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Se le democrazie sono in pericolo non è certo colpa dei russi o dei social network

9 Novembre 2017 15 min lettura

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Se le democrazie sono in pericolo non è certo colpa dei russi o dei social network

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[disclaimer: Google e Facebook sono sponsor del Festival Internazionale del Giornalismo che organizzo a Perugia]

Solo qualche anno fa i social network erano, per molti, importanti veicoli per la democrazia, oggi invece, a seguire il flusso mainstream mediatico e politico, sono un pericoloso strumento della propaganda russa per indebolire le nostre società aperte.

Prima erano le fake news, oggi sono le pubblicità oscure (dark ads) usate dai russi su Facebook, Twitter e Google, ad attaccare le fondamenta delle nostre libertà. Solo così si possono comprendere, ci viene detto da più parti, la vittoria di Trump, Brexit e il risollevarsi delle estreme destre in Europa.

Una scorciatoia facile ed estremamente dannosa per spiegare quello che per alcuni è assolutamente inaccettabile come, per esempio, la vittoria di Trump. Le ragioni però andrebbero ricercate nella politica e semmai in una certa copertura mediatica sensazionalistica, inaffidabile, partigiana, faziosa. E solo affrontandole nella loro complessità potremmo avere gli strumenti per rispondere adeguatamente ai cosiddetti populismi e a una propaganda che fa leva su conflitti e tensioni, paure e odio.

La storia dell'agenzia russa che ha comprato per anni (da giugno 2015 a maggio 2017) pubblicità sui social sta alimentando nuovamente quella che non fatico a definire una propaganda sulla propaganda. Così come spiega molto bene e in maniera approfondita Fabio Chiusi nel post dedicato alla vicenda delle dark ads "russe", per dividere una società, quella americana, in realtà già fortemente polarizzata dalla politica e da un giornalismo basato sul sensazionalismo su temi come razza, religione, genere.

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Non c'è dubbio che abbiamo una questione da affrontare, il problema semmai è come dobbiamo affrontare i tentativi di manipolazione dell'opinione pubblica attraverso disinformazione, meme satirici, leak, propaganda, mistificazioni...

È un problema, quello della propaganda e della manipolazione delle informazioni, che si accompagna da sempre alle società democratiche (e non solo), oggi diventato più complicato con Internet e i social network.
Esigere trasparenza da parte dei social per quanto riguarda, ad esempio, la pubblicità politica è doveroso. Ma di certo non risolve una questione così complessa. Oltre i post o le pagine sponsorizzate, esistono, tanto per fare un esempio, i post organici non sponsorizzati. E toccare quel tipo di contenuti inevitabilmente pone la questione, altrettanto complessa, della libertà di espressione. Criticità, tra l'altro, che toccano le stesse policy dei social network e delle loro modalità di moderazione (come abbiamo più volte sottolineato su Valigia Blu qui e qui).

Da questo punto di vista colpisce anche l'incompetenza e la sprovvedutezza di alcuni politici rispetto alle problematiche emerse in questi anni e legate ai social e al web. Non si è valutato il rischio di censura nella richiesta di rimuovere contenuti violenti o legati al terrorismo: negli ultimi tempi sono stati rimossi, per esempio,  video da Youtube o Facebook che però hanno cancellato prove ed evidenze importanti per casi contro crimini di guerra.

Durante le audizioni sul caso delle interferenze russe che ha visto testimoniare i tre colossi dei social (Facebook, Twitter, Google) davanti alla Commissione Giustizia del Senato americano, mi ha fatto molta impressione sentire politici chiedere come mai Facebook non avesse approfondito al telefono mentre l'agenzia russa prenotava le pubblicità (al telefono), o chiedere cosa fossero le impression. O, ancora, pretendere da Twitter di stabilire quante persone dopo aver visto un tweet che diffondeva la fake news di poter votare con un sms poi non sono andate a votare. Se i legislatori sono impreparati e non sono attrezzati per comprendere e affrontare la contemporaneità il rischio di leggi inadeguate e dannose per i diritti dei cittadini è fortissimo.

