoltre, il vicepresidente Vance, parlando alla Conferenza di Monaco, ha apertamente avallato i partiti di estrema destra: ha incontrato Alice Weidel, leader di Afd, partito suprematista che le altre forze politiche tedesche vorrebbero tenere lontano dalle posizioni di governo, e ha criticato le politiche migratorie, climatiche e legate ai diritti LGBT europee. In più, Vance ha attaccato frontalmente il Digital Service Act (DSA) dell’Unione Europea che, a suo dire, regolamenterebbe troppo il settore dell’intelligenza artificiale, su cui gli Stati Uniti hanno molte meno regole; anche la moderazione eccessiva dei contenuti che si farebbe nel continente è stata definita una “censura autoritaria”.

Oltre a questo, la principale minaccia americana alle economie dell’Unione è quella dei dazi: Trump ha asserito che con la UE vuole costruire un sistema di tariffe reciproche, per cui tutti i balzelli che un bene americano deve subire nei confronti di un paese verranno applicati a tutti i beni di quel paese in ingresso negli Stati Uniti. Nel breve termine questo farà salire l’inflazione, che infatti a gennaio è già tornata a sforare il 3%, nonostante le promesse dell’amministrazione, e aprirà a molteplici trattati bilaterali e a possibili esenzioni per i leader che si dimostrano più vicini agli americani. 

A questa situazione critica si aggiunge il voltafaccia nella questione ucraina. Dopo un mese dall’insediamento, gli USA si sono appiattiti sulle posizioni della Russia, confermato anche dal rifiuto statunitense di fare da co-sponsor a una risoluzione ONU di condanna per il terzo anno dell’invasione. Una delegazione americana ha incontrato per la prima volta dal 2022 una delegazione russa a Riad, e questo è il viatico per un bilaterale tra Trump e Putin nel prossimo futuro. Nel frattempo, il Presidente ha fatto proprie le posizioni di Mosca, riaffermando la propaganda putiniana: ha definito Zelensky un “dittatore non eletto” che possiede “solo il 4% di sostegno nel paese” (un dato falso, in quanto le ultime rilevazioni lo attestano sopra il 50 per cento) e sta impedendo a Ucraina e Unione Europea di sedersi ai tavoli delle trattative che ha aperto con Mosca.

La motivazione con cui non permette alla UE di condividere il tavolo degli accordi è pretestuosa: Trump ritiene che gli USA hanno speso molto più degli altri paesi nel sostegno all’Ucraina. Questo è però falso, perché i paesi europei avrebbero speso 132 miliardi in aiuti, contro i 114 statunitensi. Inoltre, ha chiesto a Kyiv, in cambio di una non precisata “prosecuzione degli aiuti”, che gli vengano ceduti i diritti sulla metà dei profitti legati all’estrazione di risorse naturali nel paese in perpetuo. Questa proposta è stata commentata dal noto economista Paul Krugman come “puro imperialismo sfruttatore ottocentesco”: una vera e propria razzia di risorse, che Zelensky si è rifiutato di concedere.

La questione ucraina ha agitato molti senatori repubblicani, più vicini alle posizioni classiche del Partito in politica estera: il senatore Tillis ha per esempio affermato che la responsabilità è solo in capo a Putin. La speranza di molti analisti era la persona che Trump aveva scelto come segretario di Stato: Marco Rubio, senatore della Florida, proveniente da famiglia di esuli cubani, sempre dichiaratosi contro ogni forma di dittatura e, tra le altre cose, uno dei principali sfidanti di Trump alle primarie del 2016. Come analizzato da Politico, però, Rubio non ha peso nelle scelte dell’amministrazione, viene utilizzato per dire ovvietà e sta sempre in disparte rispetto a Trump e Musk, che plasmano con comunicati e lanci social tutta la politica estera. Una figura che doveva essere di garanzia, trasformata in una voce spenta e che ripete blandamente le posizioni del presidente. 

L’altro scenario in cui Trump dice di aver “fatto finire la guerra” è il Medio Oriente, in cui dopo pochi giorni dal suo insediamento Israele e Hamas hanno acconsentito a un cessate il fuoco, negoziato per mesi dall’amministrazione Biden ma ottenuto solo dopo il cambio di inquilino a Pennsylvania Avenue.

Il piano su cosa sarà della Striscia, sempre che la tregua regga in queste settimane, è stato attaccato da tutti i leader dei paesi arabi e da gran parte della comunità internazionale, e Trump è stato da più voci accusato, tra cui da 350 rabbini statunitensi, di aver proposto una pulizia etnica: il leader americano ha apertamente parlato di una Riviera di lusso nella Striscia di Gaza, con grandi alberghi e casinò, su cui i palestinesi non avranno più alcun diritto. Anzi, i profughi dovrebbero essere accolti da Egitto e Giordania, che si sono smarcati. I leader arabi sono fermi su un punto: c’è bisogno di uno Stato palestinese riconosciuto da tutti, posizione che però non sembra realizzabile con queste amministrazioni negli Stati Uniti e in Israele.

Tutte queste mosse attaccano direttamente l’ordine legale internazionale, non riconoscono le sovranità statali che dovrebbero essere garantite dalle Nazioni Unite e sconfessano la visione globalista a guida americana che ha dominato nella seconda parte del Novecento. A ottenere dividendi da queste posizioni è quello che Trump definisce il rivale principale degli Stati Uniti in quest’epoca: la Cina.

Tra gli ordini esecutivi che hanno contraddistinto il primo mese di amministrazione Trump – di cui abbiamo parlato estesamente su Valigia Blu - c’è stato lo svuotamento dei fondi per molte agenzie federali: tra queste USAID, che si occupa di sviluppo internazionale. Molti progetti esteri e aiuti internazionali, compresi quelli legati alla prevenzione della diffusione di virus letali come l’HIV, sono stati bloccati.

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Di contro, la Cina sta cercando di intervenire e garantire questi aiuti attraverso China Aid: più gli Stati Uniti recedono dalla loro funzione di perno economico mondiale, più è il soft power cinese a ricoprire le stesse posizioni, garantendo però a Pechino un’influenza sempre maggiore. Tra le agenzie a cui sono stati tolti i fondi, poi, c’è anche China Labor Watch, che aveva il compito di indagare sullo sfruttamento dei lavoratori in Cina. Oltre a ricostruire in senso autoritario il paese internamente, Trump sta rivoluzionando anche la proiezione estera degli Stati Uniti: non più alleati né difensori dell’ordine, ma un mondo fatto di competitor a cui bisogna strappare accordi favorevoli, il tutto cercando di ottenere risorse dai paesi più deboli.

Tutto questo sta generando ansia e il tentativo di disallineamento dalle posizioni americane da parte di attori più o meno grandi, tra cui l’Unione Europea: sul breve termine, è la Cina a presentarsi di fronte alla comunità internazionale come una potenza responsabile, leader nelle rinnovabili e nell’aiuto umanitario, mentre gli Stati Uniti stanno diventando i distruttori dell’ordine che hanno contribuito a creare ottant’anni fa. Come ha scritto sull’Atlantic Anne Applebaum, “è il momento di riconoscere il cambiamento che stiamo vivendo, e dobbiamo trovare nuovi modi di vivere nel mondo che degli Stati Uniti diversi dal passato stanno contribuendo a creare”.

Immagine in anteprima via flickr.com

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