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Trump, Putin e Zelensky: scenari e incognite per la fine della guerra in Ucraina

21 Gennaio 2025 9 min lettura

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Trump, Putin e Zelensky: scenari e incognite per la fine della guerra in Ucraina

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Putin pronto a trattare? Le rivelazioni e i dubbi sull'economia russa

Aggiornamento 24 gennaio 2025: L’attesa per l’avvio dei negoziati per raggiungere un accordo sulla fine delle ostilità in Ucraina cresce di giorno in giorno dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Aspettative alimentate anche dalle dichiarazioni del Cremlino, che ha ribadito di essere pronto al dialogo in qualsiasi momento, aspettando contatti diretti dal presidente statunitense; Dmitrij Peskov, storico portavoce di Vladimir Putin, ha affermato nell’appuntamento quotidiano con i giornalisti di come a Mosca si guardi ai segnali provenienti oltreoceano.

Significativa è stata la pubblicazione, giovedì 23 gennaio, di un articolo della Reuters nel quale, facendo riferimento a fonti anonime all’interno dell’amministrazione presidenziale russa, si descriveva un Putin “preoccupato” dai rischi connessi all’andamento dell’economia e per questo pronto a far passi in avanti verso la conclusione del conflitto. Secondo quanto ripreso dall’agenzia di stampa, il presidente russo riterrebbe raggiunti gli obiettivi dell’operazione speciale militare (come viene definita la guerra in Ucraina dal Cremlino), visto il controllo del corridoio terrestre con la Crimea, e sarebbe cosciente delle difficoltà crescenti per le imprese e i settori industriali non coinvolti nello sforzo bellico, dovute ai tassi alti della Banca centrale e alla mancanza di manodopera nel paese.

Queste rivelazioni appaiono però in contraddizione con quanto il leader russo ancora oggi dichiara riguardo allo stato dell’economia, definita “efficiente” e “resiliente” e in crescita rispetto a quanto avviene in Occidente, e inoltre la cessazione delle ostilità potrebbe avere delle ripercussioni sul settore trainante, l’industria militare, e su quella fascia della popolazione che attraverso l’arruolamento o l’impiego negli stabilimenti legati al complesso militar-industriale ha beneficiato di alti salari e di una serie di bonus sociali, dalla gratuità degli studi universitari alla precedenza nell’assegnazione degli appartamenti. Inoltre, la fine della guerra adesso vedrebbe un’accelerazione del processo d’integrazione dell’Ucraina nel sistema dell’Alleanza Atlantica, non necessariamente con l’entrata da Stato membro, ma in un’ottica di consolidamento del sostegno militare, venendo così meno due delle condizioni a più riprese avanzate dalle autorità russe, la neutralità di Kyiv e la riduzione delle sue forze armate. Quel che però appare significativo nel testo pubblicato dalla Reuters è la presenza di voci all’interno dell’establishment russo le quali pongono, attribuendole a Putin, questioni simili nella cornice della discussione su possibili negoziati.

Le condizioni poste da Mosca appaiono al momento ancora immutabili, come ribadito dal viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov, in una dichiarazione alla TASS in cui sottolinea come vorrebbe “capire su quali basi gli americani vorrebbero muoversi nel regolamentare il conflitto; se è sulle basi di quei segnali che ascoltiamo negli ultimi giorni, questo non avverrà né tra cento giorni né oltre”. E Donald Trump sembrerebbe voler alternare aperture, al momento verbali, a possibili nuovi provvedimenti annunciati durante i suoi interventi, come durante il discorso tenuto in videoconferenza al summit di Davos, durante il quale ha reso noto di voler chiedere all’Arabia Saudita e ai paesi dell’OPEC di abbassare il prezzo del petrolio, in modo da poter “terminare la guerra”: un riferimento esplicito a quali misure adottare nel caso in cui Mosca non voglia assumere un atteggiamento collaborativo al tavolo delle trattative. Parole che fanno eco alle minacce, contenute in un post sulla piattaforma Truth, di una escalation via sanzioni per poter definitivamente piegare la Russia.

Le aspettative, tra minacce, segnali, dichiarazioni, restano alte: soltanto nella giornata del 23 gennaio vi son stati due eventi a cui è stata data probabilmente un’eccessiva enfasi sui media e sui social – l’interruzione del vertice dell’Agenzia federale russa per lo sviluppo strategico, dovuta, a detta di Putin, da una telefonata riguardante “questioni internazionali” e in serata l’arrivo del corteo di auto blu del presidente al Cremlino, secondo alcuni dovuto anche questo a una chiamata “improvvisa”.  Nella notte tra il 23 e il 24 gennaio varie località russe, tra cui Mosca, sono state raggiunte da oltre un centinaio di droni ucraini, in gran parte abbattuti dalla contraerea ma che hanno colpito alcuni obiettivi, come una raffineria e una centrale elettrica a Ryazan: probabilmente la strada verso possibili trattative sarà segnata anche da ulteriori attacchi, provando a conseguire risultati da mostrare al tavolo dei negoziati.