Se guardiamo da vicino la vicenda dell'agenzia russa che ha acquistato pubblicità sui social per diffondere propaganda malevola durante le elezioni americane, vale la pena puntualizzare alcuni aspetti.

I numeri: per quanto riguarda Facebook parliamo di 100mila dollari spesi in due anni, 3mila sponsorizzazioni, 80mila post organici, 126milioni di americani raggiunti (il che significa che questi post sono riusciti a scorrere sul feed di questi utenti, se siano stati letti o abbiano avuto in qualche modo effetti non lo sappiamo). Questo tra il 2015 e il 2017. Rendiamoci conto che nello stesso periodo i post che gli americani hanno visto nei News Feed sono 33 trilioni e che durante la campagna elettorale Clinton e Trump hanno speso solo su Facebook complessivamente 81 milioni di dollari.

La tipologia di post: i contenuti e i meme (alcuni esempi sono stati rivelati durante le audizioni in Commissione) fanno leva su temi divisivi. Non puntano a dividere la società perché quella società è già fortemente divisa e polarizzata. Semmai puntano a creare confusione, caos, ad alimentare un conflitto già presente nella società e fra i cittadini e  fra i cittadini e la politica: migranti, possesso di armi, uso della forza da parte della polizia e i movimenti di protesta come BlackLivesMatter.

Possibile che questa tipologia di propaganda (e di post) affidata, per esempio, alla pagina L'esercito di Gesù, metta in pericolo la democrazia americana? Se è così allora davvero la democrazia ha un serio problema di tenuta. Così come faceva notare il sindaco di Veles - la piccola città macedone dove risiedono i ragazzi che durante la campagna elettorale americana hanno messo su siti di fake news per macinare traffico e soldi - che alla domanda di Craig Silverman di Buzzfeed - "Ci sono molte persone in Americana che credono che i vostri teenager abbiano creato enormi problemi e danneggiato la democrazia" - ha risposto: "Se un gruppo di ragazzini macedoni può danneggiare la democrazia americana il problema è vostro, non della Macedonia".

Insomma come spiega splendidamente, in un articolo sul New York TimesEmily Parker, che ha fatto parte dello staff di Hillary Clinton, la "Silicon Valley" non può distruggere la democrazia senza il nostro aiuto.

Il problema delle interferenze russe è serio, ma non si può pensare che quel tipo di interferenze abbia "deragliato" la democrazia americana (come è stato purtroppo sostenuto anche da diversi giornalisti), addirittura alterando il risultato delle elezioni. E soprattutto è assurdo fare dei social una sorta di capro espiatorio.

Facebook e Twitter sono semplicemente degli specchi - scrive Parker - ci rappresentano per quello che siamo. Rivelano una società profondamente e dolorosamente divisa, esposta alla disinformazione, accecata dal sensazionalismo, disposta a diffondere bugie e a promuovere l'odio. Quello che vediamo riflesso nello specchio non ci piace e così accusiamo i social, dipingendo noi stessi come vittime della manipolazione della Silicon Valley.

La propaganda russa sui social ha spesso copiato contenuti postati dagli stessi cittadini americani. I social contribuiscono a diffondere in modo più veloce e massiccio la propaganda, ma non sono i social a costringere le persone a condividere e diffondere contenuti falsi e disinformazione. "Davvero gli americani sono così facilmente manipolabili" - si chiede Parker - "O cosa più allarmante, semplicemente hanno creduto a ciò a cui volevano credere?".

I russi non hanno creato questa situazione, l'hanno semmai sfruttata. Hanno giocato sulla incapacità o non volontà delle persone di distinguere fra notizie vere e false. Problema aggravato anche dalla perdita di credibilità dei media mainstream.

Quasi un anno fa Mattew Yglesias su Vox spiegò in modo puntuale perché il vero problema della campagna 2016 non sono state le fake news, anch'esse facile capro espiatorio, ma semmai per certi versi le real news. L'implicazione che le fake news abbiano determinato la vittoria di Trump non è supportata da dati e fatti. Va ricordato poi che Clinton ha vinto sul voto popolare. L'impatto delle fake news è di sicuro minore rispetto alle real news (nel bene e nel male) dei media tradizionali. La storia delle mail sul server privato di Clinton ha avuto una copertura mediatica intensa, straordinaria rispetto poi alla reale portata della vicenda, un presunto scandalo che si è sgonfiato subito dopo le elezioni.

Davvero i post "russi" su Facebook sono riusciti a fare più danni alla società americana che una intera campagna presidenziale basata sull'incitamento all'odio verso musulmani, messicani e giornalisti?
Davvero i post dei "russi" possono aver diviso la società americana più di quanto non lo fosse, e in modo più drastico e pericoloso di spot come questo della NRA (National Rifle Association)? Un video della lobby americana per le armi inquietante, violento, spaventoso (solo il post su Facebook dell'account ufficiale ha oltre 7 milioni di visualizzazioni), più o meno un invito alla guerra civile. "La violenza delle bugie", così il Washington Post commentò il video, quando fu pubblicato per la prima volta nel giugno scorso.

Anche accusare Twitter per aver favorito la vittoria di Trump non ha senso. Intanto, come hanno sottolineato in molti, da Carl Bernstein, uno dei giornalisti del caso Watergate in una intervista a La Stampa, al sociologo dei media, Nathan Jurgenson, su Twitter, Trump non sarebbe niente senza la stampa e la TV, ed è più il prodotto della TV tradizionale che dei social.

Trump capisce la stampa e su di essa ha creato la propria mitologia, promuovendo la propria ascesa e il e proprio ego sulle loro pagine. Trump non sarebbe presidente degli Stati Uniti se non fosse per la stampa. La quantità di spazio televisivo gratuito - che è stato abbastanza intelligente da ottenere e che gli è stato concesso dai telegiornali via cavo per dire così tante cose oltraggiose durante le primarie, rappresenta una vera e propria abdicazione della responsabilità editoriale. Una grave abdicazione. Una componente essenziale della migliore versione della verità che si possa ottenere include che i giornalisti sappiano decidere quale sia la notizia».

Twitter è un veicolo perfetto nelle mani di uno come Trump e per i suoi messaggi "senza sfumature", scrive Parker, ma a renderlo virale non è Twitter ma gli utenti. Inclusi tutti i cittadini e i giornalisti che lo seguono, retwittano e rispondono al Presidente, indipendentemente se perché sono indignati, scioccati o perché effettivamente ha valore di notizia quello che twitta. "Se non fosse per tutti noi, il Presidente urlerebbe nel vuoto".

I social possono impegnarsi per contenere la diffusione dell'hate speech, ma non possiamo dimenticare che quell'odio, quel conflitto è prima di tutto nella società, chiusi, ognuno di noi, nelle nostre camere dell'eco ideologiche. Le persone da sempre cercano nei programmi TV e nei giornali le posizioni e le idee che rinforzano le proprie. E nemmeno si può avere l'ingenuità di pensare di forzare, grazie a un algoritmo, gli utenti a misurarsi con punti di vista diversi contro la loro stessa volontà.

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Davvero possiamo pensare di affidare a Facebook il compito di risolvere il problema delle fake news, ben sapendo che la disinformazione è un problema complicato che va oltre le stesse fake news (come dimostra anche l'ultimo lavoro di Claire Wardle, "Strategy and Research Director" di First Draft News, che oltretutto dichiara apertamente la necessità di smetterla di parlare di fake news e iniziare a riflettere, studiare e analizzare quello che lei definisce "disordine informativo" o "inquinamento informativo" che include dis-information, mis-information, mal-information)?