 

L’inizio del 2025 segna un momento di potenziale svolta per la guerra in Ucraina. A tre anni dai colloqui falliti di Istanbul, si profila la possibilità di un ritorno al tavolo delle trattative tra Mosca e Kyiv, questa volta sotto la mediazione degli Stati Uniti. L’attesa si concentra sulle mosse del presidente eletto Donald Trump, insediatosi ufficialmente alla Casa Bianca il 20 gennaio. Trump ha più volte ribadito la propria volontà di negoziare e si è dichiarato disposto a incontrare Vladimir Putin. Secondo quanto dichiarato dal neopresidente americano, un vertice sarebbe già in fase di preparazione, benché questa eventualità non abbia ricevuto conferme ufficiali dal Cremlino. Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha tuttavia sottolineato che il presidente russo è aperto a un incontro.

Le autorità ucraine, da parte loro, non hanno mostrato opposizioni a un intervento negoziale guidato dagli Stati Uniti. Volodymyr Zelensky, consapevole del peso decisivo del sostegno militare ed economico americano, ha inviato segnali di apertura nelle ultime settimane, le sue recenti dichiarazioni sull’impossibilità di riportare i confini del 1991 esclusivamente con l’uso della forza testimoniano un passo verso quel riconoscimento della realtà sul campo richiesto dall’entourage trumpiano. Oggi l’ipotesi di negoziati sembra più concreta rispetto al passato ma le possibilità di successo sono tutt’altro che certe. Le divergenze di obiettivi tra Mosca, Kyiv e Washington rendono complicato immaginare una soluzione che possa risultare accettabile per tutte le parti.

L’invasione russa e gli obiettivi globali di Mosca

Per il Cremlino, il conflitto in Ucraina non si limita a una questione territoriale, ma si intreccia con  obiettivi politici e ideologici di lungo periodo. Vladimir Putin ha spesso evocato l’idea di un’identità ucraina “artificiale,” attribuendo la sua origine a una separazione forzata dalla nazione russa, un’interpretazione che richiama il nazionalismo russo d’inizio Novecento. Da questa prospettiva, l’obiettivo russo non è solo il controllo del territorio, ma anche l’instaurazione di un governo gradito a Mosca nel restante territorio ucraino non occupato.

Il Cremlino utilizza inoltre l’illegittimità delle elezioni presidenziali ucraine, rinviate sine die a causa della guerra, come argomento per non riconoscere Zelensky come interlocutore. Tuttavia, la posta in gioco per Mosca va oltre l’Ucraina, il conflitto è percepito come parte di un più ampio scontro geopolitico con gli Stati Uniti, nel quale la Russia punta a un nuovo assetto delle relazioni internazionali che ridefinisca le sfere di influenza globali, richiamandosi a modelli storici come il Congresso di Vienna o la Conferenza di Yalta.

La strategia russa si basa su alcuni successi militari, come l’avanzata nel sud-est ucraino e la presenza geopolitica in Africa, Medio Oriente e America Latina. Tuttavia, la tenuta di questa visione è messa a dura prova da difficoltà operative. La caduta improvvisa del regime di Bashar al-Assad, sostenuto da Mosca e Teheran fino al novembre 2024, ha mostrato i limiti della capacità russa di sostenere interventi globali paralleli alla guerra in Ucraina.

Trump, Musk e Putin: una triangolazione complicata

Le aspettative di un possibile avvio di una nuova fase negoziale tra Mosca e Kyiv non si alimentano soltanto delle dichiarazioni ufficiali, ma anche di un’inedita triangolazione tra il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, Elon Musk, e il leader del Cremlino, Vladimir Putin. Questo trio, spesso rappresentato come la trimurti illiberale, anche se condivide l’ostilità verso il funzionamento democratico delle società e dei diritti, non è però in realtà unito, anche se la comune avversione verso concetti come la cultura "woke", i diritti delle persone LGBT e l’autodeterminazione femminile ha creato una percezione di affinità ideologica, che alimenta le speculazioni su una possibile sintonia strategica.

Donald Trump ha già lasciato intendere che il suo approccio alla politica estera, come in passato, potrebbe essere diretto, pragmatico e meno vincolato alle convenzioni diplomatiche tradizionali. La sua inclinazione a negoziare come se fosse ancora a condurre The Apprentice, combinata con un interesse dichiarato nel ristabilire una leadership americana sul piano internazionale, potrebbe renderlo un mediatore atipico, ma al tempo stesso poco propenso ad accettare qualsiasi rivendicazione di Mosca;  Elon Musk, attraverso la sua posizione di potere mediatico – grazie alla proprietà della piattaforma X (ex Twitter) – ha dimostrato un’influenza crescente non solo nel dibattito pubblico, ma anche nella politica, con interventi diretti in Gran Bretagna e Germania, oltre all’ostentata amicizia con Giorgia Meloni. Il tycoon sudafricano si è già cimentato in dichiarazioni e iniziative di politica internazionale, come la sua proposta di pace per l’Ucraina lanciata sui social media, che aveva suscitato reazioni contrastanti a livello globale.