L'approccio sbagliato a un problema così complesso rischia solo di dare ancora più potere alle piattaforme. Come da tempo diversi esperti stanno sottolineando: attenzione a quello che chiediamo. Davvero vogliamo dare il potere di decidere cosa è vero e cosa no a Zuckerberg? E ancora: i social dichiarano di sentire il peso della responsabilità e di essere impegnati a far fuori "i cattivi". Ma chi decide e  con quali criteri chi sono i "cattivi" e chi i "buoni"?

Lo stesso capo della sicurezza di Facebook in un lungo thread su Twitter a proposito di interferenze russe, propaganda, algoritmi e fake news avverte:
"Se chiedete che un certo tipo di contenuti sia controllato, riflettete bene  su come queste stesse regole / sistemi possono poi essere abusati sia qui che all'estero".

I social media possono incentivare le nostre "cattive abitudini", come quella di preferire contenuti superficiali a contenuti di approfondimento, ma non creano quelle abitudini.

Social media platforms magnify our bad habits, even encourage them, but they don’t create them. Silicon Valley isn’t destroying democracy — only we can do that.

Ci sarebbe poi da interrogarsi sull'efficacia o meno di queste campagne sui social da parte dei russi. La tecnica utilizzata può essere sintetizzata così: account "falsi" hanno aperto pagine fan dai nomi improbabili come "L'esercito di Gesù", su quelle hanno investito in pubblicità costruendo una base di fan ampia e poi hanno prodotto e diffuso contenuti fortemente polarizzanti, faziosi, falsi, meme satirici; il tutto facendo leva su argomenti su cui già la società americana si ritrova ad essere sempre più divisa da anni, come abbiamo visto. Per alcuni politici e giornalisti si tratterebbe di un modesto investimento che ha ottenuto però un gran risultato.

Ma è proprio così? Davvero queste attività hanno minato la democrazia americana e hanno costituto una reale minaccia? Addirittura c'è chi si chiede se queste interferenze non abbiano alterato il risultato stesso delle elezioni, visto che il tutto si è giocato su un numero molto ristretto di voti, in fondo solo 115mila voti di differenza hanno deciso il destino delle elezioni.

“In an election where a total of about 115,000 votes would have changed the outcome, can you say that the false and misleading propaganda people saw on . . . Facebook didn’t have an impact on the election?”
Senatrice democratica, Mazie Hirono

Patrick Ruffini, co-fondatore di Echelon Insights, sul Washington Post, spiega perché a suo avviso quella campagna di certo non è stata un successo.
Se davvero quel tipo di campagna aveva come intento quello di influenzare le elezioni, dobbiamo dire che è un tentativo raffazzonato e fallimentare. Il totale speso è assolutamente risibile, le pubblicità non erano mirate a colpire un target preciso di elettori negli Stati decisivi, e i soggetti stessi dei contenuti erano progettati per ingaggiare voci estremiste e non elettori indecisi tra Trump e Clinton.

La vittoria della propaganda di Putin è far credere che con una campagna su Facebook di soli 100mila dollari abbia potuto influenzare le elezioni, ma non è così. Chi sta cercando spiegazioni alternative a quello che è successo con la vittoria di Trump non dovrebbe cedere alla tentazione - dice Ruffini - di attribuire ai russi un potere che non hanno. Questo non significa sottovalutare gli attacchi alla democrazia, ma attribuire alla propaganda russa un potere che non ha spinge, ancora di più tra l'altro, la Russia ad intensificare lo sforzo di indebolire le democrazie occidentali.

Dal punto di vista elettorale, proprio basandosi sui numeri (anche considerando l'investimento negli Stati più in bilico: $1,979 in Wisconsin, $823 in Michigan e $300 in Pennsylvania), Ruffini non ha dubbi: si tratta di una campagna niente affatto sofisticata e, come Parker sottolinea, ad essere più preoccupante è la disponibilità di alcuni americani ad aderire e condividere quel tipo di contenuto e la loro creduloneria.