Questa convergenza di interessi e retoriche a prima vista avrebbe dovuto facilitare l’apertura di canali di dialogo con il Cremlino, ma la situazione è ben più complessa; la condivisione di determinate visioni su temi culturali e sociali non implicano necessariamente un allineamento strategico sui dossier internazionali. Anzi, la natura conflittuale degli interessi in politica estera di Stati Uniti e Russia rischia di rendere fragile ogni eventuale intesa.

In Russia qualsiasi segnale interpretato come un’apertura negoziale si trova spesso ad essere smentito o minimizzato. Un esempio è rappresentato dall’editoriale di Konstantin Remchukov, direttore della Nezavisimaya Gazeta e persona vicina all’Amministrazione presidenziale russa, pubblicato lo scorso 16 ottobre che aveva suggerito la possibilità di considerare gli obiettivi della “operazione speciale” già raggiunti con il controllo del corridoio terrestre verso la Crimea. Questa prospettiva aveva lasciato intravedere una maggiore flessibilità da parte di Mosca, alimentando speranze di un compromesso territoriale. Tuttavia, Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha prontamente ribadito che l’annessione delle quattro regioni ucraine occupate – Luhansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson – e la loro completa integrazione nel territorio russo restano obiettivi irrinunciabili, su cui non vi è alcuna intenzione di trattare, anzi; ogni negoziato, secondo quanto dichiarato più volte da Putin, deve partire dalla “realtà sul campo”.

L’atteggiamento del Cremlino manifesta soprattutto una necessità interna: qualsiasi concessione significativa potrebbe essere interpretata come una sconfitta e aprire una fase ben più complessa per la stabilità del sistema putiniano, già sottoposto a costanti pressioni a causa della guerra, della dinamica inflattiva e delle posizioni di alcuni settori dell’establishment, divise tra attendismo e entusiasta partecipazione al conflitto.

Mosca, Washington e la destra globale

Vladimir Putin ha a lungo presentato il conflitto in Ucraina come uno scontro di civiltà, una narrativa che trascende il piano militare per collocarsi su quello ideologico: alla necessità di ripristinare l’unità primigenia della nazione russa, a più riprese rivendicata, si è unita la rappresentazione della guerra come parte di una lotta generale contro la corruzione morale e etica dell’Occidente, declinata poi (anche per ragioni di audience) con la costruzione del discorso anticolonialista, diretta ai paesi dell’Asia e dell’Africa. La retorica della difesa dei “valori tradizionali” russi – spesso rielaborata dall’armamentario ideologico della destra religiosa americana, con cui alcune figure dell’estrema destra come Konstantin Malofeev collaborano da anni nella cornice del World Congress of Families – contrapposta alla “bancarotta morale” del liberalismo e del “marxismo culturale” in Occidente ha trovato eco tra i partiti di destra in Europa e altrove, dal Rassemblement National alla Lega; oggi però il ruolo di Putin come simbolo delle destre più o meno estreme appare oggi minacciato.

Donald Trump, con il suo ritorno al potere negli Stati Uniti, si presenta come un concorrente diretto nella leadership di questa contro-narrazione globale, mentre Elon Musk si candida ad esercitare un'influenza che ne ridisegna i contorni. Il supporto simbolico che il Cremlino aveva ricevuto da alcuni ambienti occidentali potrebbe essere ora diluito o addirittura spostato verso queste figure, e potrebbe convertirsi, nel caso di un rifiuto da parte di Putin delle condizioni avanzate dalla futura amministrazione americana, in aperta ostilità.

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La pace improbabile, almeno adesso

Nonostante le speculazioni, la possibilità che questa convergenza, alquanto momentanea e parecchio traballante, si traduca in un accordo di pace concreto in Ucraina appare lontana dal realizzarsi ad oggi. La complessità del conflitto, i molteplici interessi e attori in gioco e l’irriducibilità delle posizioni sul campo rendono ogni compromesso estremamente difficile, e nessuno a Mosca e a Kyiv è pronto a una tregua armata, ritenuta una possibilità per riprendere forze in attesa di una nuova esplosione del conflitto aperto.

La volontà del Cremlino di poter conseguire un accordo globale con la Casa Bianca, inoltre, rivela qualcosa di non detto sui rapporti con la Cina, ritenuta partner strategico in questi tre anni di conflitto: cosa accadrà alle relazioni privilegiate – anche se lontane dall’essere una vera e propria alleanza – con Pechino, nemico storico di Trump? 

Immagine in anteprima: frame video Hindustan Times via YouTube 

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