Sull'onda di queste rivelazioni i social media molto probabilmente adotteranno misure per impedire o almeno contenere attacchi attraverso la pubblicità, impedendo per esempio l'acquisto in valute straniere o imponendo maggiori policy di trasparenza. Certamente sono buone anche le proposte di avvertire gli utenti nel caso stiano condividendo falsi contenuti provenienti da fonti non affidabili (considerando la quantità enorme di post e contenuti pubblicati ogni giorno bisognerebbe avere anche un minimo di contatto di realtà sulla fattibilità ed efficacia di simili azioni, per quanto si possa confidare su automazione e intelligenza artificiale). E sicuramente sono positive iniziative legislative come l'Honest Ads Act per imporre trasparenza alla pubblicità politica, ma di sicuro anche questo intervento avrebbe avuto un effetto modesto rispetto alla maggior parte dei contenuti russi che non esprimevano un supporto esplicito a questo o quel candidato e quindi difficilmente intercettabili come ads politiche.

Conclude Ruffini: "Senza un cambiamento che riduca significativamente l'uso dei social media come veicolo di libertà di espressione, nessun intervento legislativo può impedire il loro uso (anche) come vettori di disinformazione e propaganda da parte di potenze straniere, specialmente quando i social media sono più o meno liberi e aperti a tutti. Solo una cittadinanza più vigile può assicurare una solida difesa".

Short of an upheaval significantly curtailing the use of social media as a vehicle for free expression, no legislation can prevent their use as vectors for misinformation or propaganda from foreign powers, particularly when social media is largely free and open for anyone to use. Only a more vigilant citizenry can provide a full-proof defense.

Benvenuti nell'era della cyberguerra

Da più di dieci anni la Russia sta sperimentando e affinando l'arte della guerra nell'era dell'informazione attraverso fake news, disinformazione, leak, trolling. In un lungo, approfondito, affascinante reportage su New Republic i due autori, Hannes Grassegger e Mikael Krogerus, spiegano le tecniche dell'infowar e della cyberwar messe in atto dai russi.

I cyberattacchi pongono una questione tutta nuova su come contenere e come rispondere alle provocazioni e alle interferenze straniere. C'è bisogno di nuovi paradigmi, che vanno oltre i vecchi modelli di contenimento. I cyberconflitti sfuggono alle regole e ai codici che fino oggi hanno governato le modalità di reazione e gestione degli scontri fra potenze, rendendo sempre più difficile definirli e prevenirli.

The United States needs a new paradigm that goes beyond old models of containment—models of warfare based on the assumptions of conventional or nuclear conflict.
(Joshua Kertzer, an international security analyst at Harvard)

Oggi alcuni conflitti, scrivono gli autori, non riguardano territori o risorse, ma l'infrastruttura digitale e il controllo dell'informazione. E una delle armi più potenti è destabilizzare il "nemico", non fronteggiarlo o attaccarlo "fisicamente", ma minando la fiducia da parte dei cittadini nelle proprie istituzioni, e rendendo sempre meno capaci i cittadini di distinguere i fatti dalla finzione.
La cyberguerra ha al cuore della sua filosofia la manipolazione psicologica, attraverso una mirata disinformazione digitale progettata per indebolire un paese dall'interno.

Nel 2013, scrivono Grassegger e Krogerus, Valery Gerasimov, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate russe, pubblicò un articolo su una rivista militare russa, in cui spiegava la strategia di quella che ora viene definita guerra "ibrida" o "non-lineare". "Le linee fra guerra e pace sono sfumate". Nuove forme di antagonismo, come le abbiamo viste con le Primavere Arabe e con le "Colour Revolution", potrebbero trasformare "uno stato perfettamente florido, nel giro di mesi o perfino di giorni, nell'arena di un feroce conflitto armato".

La Russia ha sperimentato e affinato queste tecniche in più occasioni contro altri paesi (in Georgia e in Crimea, così come in Danimarca e Svezia, cyberattacchi sarebbero stati condotti in Olanda, Germania, Francia durante le ultime elezioni. E interferenze russe si sarebbero registrate in Catalogna - secondo quanto riporta El Paìs), ma anche contro i suoi stessi cittadini: manipolando testi scolastici, libri di storia e media e approvando leggi per la protezione dei dati personali della popolazione dalle compagnie straniere. Chi da anni è impegnato a studiare e contrastare questo tipo di propaganda online non ha dubbi e confessa ai due autori: "Puoi proteggerti da questo tipo di propaganda solo tenendo ben allenati i tuoi occhi. Non può davvero contrastarne la diffusione".

Nel 2009 gli USA hanno istituito il proprio Cyber Commander Center, sotto la direzione della National Security Agency. A luglio di quest'anno, sotto l'amministrazione Trump, l'agenzia è stata resa indipendente con un budget annuale di 647 milioni di dollari, 133 squadre operative e ben 6.200 dipendenti. Il dipartimento della Difesa a sua volta ha sviluppato la propria infrastruttura per la cybersicurezza con un team espressamente dedicato al digitale. Il prossimo passo, secondo i due autori, nella strategia di difesa collettiva dell'occidente sarebbe di sviluppare un consenso su ciò che, legalmente, costituisce un atto di cyberguerra.

What does sovereignty mean on the internet? What constitutes “territory” and what is considered an “incursion?”.

La Nato in questi anni ha aperto, come riporta l'articolo di New Republic, diversi centri di ricerca su cyberguerra e cyberattacchi, l'ultimo a settembre sulle "minacce ibride". E così hanno fatto Francia, Svezia, Germania e altri paesi.  La NATO ha pubblicato diverse analisi sulla cosiddetta "information warfare", affrontando quella che viene definita “social engineering,” o come gli Stati o attori non istituzionali possono sfruttare canali mediatici a disposizione, da Instagram ai talk show televisivi. Uno studio recente sul "robottrolling", per esempio, ha scoperto che la maggior parte dei tweet in lingua russa sulla presenza della NATO nei paesi dell'Est Europa è in realtà scritta da bot.

Nonostante tutto, gli investimenti e i centri di ricerca e difesa, è impossibile "risolvere" in maniera definitiva la propaganda online e questa tipologia di attacchi. È impossibile anche dimostrare al 100% chi ci sia dietro queste attività, sebbene le tracce e gli indizi portino a governi ostili. Ed è difficile dichiarare questi atti come "atti di guerra".

E questo spiega anche la persistenza di simili attività, nonostante inchieste, denunce e Commissioni. Questi attacchi continuano senza una reale possibilità di fermarli, i cyberattacchi sono la nuova normalità nelle relazioni ostili a livello globale.

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Ed è chiaro che questo è un problema che attiene soprattutto alle nostre democrazie, alle società aperte fondate sulla libertà di parola e di espressione e per questo più esposte. Ma la Russia di certo non è la sola a usare queste strategie, anzi è in buona compagna insieme agli Usa e ad altri paesi come Iran, Israele, Corea del Nord.

È altrettanto chiaro che se i social media e l'informazione sono utilizzate come armi rischiano di essere minati i legami di fiducia nella società e nelle istituzioni, e in questo contesto garantire l'integrità dell'informazione diventa un affare di sicurezza nazionale. Ma il punto cruciale per l'Occidente è come farlo senza danneggiare e rinunciare a valori fondamentali come la libertà di espressione e la libera circolazione dell'informazione stessa. Per sopravvivere nell'era della guerra dell'informazione, concludono i due autori, l'Occidente dovrà attrezzarsi tecnologicamente e in modo sempre più sofisticato ma noi tutti alla fine dobbiamo accettare che questi attacchi, come la guerriglia e gli attacchi suicidi, non si fermeranno. Sono i nuovi costi di vivere in un mondo connesso.

Immagine copertina via Techcrunch

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